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Racconti Horror
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E-book153 pagine2 ore

Racconti Horror

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Info su questo ebook

In questa piccola e raffinata antologia, Marco Salvario ha selezionato e raccolto diciassette dei suoi più bei racconti horror scritti tra il 2002 e il 2017, rivedendoli e aggiornandoli, ma senza togliere nulla alla loro tensione e alla loro capacità di regalare brividi e paure. Le storie affrontano aspetti diversi del mondo horror, dai classici zombi ai vampiri e alle mummie, dai diavoli alle sempre amatissime streghe, dai mostri reali a quelli del nostro subconscio.
La galleria di personaggi, di storie e di forti emozioni, che è offerta al lettore, troverà sicuramente il modo di fare breccia nelle sue certezze e lo accompagnerà con perverso piacere nei suoi sonni, rendendoli inquietanti e agitati.
LinguaItaliano
EditoreSalvario
Data di uscita3 mar 2018
ISBN9788827500019
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    Anteprima del libro

    Racconti Horror - Marco Salvario

    coincidenza.

    Introduzione

    Racconti horror è un’antologia di opere brevi, composte in circa quindici anni, dal 2002 al 2017, e che sono state iscritte a concorsi letterari o pubblicate su siti di scrittura. Si tratta di una produzione vasta, che ho sfoltito selezionando i lavori che hanno ottenuto più riconoscimenti e più interesse. Tutte le opere sono state riviste e profondamente riesaminate nell’impostazione e nella scrittura.

    Nel loro insieme le storie affrontano aspetti diversi del mondo horror, dai classici zombi ai vampiri e alle mummie, dai diavoli alle mie sempre amatissime streghe, dai mostri reali a quelli del nostro subconscio.

    Ovviamente quest’antologia è il faticoso frutto del mio modo personale di vivere il genere horror e forse il lettore non sempre lo apprezzerà e condividerà. Quello che spero è che, quando avrà letto fino all’ultima pagina, qualcuno dei miei incubi rimanga con lui, come una piacevole ed elettrizzante compagnia.

    Marco Salvario

    Torino, 2018

    Emma

    Scendo prima che Roberto abbia fermato completamente la Mercedes, spalancando la portiera argentata e affondando con le scarpe nel fango, che lo strato di ghiaia non riesce a drenare. Davanti al cancello del cimitero, due vecchie vestite a lutto e nascoste sotto un grande ombrello da uomo, mi rivolgono un diffidente segno di saluto a cui non rispondo.

    Le nuvole e la nebbia rendono il pomeriggio buio come la notte. Affrettando il passo, rischiando di scivolare sul marmo bagnato di una tomba, raggiungo la zona delle cappelle private. Ecco! Basta una spinta per aprire la porta di metallo dorato e per accertarmi che davvero Emma non è più lì.

    Colpisco una pietra con un calcio nervoso e comincio a cercare qualche traccia percorrendo il viale principale. Seguendo il mio istinto, affronto il dedalo dei piccoli attraversamenti. Mi fermo e ascolto, ma gli unici rumori sono lo sgocciolare dell’acqua e il mio respiro affannato. Sto per rinunciare, quando la vedo o, almeno, distinguo qualcosa che il cuore mi dice essere lei. Un drappo nero madido di pioggia e abbandonato contro una lapide di marmo, una tunica raffinata che copre un corpo minuto e grigio, i capelli biondi, chiari come la luce della luna.

    Mi chino su di lei, le allontano una ciocca dal volto, la prendo tra le braccia e la sollevo da terra. Il suo corpo leggero ha un tremito e, mentre la porto verso il cancello, alza una mano gelida e mi cinge il collo.

    «Piccola stupida! Dove volevi andare?»

    Il braccio gelato mi stringe con energia inaspettata: «Ero sola. Perché mi avete abbandonato?»

    «Paurosa! Non ti abbiamo abbandonato. Roberto ha guidato come un demonio ed è ancora giorno.»

    Ride piano. Le sue dita magre dalla pelle sottile e solcata da vene azzurre, mi accarezzano il volto.

    «Perché Roberto è un demonio!»

    Cerco di baciarle la mano: «Ed io, io cosa sono?»

    Non risponde, non sa dirlo. Io sono un pazzo crudele e un criminale.

    Roberto apre le portiere, preoccupato e sollecito. «L’ha trovata! La signorina sta bene, signore?»

