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La voce del dominio: Alexandra
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E-book229 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Alexandra Winter, da tutti soprannominata Lexie, ha quasi vent´anni e studia a Colonia, in Germania. Condivide un appartamento con Konrad, il suo migliore amico, ed è affascinata dalla sua nuova vita di studentessa universitaria.

Eppure, le giornate serene a cui è abituata sono destinate a essere rivoluzionate.

Una notte qualcuno decide di introdursi nella sua stanza, spaventandola a morte. La ragazza riesce a sfuggire agli aggressori con l’aiuto di Jan Martin, giovane professore che ha conosciuto in Università. Grazie alla guida di Jan, la ragazza scopre di essere nipote di Veratyr, Voce del Dominio e Kaiser del Gemeinschaft, la comunità di multimorfi che da secoli prospera in città, all´insaputa dei suoi abitanti.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2013
ISBN9788867821143
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    Anteprima del libro

    La voce del dominio - Giulia Marengo

    GIULIA MARENGO

    LA VOCE DEL DOMINIO

     ALEXANDRA

    EDITRICE GDS

    Giulia Marengo

    La voce del dominio  Alexandra

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    Tel.  02  9094203

    email: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Illustrazione copertina di ©Petra Zari

    Collana ©AKTORIS

    Tutti i diritti riservati.

    «Io non sono fatta per vivere con il tuo odio, ma per stare con colui che amo»

    Sofocle, Antigone.

    Questo libro è dedicato a chi mi è rimasto accanto

    durante la tempesta.       

    E a chi con sé ha portato il sole.

    PROLOGO

    «Jan, svegliati».

    È notte fonda quando la mamma mi scuote.

    Mi mette in piedi con gesti nervosi, e la mano che porge i vestiti trema un poco.

    Il viso è in ombra, ma mi accorgo lo stesso che ha pianto, perché le lacrime sono asciugate sulle sue guance lasciando sottili linee, sinuose e rivelatrici.

    Non dico niente, non chiedo niente, perché non voglio che le lacrime ricomincino a scorrere.

    Una volta vestito di tutto punto, mi prende per mano, e insieme a mio padre usciamo nell’oscurità.

    Fuori ci aspettano due uomini e una donna. Due di loro li conosco: lo zio Balder e la zia Lea, che è la mamma di Matthias e mi sorride quando mi vede arrivare, passando una mano affettuosa fra i miei capelli biondi.

    «Come sei cresciuto», mormora.

    Sorrido e stringo più forte la mano di mia madre, perché la sua è gelata. Il terzo uomo non è molto alto, e ha i capelli rossi. Sul naso sta in bilico un paio di occhiali cerchiati in metallo.

    Saliamo in fretta su due lucide auto nere, e inspiro forte l’odore di pelle dei sedili. Il viaggio mi sembra veloce, perché ho sonno e di tanto in tanto la testa mi scivola ciondoloni, anche se cerco con tutte le mie forze di stare sveglio.

    La mamma si stringe forte a mio padre, e nasconde il volto nell’incavo del suo collo.

    L’auto si ferma e, quando scendiamo, l’uomo sconosciuto ci fa strada verso una casa gialla. Mi sembra di essere già stato lì, ma non ne sono sicuro.

    Sempre in silenzio, seguo la mia famiglia su per una scalinata di marmo bianco, fino a una porta massiccia su cui sono state intagliate scene di caccia, che osservo con malcelata curiosità.

    Fuori dalla porta attende un figuro magro, quasi scarno. Appena vede arrivare l’uomo dai capelli rossi apre il battente, annunciandoci con voce stentorea.

    «Menno, Vicerè del Gemeinschaft, accompagna Adam e Petra Martin, con il figlio Jan».

    Sfiliamo in una sala lunga, dalle finestre schermate da pesanti tende color porpora. I miei piedi non fanno alcun rumore sul tappeto spesso.

    Davanti a me si sta svolgendo una scena che rimarrà incisa nella mia memoria per sempre.

    Su una grossa sedia sta un uomo dai capelli neri, portati lunghi fino alle spalle. Ha un naso importante, ed è massiccio. Stringe fra le mani un bastone, il cui pomolo è una testa di lupo fatta d’argento. Ai suoi piedi, accucciati, due grossi lupi grigi emettono un ringhio sordo.

    So chi è, perché è il Kaiser della nostra comunità. Si chiama Veratyr.

    Di fronte a lui è inginocchiata una coppia.

    Lei, da quel poco che riesco a vedere, visto che mi dà le spalle, è molto bella. Ha lunghi capelli biondi, che catturano le ombre e le restituiscono in bagliori di luce. Fra le braccia stringe qualcosa che a prima vista sembra un fagotto. Per qualche motivo, il piccolo involto attira irresistibilmente il mio sguardo.

