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Occhi esterrefatti
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E-book97 pagine1 ora

Occhi esterrefatti

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Gli infiniti Occhi esterrefatti sono quelli di una natura attonita ed esausta che rivolgono una silenziosa richiesta di aiuto a uno spirito creatore maestoso e compassionevole, per avere sollievo da una distruttività che ha un unico responsabile – l’uomo.
È il racconto centrale di una raccolta composita, le cui tante sfaccettature trovano un fattore comune in una speciale sensibilità e nella raffinatezza di una scrittura accurata e convinta, che sapientemente sa mutare il proprio registro, adattarsi a differenti necessità espressive, e trasfigurare le inquietudini degli animi.
In un abisso di disagio sociale e lavorativo cresce, violenta e ossessiva, la paranoia della protagonista di Pazze, mentre è tutto un mondo che si disfa a specchiarsi nelle incertezze paradossali e via via sempre più spaventose di Virus.
Ma c’è anche il soffio del passato, evocativo, complicato, malinconico, con il suo carico di segreti e di ricordi perduti. Niente più che un aroma li sa riportare indietro da tempi ormai lontani, ed ecco Odori vividi come fantasmi che sul confine tra due mondi non trovano pace. La sospensione del tempo fa librare il pensiero tra ciò che era e ciò che forse sarà stato, e la reminiscenza di Vecchio e nuovo si dipinge dolceamara sui rovi di un parco e tra le eco della sua antica proprietaria. I sopravvissuti di ieri sono vittime nelle nuove battaglie di oggi, e la memoria di Ventidue italiani fa fragile il senso di ogni vita.
Realtà e psiche si intrecciano, confondono i propri contorni, si scambiano significati e orizzonti in storie cariche di tensione e di emotività.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2023
ISBN9791254572641
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    Anteprima del libro

    Occhi esterrefatti - Monica Monetti

    Ventidue italiani

    Stanno facendo una retata, prenderanno uomini e anche ragazzi. Mia madre strattona mio fratello per un braccio e lo spinge oltre la porta del granaio.

    Non ti muovere, sussurra, non accendere la candela, stai qui, non accendere la candela. Hai capito?

    Da questa mattina, la camionetta è passata già due volte, e ha spaventato mamma. Ci ordina di andarcene prima possibile da casa, il posto più sicuro sono i campi, dobbiamo attraversarli e non tornare in paese fino a sera.

    Mia sorella non vuole seguirmi, piange, e quando la spingo fuori casa trema come un ramoscello esposto a questo vento gelido. Ma deve obbedire alla mamma, i tedeschi sono troppo vicini a noi.

    Ormai è mezzogiorno, nessuno mette l’acqua a scaldare oggi, no, oggi attraversiamo la lunga fascia di campi e gli zoccoli di legno affondano nel fango lasciato dalle piogge dei giorni scorsi. L’unica acqua è questa, mista a terra e foglie secche.

    Vieni, vieni qui, dice mia sorella. Il sole, oggi, si fa vedere, ha intiepidito l’aria e il cielo è di un azzurro chiaro. Ormai è quasi primavera, anche se fino a ieri non sembrava.

    Dai che torniamo indietro, verso la strada, dai, andiamo a vedere se è vero. Li fucilano, hai sentito? Li fucilano.

    Per non farci vedere, saltiamo il fossato passando per il casolare degli Sgaravati. Non c’è più nessuno, ormai, in quella grande casa e il sentiero sul retro porta proprio alla siepe. È la scelta più stupida da fare, spiare i tedeschi mentre ammassano gli uomini. Ma noi stiamo a guardarli protette dall’ammasso di rovi mentre li strattonano, poi li picchiano con il manico del fucile per metterli tutti in riga.

    Raus, schnell.

    Perché i soldati ci sono ancora, tutti in fila, nascosti dentro i loro lunghi cappotti sporchi di fango? Il più cattivo se ne sta di lato, da come impartisce ordini, si capisce che è il capo.

    Raus, raus.

    Gli uomini sono rassegnati, se ne stanno ammassati contro il muro stringendosi tra loro in un inutile tentativo di difendersi dalle raffiche di proiettili, si limitano ad aspettare in silenzio che succeda qualcosa, magari un miracolo. Sono solo contadini, per fortuna tutti vecchi vestiti di stracci.

    Solo vecchi, per fortuna, dico a mia sorella.

    Tanto i tedeschi si accontentano anche di loro.

    Un paio li conosco, uno deve essere anche un nostro parente.

    Torniamo indietro, andiamo a dirlo alla mamma.

    Inutilmente mi tappo le orecchie per non sentire gli spari, le fucilate mi entrano nel cervello costringendomi a trattenere un urlo. Mi ritrovo a strattonare mia sorella senza rendermene conto, poi ci guardiamo attorno e all’improvviso capiamo di essere al centro dell’inferno.