    Annuisco per rassicurarlo. La signorina! Adagiamo Emma sul sedile posteriore e la avvolgo con il plaid morbido e colorato che Roberto mi porge. Mi siedo accanto a lei, le bacio le labbra di ghiaccio, le strofino forte le braccia, poi dolcemente il seno.

    Sì, Emma sta bene.

    Silenziosa la Mercedes riparte, abbandonando il parcheggio paludoso. Ora non c’è più fretta. L’interno dell’auto è un’isola tiepida in un mare ostile di nebbia e vento.

    Emma appoggia alla mia spalla il peso abbandonato della testa. Le passo il braccio destro dietro la schiena e lei si lascia cingere, accoccolandosi in cerca del mio calore.

    La prendo in giro: «Piccola randagia, da quando ti svegli a metà pomeriggio?»

    Lei mi osserva strana, dal basso verso l’alto: «Il cielo era buio, senza sole.»

    Un’auto della polizia ci fa cenno di rallentare, poi di proseguire con attenzione. Un grosso ramo si è spezzato da un albero ed è caduto invadendo la carreggiata. Roberto ringrazia alzando il braccio. Emma non si è accorta di nulla. Si strofina al mio fianco, avidamente le sue mani mi scoprono la spalla.

    Chiudo gli occhi, allontanando la vertigine. «Non puoi attendere? A casa, la mia cantina è ben fornita e a tua completa disposizione.»

    Non aspetta. Un dolore alla base del collo, poco più acuto di una puntura, un rantolo come un lamento d’amore, poi la sua bocca succhia il mio sangue, avida come il neonato che succhia il latte della mamma. Per me è un fastidio minimo, un pizzicore cui presto mi abituo.

    «Non hai mai avuto pazienza», protesto rassegnato e cerco di controllare i battiti affannati del cuore e la sottile nausea che mi morde lo stomaco. Non mi muovo. Meno di un minuto ed Emma si stacca da me, la sua lingua appuntita accarezza la piccola ferita.

    «Scusami.»

    Note beffarde nella sua voce, mentre brillano nello specchietto retrovisore gli occhi ironici di Roberto. Il riscaldamento dell’auto accentua l’odore umido e dolciastro del corpo d’Emma. La ragazza si abbandona a una sonnolenza agitata e rabbiosa. Le allontano la testa, perché non mi morda di nuovo, e i suoi denti si chiudono sul plaid.

    «La bestiola è affamata!» mormoro perplesso.

    Una gattina a cui accarezzo con tenerezza i capelli umidi e morbidi, tenendo la mano distante dalla sua bocca. La piccola ferita non sanguina eppure mi tormenta fastidiosa.

    La voce di Roberto è brusca: «Siamo arrivati, signore!»

    Quella che noi chiamiamo la cantina è un basso seminterrato senza finestre. La porta di legno è spessa e in grado di assorbire ogni rumore. Quattro giri di chiave per aprirla.

    Odore di muffa e sudore. A distanza regolare l’uno dall’altro, adagiati su semplici letti senza lenzuola, otto corpi nudi che, accecati dalla luce improvvisa, alzano le braccia a proteggere gli occhi.

    Irrequieta e aggressiva, Emma avanza a piedi scalzi, le narici dilatate; la tunica nera, scivolata su una spalla, le scopre un seno magro e aguzzo. Una giovane donna segue i suoi passi con occhi sgranati e terrorizzati, la bocca chiusa da un bavaglio, le braccia immobilizzate dietro la schiena e bloccate a un anello di acciaio inchiodato nella parete. Una prigioniera che sto ancora educando alle regole del silenzio e della sottomissione in vigore nella cantina.

    Emma si avvicina, l’esamina senza fretta e dopo torna verso di me. Le sue iridi chiare, perse nel bianco dell’occhio, danzano curiose. «Chi è?»

    «Si chiama Cinzia. Una tipa distratta, che ha sbagliato la fermata dell’autobus e ha fatto l’autostop alle persone sbagliate. Non è ancora pronta per te.»

    Emma annuisce e la osserva ancora a lungo, passandosi la lingua avidamente sulle labbra. Va oltre e una giovane slava, i capelli lunghissimi, non riesce a trattenersi e mugola una preghiera stridula oppure una maledizione, arretrando fino a urtare con violenza contro il muro grezzo.

    La colpisco due volte col frustino: «Zitta!»