    Solo quando il fagotto si muove e vagisce, mi rendo conto che è un bambino, ancora in fasce.

    L’uomo che le sta accanto non riesco a vederlo bene. Colgo solo un ciuffo di capelli castani, e una giacca grigia.

    Il tonfo sordo del bastone di Veratyr sulle assi del pavimento in legno mi fa alzare di scatto la testa.

    «Freya, Figlia della Stirpe, l’accusa che ti viene rivolta è quella di alto tradimento. Cos’hai da dire in tua discolpa?»

    La voce della donna è dimessa, eppure risuona limpida nell’aria pesante della stanza.

    «Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per amore».

    La bocca del Kaiser è una linea sottile. «Un amore che però hai negato alla tua casa e alla tua famiglia».

    «Veratyr, ti prego».

    «Il tempo delle preghiere è finito. Rinnega le tue scelte, oppure pagane le conseguenze».

    La donna volta lo sguardo verso l’uomo accanto a lei. Fra i due scorre una conversazione che nessuno di noi può udire. Una singola lacrima cade a bagnare le fasce che avvolgono il neonato.

    I suoi occhi tornano su Veratyr. «Non rinnego nulla, né mi pento delle mie decisioni passate».

    Il Kaiser lascia sfuggire un lungo sospiro tremulo.

    «Così sia».

    Si alza in piedi, torreggiando sopra le due figure inginocchiate. «Io, Veratyr, Kaiser del Gemeinschaft, condanno mia sorella Freya e suo marito Adalbert a morire per mano del Consiglio. La figlia nata dal tradimento verrà risparmiata, ma crescerà lontano dalla comunità».

    Il Kaiser fa un cenno, e Menno scende dalla pedana per prendere il fagotto stretto fra le braccia di Freya.

    La donna singhiozza, ma non riesco a vedere cosa succede dopo, perché mia madre si è chinata su di me per depormi un bacio sulla fronte. Ha l’aria terribilmente triste, quasi quanto quella di mio padre quando mi stringe in un abbraccio che sa di fumo e di naftalina.

    Alle mie spalle si materializza la zia Lea.

    «Vieni con me, Jan. Vediamo se Matthias è già sveglio».

    Matthias è il mio migliore amico, ma so che qualcosa non va, e non riesco a capire il perché della nostra presenza. Voglio restare accanto ai miei genitori. Mia madre però fa un cenno di incoraggiamento e mi sospinge verso la porta.

    «Và con Lea, Jan. Comportati bene».

    Così obbedisco, fingendo di non vedere che le sue guance sono di nuovo bagnate di lacrime.

    Quando Lea e io siamo quasi arrivati alla porta, alle mie spalle si alza un grido terribile.

    Mi volto e, prima che Lea riesca a impedirmelo, vedo Freya e suo marito divorati dalle fiamme. Alte e terribili, di un colore tendente al viola, ruggiscono nella sala disegnando ombre di morte sui tendaggi porpora.

    Avvolta dalle fiamme, che lambiscono il suo corpo come il bacio di un amante crudele, la donna grida un nome.

    Alexandra.

    CAPITOLO I

    Quel giorno uscii di casa in tutta fretta, ansiosa di chiudere alle mie spalle la porta dello studentato e isolare così il fracasso prodotto dall’inquilino del piano terra, un personaggio bizzarro dedito all’esoterismo, che evitavo come la peste perché aveva la tendenza a dilungarsi in chiacchiere senza capo né coda.

    Era inoffensivo, o almeno così credevo; ma nonostante le lamentele degli altri studenti si ostinava a tenere altissimo il volume dello stereo, e così chiunque si avventurasse per il corridoio veniva aggredito da un’onda sonora fatta di campane a vento e fragore di onde. Alle volte sembrava di stare a Rostock, dove ci avevano portati in gita scolastica tanti anni prima. Ricordavo ancora la violenza dei marosi sospinti dal vento gelido, e la sensazione di mille piccole gocce di acqua salata sulle labbra, mentre stavamo raccolti, tremanti, sotto un cielo plumbeo.

    Infine libera dai rumori molesti del vicino, imbucai svelta una lettera indirizzata a Frau Pötting, la proprietaria dello stabile, nella quale imploravo ancora una volta di mandare un elettricista per sistemare il cavo spellato che pendeva su per le scale. Per me non era un problema  sono sempre stata di statura modesta , ma avevo il sospetto che prima o poi uno dei ragazzi sarebbe rimasto fulminato. Quel posto cominciava a cadere a pezzi.

