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Nôtre dame du mal
Nôtre dame du mal
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E-book230 pagine2 ore

Nôtre dame du mal

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Info su questo ebook

ROMANZO (130 pagine) - HORROR - "Alessia Tripaldi crea paura allo stato puro, rovesciando sensazioni e ricostruzioni che la fede ha piantato nella memoria collettiva cristiana (e non solo) quasi con la stessa forza con cui furono ficcati tre chiodi nel legno della croce." (Nevio Galeati)

Per Sara, 17enne leccese, la Signora che compare come un fantasma invitandola a seguirla non è un miracolo, ma una maledizione. Voci di preghiera le riempiono la testa; un santuario di calcinacci e tubi di ferro sorge dalla notte al giorno tra le sue mani; il sangue diventa latte. La Madre Eterna col suo sorriso sempre uguale è la "Nostra Signora del Male". Una Commissione Miracoli viene istituita per investigare sui fenomeni inspiegabili legati alla ragazza. Un prete esorcista, una psicologa e un medico si muovono tra le pieghe delle chiese barocche e i corridoi bui di un monastero di clausura, sovrastati dall'ombra del Vaticano, che nasconde una Verità millenaria.

Alessia Tripaldi, sociologa e sceneggiatrice, si occupa di strutture narrative e pensiero creativo, curando nelle Marche un progetto di pre-incubazione di start up culturali. Come scrittrice ha esordito col racconto "La Danza", pubblicato nell'antologia "Roma a mano armata" (Novecento Editore)

Copertina di Nicola Guerri
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2015
ISBN9788867757275
Nôtre dame du mal

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    Anteprima del libro

    Nôtre dame du mal - Alessia Tripaldi

    a cura di Franco Forte

    Alessia Tripaldi

    Nôtre dame du mal

    Romanzo

    Prima edizione marzo 2015

    ISBN 9788867757275

    © 2015 Alessia Tripaldi

    Copertina: Nicola Guerri

    Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl

    Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano

    Versione: 1.0

    Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI

    Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.

    Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria

    Indice

    Il libro

    L'autore

    Nôtre dame du mal

    Dedica

    Citazione

    Prologo. La visita

    Parte I. Salve, Regina

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7. Salve, Regina

    Intermezzo. La nascita

    Parte II. Liberaci dal male

    1.

    2.

    3.

    4.

    5. Liberaci dal male

    Intermezzo. La Signora

    Parte III. Il Signore è con te

    1.

    2.

    3.

    4. Il Signore è con te

    Epilogo. L’assunzione

    Postfazione. Un dolore senza fine

    Ringraziamenti

    Delos Digital e il DRM

    In questa collana

    Tutti gli ebook Bus Stop

    Il libro

    Alessia Tripaldi crea paura allo stato puro, rovesciando sensazioni e ricostruzioni che la fede ha piantato nella memoria collettiva cristiana (e non solo) quasi con la stessa forza con cui furono ficcati tre chiodi nel legno della croce. (Nevio Galeati)

    Per Sara, 17enne leccese, la Signora che compare come un fantasma invitandola a seguirla non è un miracolo, ma una maledizione. Voci di preghiera le riempiono la testa; un santuario di calcinacci e tubi di ferro sorge dalla notte al giorno tra le sue mani; il sangue diventa latte. La Madre Eterna col suo sorriso sempre uguale è la Nostra Signora del Male. Una Commissione Miracoli viene istituita per investigare sui fenomeni inspiegabili legati alla ragazza. Un prete esorcista, una psicologa e un medico si muovono tra le pieghe delle chiese barocche e i corridoi bui di un monastero di clausura, sovrastati dall’ombra del Vaticano, che nasconde una Verità millenaria.

    L'autore

    Alessia Tripaldi, sociologa e sceneggiatrice, si occupa di strutture narrative e pensiero creativo, curando nelle Marche un progetto di pre-incubazione di start up culturali. Come scrittrice ha esordito col racconto "La Danza", pubblicato nell'antologia "Roma a mano armata" (Novecento Editore, Collana Calibro 9)

    Al Maestro. Lord save the King.

    Alla mia famiglia, per tutto il resto.

    A Luca. Che te lo dico a fare.

    Father (brother)

    Father (mother)

    Father (fucker)

    FATHER

    Father into your hands

    I commend my spirit

    Father into your hands

    Why have you

    Forsaken me

    In your eyes

    Forsaken me

    In your thoughts

    Forsaken me

    In your heart

    Forsaken me

    Oh, trust in my

    Self–righteous suicide

    I cry when angels deserve to die

    In my self–righteous suicide

    I cry when angels deserve to die

    (System Of A Down, Chop Suey!)