    Dobbiamo allontanarci dalla strada. Corri, corri, le dico sottovoce. Sono impaurita a morte.

    Scappiamo, sbrigati. Vai, vai.

    Con questi tedeschi non si può rischiare, prendono anche le donne e non per fucilarle. Se una di noi viene catturata preferirebbe essere fucilata che uscirne viva.

    Mia madre ha detto che uccidono gli uomini per vendetta: due tedeschi uccisi dai partigiani valgono venti italiani.

    Ho tanta paura, non sopporto gli spari e queste voci pungenti. Gli arbusti spogli mi hanno lacerato le caviglie e il mio vestito è sporco di sangue. Anche le mani sono insanguinate, me ne accorgo solo ora, mentre corriamo spaventate lungo un filare di vigne spoglie. Cado contro gli arbusti ferendomi ancora. Sanguino. E poi cado un’altra volta.

    La luce è troppo forte, non capisco più dove sono finita, mi hanno detto che mi hanno condotta in ospedale per una visita e dovrò sottopormi a una radiografia. Non è facile ottenere informazioni da questa gente, sembrano troppo indaffarati a scappare da tutte le parti. Continuano a passarmi vicino ma nessuno risponde alle mie domande. Non riesco a distinguere queste persone, non capisco se sono uomini o donne, giovani, vecchi. Sono nascosti da divise bianche e le mascherine sul volto rendono le loro parole impastate. Chi mi ha accompagnata fino a qui indossava una visiera strana, come quelle dei saldatori.

    La schiena comincia a farmi male, le gambe, poi, mi prudono e non riesco più ad alzare la testa. Ho la sensazione di non sanguinare come prima, ma non posso osservarmi le mani, sembrano bloccate da qualcosa.

    Non mi sono accorta di essere stata trasportata in un’altra stanza, devo essermi addormentata durante il tragitto. Questo posto sembra più freddo dell’altro corridoio, almeno qui le luci sono soffuse, così non sono costretta tenere gli occhi sempre chiusi.

    Una voce mi avvisa che mi daranno dei farmaci e poi mi riporteranno indietro.

    Nessuno nomina mia figlia. Ha telefonato? Se avessi il cellulare la chiamerei per chiederle cosa sta succedendo, perché sono qui? Perché sono venuti a prendermi senza preavviso, impedendomi di mettere una maglia grossa sopra il pigiama? Non mi hanno lasciato prendere la coperta, figlia mia, non ho potuto nemmeno controllare se ho sporcato di sangue il pigiama pulito, quello che mi hai stirato tu. Mi hanno coperto con un lenzuolo freddo e ruvido prima di caricarmi sull’ambulanza, senza dirmi niente.

    Vorrei far capire a questa gente che non ci sento come una volta e sanguino. Sanguino molto.

    I cadaveri sono ancora ammucchiati addosso al muro, troppo pericoloso andarli a prendere finché c’è luce e le camionette continuano a passare lungo la strada. Questi tedeschi sembrano una colonia di formiche che si agita affamata e si sposta in continuazione in cerca di prede. E non si capisce niente di quello che dicono.

    Mia madre è andata a prendere la moglie di uno dei fucilati, quel nostro cugino, e ora cerca di consolarla recitando il rosario assieme a tutte noi.

    Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria.

    Mio fratello, intanto, è andato a prendere il prete dalla canonica, comunque non servirà a niente, i corpi immobili rimangono ancora vicino al muro. Nessuno ha potuto nemmeno coprirli con i sacchi del granturco che qualcuno ha lasciato sulla strada.

    Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, riposa in pace. Lo dice al cappello di mio cugino, ecco, il prete si è limitato a benedire un cappello da contadino sfilacciato sul bordo.

    Ma’.

    Andranno questa notte a prenderli, li porteranno in chiesa, dice la mamma, se i tedeschi vanno via forse domani riusciranno a seppellirli.

    Maledetti, maledetti.

    Se mi devono spostare, lo fanno con molta facilità, ormai le mie ossa sono leggere come ramoscelli secchi. Dicono che non è vero, ma io sento un forte dolore al bacino quando mi maneggiano. Mi ordinano di stare tranquilla. Una voce gentile mi chiede di trattenere il respiro e di non agitarmi troppo, qualcuno urla oltre un vetro. Ripeto che devo avvisare mia figlia e ho sporcato il lenzuolo di sangue.

    Ma qui nessuno sta ad ascoltare.

    Per fortuna qualcuno mi informa che presto mi riporteranno a casa, e non sono nemmeno sporca di sangue. No signora, non si è ferita. Qui è al sicuro.

    A casa potrò assaggiare la minestra, anzi, prenderò solo il tè con dei biscotti. La cosa più sensata è chiamare mia figlia per

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