    Sistemando la cinghia del mio zainetto Eastpack color giallo limone, mi avvolsi stretta la sciarpa di lana intorno al collo, liberando la coda di cavallo che vi era rimasta imprigionata.

    Mi incamminai a passo rapido lungo il marciapiede, anche se in realtà ero molto in anticipo. Come sempre. Ero del tutto incapace di arrivare a un appuntamento in orario o, sia mai, leggermente in ritardo. Ero sempre, sempre in anticipo e, dato che quasi tutti i miei amici erano dei gran ritardatari, la maggior parte delle volte mi ritrovavo ad aspettare da sola per minuti interminabili, alla mercé dell’inclemente clima tedesco.

    Quel giorno però sapevo che Konrad e Rachel erano già all’Università, quindi avrei potuto contare sulla loro compagnia per ingannare il tempo.

    Silenziosa nelle mie gazelle bianche e blu, attraversai Bachemer Straße davanti all’Hildegardis Krankenhaus, la clinica privata, e imboccai il lungo viale dell’Universität Straße.

    Alla mia sinistra proseguivano i giardini dell’HiroshimaNagasaki Park, un po’ spelacchiati a causa delle rigide temperature invernali. Durante l’estate erano affollati di studenti che leggevano, prendevano il sole o giocavano a palla, ma ora solo un docente attraversava il declivio morbido, stringendosi l’impermeabile a difesa della figura magra.

    Superai alcuni capannelli di persone davanti a una libreria, e davanti a me si aprì il grande spiazzo davanti all’Hauptgebäude. Come sempre, era così imponente da mettermi in soggezione.

    Mi trovavo all’Università per la prima volta, diciannove anni appena, e provavo ancora un misto di fascinazione e terrore ogniqualvolta mi avvicinavo a quell’edificio, che trasudava rigore e sapienza come nessun altro. File e file di finestre illuminate, tonnellate di pietra color senape, e all’interno decine di corridoi che conducevano in un alveare di aule, ciascuna gremita di studenti fino a scoppiare.

    Davanti, un esercito di biciclette, osservate con sguardo malinconico dalla statua di Albertus Magnus, il frate dominicano che si dice abbia fondato l’Università di Colonia, nel lontano 1388. Sapevo che era sepolto nella chiesa di St. Andreas, ma mi ero trasferita a Colonia da poco e non ero ancora andata a visitarne la cripta.

    Mentre osservavo la statua di Albertus, sulla cui testa qualche buontempone aveva pensato bene di calare un panama – l’assurdità dell’immagine mi strappò un sorrisetto –, non mi ero resa conto di aver inavvertitamente calpestato la pista ciclabile. Fu solo quando sentii un acuto stridore di freni alle mie spalle che mi voltai di scatto, riuscendo appena in tempo a evitare una bicicletta che mi stava piombando addosso.

    «Ehi, tu, che diavolo hai nel cervello? Non vedi che sei sulla pista ciclabile?» Il ragazzo smontò dalla bici, abbandonandola per terra, e mi si avvicinò con espressione contrariata.

    Lo guardai sgranando gli occhi. A Colonia, come in quasi tutto il resto della Germania, le piste ciclabili sono sacre. I ciclisti non badano minimamente a chi o cosa potrebbe ostruire loro la strada. Tocca ai pedoni e anche agli automobilisti prestare attenzione a non valicare i limiti della pista. Ma avevo la testa fra le nuvole, e proprio non me n’ero accorta. Vidi che tutti i ragazzi presenti attorno a noi mi stavano guardando con curiosità e, credetti, una certa aria di sufficienza, e arrossii. Che errore da principiante.

    Il ragazzo era a pochi centimetri da me. Era alto, di diversi anni più vecchio, e sembrava davvero arrabbiato. «Ma non lo sai che è pericoloso? Potevo romperti qualche osso».

    Deglutii. «Perdonami» mormorai, toccandogli appena il braccio coperto da un kway marrone. «Mi dispiace, ero distratta».

    La sua espressione si ammorbidì di colpo, e arrivò al punto di farmi un sorriso. «Non importa. Cerca di fare attenzione la prossima volta, ok? Qualcuno potrebbe farti male per davvero».

    Annuii, mentre lui riprendeva la bici e vi montava sopra.

    «Scusa ancora! » gridai, mentre si allontanava. Staccò una mano dal manubrio per farmi un cenno di saluto, e io sospirai di sollievo.

    Ero ancora voltata a guardarlo quando sentii una mano sulla spalla.

    «Ecco Lexie che combina pasticci come al solito. Che fai, ti dai alle manie suicide, adesso?»