    La zingara si rannicchia e soffia altre maledizioni. Non tollero le proteste e la punirò, quando Emma sarà andata via; le strapperò la pelle a frustate, aggiungendo nuovi solchi sulla sua schiena. Servirà di lezione a lei, a Cinzia e ai miei altri ospiti, anche se lei non sarà mai davvero sottomessa. Credo che il suo destino sia di morire sotto i miei colpi piuttosto che sotto i denti di Emma.

    In fondo alla cantina aspetta in ginocchio un ragazzo di una ventina d’anni e dai capelli rossi. Non parla italiano, balbetta solo qualche incerta parola, e non ho capito il suo nome, però è il mio prigioniero più ubbidiente e il preferito da Emma. Ha scelto lui anche oggi, nonostante il suo corpo magro sia ancora provato da quando, la notte di sabato, si è cibata di lui con un’avidità che l’ha sfinito.

    Acconsento con un cenno del capo.

    Emma si siede sul pavimento e accarezza il viso del prigioniero con le dita sottili. Un gesto gentile e feroce perché le lunghe unghie, taglienti come rasoi, gli graffiano le guance. Due pesanti catene ne limitano i movimenti ed io, in piedi davanti a lui, gli sono irraggiungibile.

    Emma si libera della tunica e il suo corpo adolescente, dalla pelle lattea, brilla luminoso nella penombra.

    Il ragazzo la osserva affascinato, disegnato sul suo volto c’è un desiderio disperato e un’accettazione del proprio destino che mi commuove. Emma accenna un sorriso enigmatico ed emette un suono sottile e doloroso che non si articola a diventare parola, mentre annusa il volto del ragazzo e ne stuzzica l’orecchio. Gli bacia gli occhi, lo cerca con tocchi minimi e vivaci che mi fanno sfuggire un gemito geloso. Baci avidi sulle braccia, finché con una spinta lo costringe contro il muro.

    Gli soffia sul collo scoprendo denti da lupa, rapida scende verso il petto. È sulla mammella destra che colpisce, costringendo il ragazzo a un movimento istintivo di ribellione. Mentre Emma succhia il sangue con un movimento ritmato, lui ha fremiti disordinati, sempre più deboli e prevedibili. Ne osservo tremare le gambe magre e inarcarsi la schiena, solleva il pube dalla peluria fitta e arruffata, mentre il pene si gonfia in un’incerta erezione.

    Senza interrompersi, Emma alza gli occhi su di me ed è uno sguardo che non so interpretare, dispettoso e bugiardo.

    M’inginocchio vicino ai due corpi sempre più stretti, con Emma che avvolge la sua preda come a inglobarla. Allungo la mano cercandole il seno, ma lei la rifiuta, trascinando la sua preda più lontano e tendendo le catene che la imprigionano. I suoi denti stringono con più forza, allargando la ferita.

    Resto affascinato a contemplare la sua fame di donna/belva nel rito malvagio della nutrizione. Provo di nuovo ad accarezzarla e le sue unghie scattano cercando di ferirmi.

    «Attenta! Sono io!»

    Sono arrabbiato e mi sento tradito. I suoi occhi mi minacciano e alzo il braccio col frustino per colpirla, poi lo lascio ricadere. Emma in questo momento è forte abbastanza da scaraventarmi contro il muro e frantumarmi la schiena. Il sangue caldo la ubriaca e la rende selvaggia.

    Mi alzo in piedi indispettito e aggiusto la giacca.

    «Sei un’ingrata!» Non pretendo il suo amore, eppure avere la sua riconoscenza, sarebbe un mio diritto.

    Ho lasciato la cantina. Mi verso da bere due dita di Martini e la mano mi trema violentemente.

    Roberto mi spia dalla porta ed io lo aggredisco: «Che guardi? Che cosa vuoi?»

    «Il conte ha bisogno di me?»

    «Adesso non ho bisogno di nessuno, vattene!»

    Bevo in fretta e mi gira la testa. Devo sedermi.

    Io amo Emma. E la odio.

    Torno in cantina. La pallida vampira non c’è più. Sollevo la sua vittima esanime e verso nella sua bocca un breve sorso d’acqua. Inghiotte tossendo; non so se riuscirà a riprendersi. Accarezzo i capelli rossi, poi abbasso la testa e gli bacio il petto, dove Emma l’ha ferito: «Bravo, ragazzo mio.»

    Allungo le sue catene perché possa stare disteso, dopo esco e cerco Emma, però senza trovarla. Anche Roberto è sparito. Guardo stanza per stanza, salgo al primo piano, ricontrollo dove ho già guardato. Nulla, entrambi non sono in casa.

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