    Prologo. La visita

    La Fanciulla si sveglia. La sedia di legno cigola sotto il peso leggero del suo corpo. Nella stanza percepisce una seconda presenza, calda. La Fanciulla gira a fatica il collo ancora addormentato, che protesta con uno scricchiolio. L’Uomo di Fuoco muove un passo verso di lei. La Fanciulla resta immobile, ipnotizzata dalle fiamme. Solo la mandibola si apre lentamente per restarsene lì, caduta.

    L’Uomo non sembra soffrire.

    (… ma è un uomo?)

    La Fanciulla registra la forma di un seno sotto la tunica mossa dalle vampate. Un attimo dopo la tunica si apre, carbonizzata, su un petto piatto, da maschio. I lineamenti dell’uomo (o della Donna) si muovono col fuoco. Un pezzo di guancia si stacca scoprendo un osso annerito; la guancia ritrova il suo posto tirandosi dietro il labbro inferiore, che si allunga quasi fino all’orecchio. Il guizzo di una fiammella modella la cartilagine, trasformando l’orecchio umano in quello di un asino.

    Ogni mutamento si sovrappone all’altro.

    La Fanciulla avverte il magnetismo degli occhi, fissi nei suoi e al tempo stesso mobili come l’acqua e il vapore, liquidi.

    Il fuoco gonfia l’occhio destro fino a farlo scoppiare in una bolla. La Fanciulla sobbalza. Un secondo dopo – o nello stesso secondo – l’occhio è di nuovo lì, ma ha cambiato colore.

    La Figura con un occhio nero e uno blu avanza ancora verso di lei, e stavolta sotto alla tunica che continua a lacerarsi e a ricomporsi alla Fanciulla sembra di riconoscere la forma di un’ala. La Figura alza il dito indice e lo appoggia sulla sua fronte, in mezzo agli occhi. La Fanciulla osserva da vicino le dita disarticolate dalle fiamme, dita di bimbo, di animale, di vecchio. Un fiocco arso le cade sul vestito, ma si spegne in uno sbuffo lasciando il cotone immacolato.

    La Figura schiude le labbra, e la Fanciulla si accorge con orrore che il fuoco la consuma da dentro, riempiendole la bocca fino a ridurre i denti a moncherini neri. Finalmente parla, con una voce arrochita dalle fiamme che si fanno strada nella gola e divorano la lingua.

    La Fanciulla si accorge solo ora di aver tenuto la bocca aperta per tutto il tempo e la richiude piano, bagnandosi le labbra quel tanto che basta per pronunciare la risposta.

    – Ktlm kya yl awhn.

    Poi chiude gli occhi.

    La Fanciulla si sveglia. La sedia di legno cigola sotto il peso gravido del suo corpo. Sugli occhi scorrono immagini confuse: una tunica strappata, un orecchio d’asino, un occhio che si spacca. Le immagini si smembrano cedendo il posto alla stanza. La Fanciulla si lascia confortare dalla sensazione di familiarità: il camino, il tavolo tarlato, la crepa che taglia in due il soffitto. Abbandona il sogno massaggiandosi il collo indolenzito. Ma quando fa per alzarsi un peso inaspettato la ricaccia sulla sedia.

    La Fanciulla urla senza accorgersi di urlare, gli occhi fermi sulla pancia, gonfia di una vita che si muove.

    Parte I. Salve, Regina

    O il pozzo era profondissimo

    oppure Alice precipitava lentissimamente,

    perché mentre cadeva

    ebbe un mucchio di tempo

    per guardarsi intorno

    e chiedersi cosa sarebbe accaduto poi.

    (Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie)

    1.

    I signori passeggeri sono pregati di rimanere con le cinture allacciate fino allo spegnimento dell’apposito segnale

    I signori passeggeri erano tutti in piedi, incollati l’uno all’altro in un groviglio di braccia tese a recuperare i bagagli a mano, che finivano puntualmente sulla testa di quello dietro, con il tappeto sonoro di scuse poco convinte, seguite dal suono di accensione dei cellulari, preludio di dialoghi sbuffanti che ripetevano lo stesso ritornello: Non ci fanno scendere, come se tenerli prigionieri della scatola di latta rispondesse a una precisa politica aziendale.

    Virginia non era da meno. Incastrata tra due omoni che la superavano di una testa e una banana, cercava con gli occhi un varco verso il portellone con il telefonino incollato alla guancia.

    – Cos’hai addosso?

    Si controllò dal collo in giù, tanto per essere sicura.

    – Il vestito di lana fino al ginocchio. E i tacchi.