    Mi voltai e sorrisi nell’incrociare gli occhi blu di Konrad, il mio migliore amico. Era di un anno più vecchio di me, ed era stato grazie a lui che Amelie e Benedict, con cui ero cresciuta, avevano alla fine accettato l’idea di lasciarmi trasferire in città per studiare.

    Konrad stava sempre simpatico a tutti, con quell’aria affidabile da bravo ragazzo che riusciva a conquistarsi fiducia al primo sorriso. Quando si presentò a casa di Benedict con un mazzo di margherite, snocciolando una serie di argomentazioni ragionevoli secondo le quali la mia vita sarebbe stata molto più semplice se non avessi dovuto affrontare tutti i giorni il viaggio di due ore da Lumphausen, il piccolo paese in cui sono cresciuta, seppi che l’avrei avuta vinta.

    E infatti ero lì, nella quarta città più grande della Germania e senza dubbio la più vivace. Io, Alexandra Winter, di Lumphausen, a dividere un alloggio con Konrad, la mia amica Rachel e altri due ragazzi. Incredibile, pensai, osservando quanta sicurezza sembrava emanare il mio amico. Indossava un maglioncino di cachemire a righe viola e si passava una mano fra i folti capelli scuri, fra i quali occhieggiava già, nonostante fosse appena ventenne, qualche filo d’argento.

    «Lexie? Sei ancora fra noi? » mi domandò, un po’ preoccupato.

    «Non chiamarmi Lexie» borbottai, prendendolo sotto braccio e allontanandomi dalla pista ciclabile.

    «Ti chiamo Lexie quanto mi pare. Hai un nome pomposo, lo sai, vero? », mi rispose, sciogliendo il braccio dalla mia stretta e passandomelo intorno alle spalle.

    La diatriba sul mio nome era storia vecchia. A mio parere, Alexandra era bellissimo, un nome complesso, da donna adulta. Peccato che nessuno mi chiamasse così, mai. Ero Lexie per tutti quanti, immancabilmente, e Konrad si divertiva un mondo ad affondare il coltello nella piaga. Così decisi di rendergli la pariglia.

    «Ehi, ma non hai freddo, senza la giacca? Ti prenderai un raffreddore! Rischi il mal di gola, e poi ti verranno le placche, e lo sai che i malanni di stagione possono aggravarsi, e... »

    «Stai zitta, briciola» sbuffò, senza riuscire a restare serio. «Non sei mia madre».

    Konrad aveva sempre caldo. Ed era incredibile, perché la Germania occidentale non è proprio una terra dal clima temperato, e poi io ero l’esatto opposto. Avevo sempre freddo. Anche ad agosto.

    Invece lui sembrava emanare calore come una stufa, tanto da riuscire a stare fermo nel bel mezzo dell’Albertus Magnus Platz, all’inizio di febbraio, con addosso solo un maglioncino.

    «Beh, io ho freddo», ribattei.

    «Che novità».

    «Voglio un latte macchiato», cantilenai. Riuscivamo ad andare avanti così per ore, un botta e risposta infinito.

    «Un altro? Ma quanti ne bevi? Non preferiresti una fetta di pizza da Baffo?»

    Mi scostai e lo guardai a bocca aperta, le mani sui fianchi, ostentando indignazione. «Allora! Come ti permetti?»

    Baffo era la ragazza che serviva la pizza al chiosco davanti al Philosophikum. Si era guadagnata il soprannome perché in effetti aveva una quantità di peluria scura sul labbro superiore, che secondo Konrad la faceva assomigliare un poco a Tom Selleck. Certo, non sarà forse stata una bellezza, ma il soprannome era davvero crudele.

    Lui sapeva che la cosa mi dava fastidio, e non mancava mai di punzecchiarmi a proposito.

    «Comunque non posso. Devo vedere un professore alle due e mezza».

    Lanciò un’occhiata all’orologio da polso. Le due e un quarto. «Ok, ti accompagno a bere il tuo latte macchiato. Chi è il professore? Herr Schulz?»

    Entrai al Cafè del Philosophikum e mi misi in coda. «No, Herr Schulz mi ha scritto un’email in cui si scusava, ma diceva di essere troppo preso per accettare altri corsisti. Mi ha consigliato il suo assistente, Herr Martin».

    Konrad fece una lunga pausa, pescando nelle tasche dei jeans un paio di euro per pagare il mio latte macchiato. Quando riprese a parlare, non mi guardava. «Herr Martin? Jan Martin?» chiese, con un tono di voce così neutro che mi fece alzare lo sguardo su di lui con curiosità.

    «Sì, perché? Lo conosci?»

    Prese lo scontrino e spinse il bicchiere bollente verso di me. «L’ho visto in giro. Non sapevo che tenesse corsi a Filologia».

    Feci spallucce. «Speriamo che non mi

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