    – T’immaginavo in pantaloni.

    – Dici che i pantaloni erano più professionali?

    – No, ho solo detto che t’immaginavo in pantaloni.

    – Comunque ne ho due paia, nel trolley…

    Non aveva nemmeno finito di parlare che già si morsicava la bocca: addirittura non uno ma ben due paia? Ma brava…

    L’aspetto non l'aiutava: dimostrava vent’anni dal giorno in cui li aveva compiuti, nell’attesa di un seno che non si era mai deciso a sbocciare. Il resto del corpo erano quattr’ossa tenute insieme da fasce elastiche di pelle, un caschetto di capelli perennemente indecisi tra riccio e liscio, e biondo e castano (a 34 anni suonati non se ne contava nemmeno uno bianco), e mani piccole capaci però di monumentali atti di goffaggine.

    Questo se Virginia avesse dovuto descrivere se stessa.

    Se invece fosse toccato a Francesco tracciare l’identikit di sua moglie, avrebbe sicuramente cominciato dai segni particolari: la schiena a violoncello chiusa da una fossetta proprio sopra l’apertura delle natiche e gli occhi da falco; occhi che si fermavano su un soggetto per una frazione di secondo, scattavano un’istantanea che il cervello provvedeva immediatamente a scannerizzare e si spostavano poi sul soggetto successivo.

    Occhi svelti, per non dire inquieti.

    – Hanno aperto. Devo scendere, aspetta.

    Virginia affrontò i gradini cercando un improbabile equilibrio con le braccia: la mano che impugnava il cellulare era levata verso il cielo, rigida, mentre l’altra stringeva al fianco la borsa, in un’involontaria imitazione della Statua della Libertà.

    Immaginava, anzi, sapeva, che Francesco aspettava paziente all’altro capo del telefono, con il sorrisetto divertito di chi immaginava, anzi, sapeva, che la punta della lingua le spuntava dall’angolo delle labbra mentre cercava di non incastrare un tacco nella scaletta.

    – Ho deciso a chi assomiglia.

    Francesco lo aveva detto mentre Virginia sedeva paziente davanti al nastro del recupero bagagli, conscia che per la legge di Murphy il suo sarebbe stato l’ultimo (se non era addirittura andato smarrito). Quasi ci rimase male quando, dietro un valigione lungo che sembrava una cassa da morto, venne sputato fuori il suo trolley rosso.

    Stavolta fu lei a restarsene zitta con un sorrisetto divertito: la curiosità di Francesco nei confronti della sua immediata collaborazione con un esorcista vero aveva assunto le proporzioni dell’eccitazione infantile. Soprattutto, lo tormentava la questione dell’aspetto: che faccia ha un esorcista vero?

    Per giorni Francesco aveva tirato fuori dal cappello nomi di personaggi famosi; il tratto comune a tutti erano le borse rugose sotto agli occhi. A partire dal cliché di Max Von Sydow, passando per Dario Argento, aveva partorito l’ultima pensata, che lui giurava e spergiurava fosse quella definitiva.

    – Vincent Price da vecchio. L’inventore di Edward mani di forbice.

    Sembra un aquilotto ciccione, fu il primo pensiero di Virginia quando lo vide. Un vecchio col naso curvo, la pancia gonfia e le dita a salsicciotto che esibivano un cartello col suo nome scritto sopra. Una cosa, però, Francesco l’aveva indovinata: gli occhi del prete erano infossati in sacche grigio–violacee. Virginia gli andò incontro con un sorriso.

    – Sono la dottoressa Facchini, piacere.

    – Padre Rovetta, piacere mio.

    L’aquilotto riprese a guardare davanti a sé, come se le battute previste dal copione fossero finite. Le guance di Virginia si colorarono d’imbarazzo.

    – Non… non andiamo?

    – No, aspettiamo un’altra persona.

    I salsicciotti girarono il cartello. Dottor Luca Poncetta era il nome scritto sull’altro lato, con gli stessi caratteri asciutti. Virginia si mangiò le labbra per non ridere, mentre si piazzava come una guardia svizzera accanto al prete.

    Non vedeva l’ora di raccontarlo a Francesco.

    Il signor Aversa, addetto alle pulizie dei servizi igienici dell’aeroporto di Bari, entrò in bagno per un’ultima passata di straccio prima di cedere il turno al collega, un ragazzo dall’aria ottusa che probabilmente sarebbe invecchiato come lui davanti a quel piattino di spiccioli, per lo più ramati.

    L’odore dolciastro di lavanda del detersivo non riuscì a coprire la puzza di bruciato. Una sospetta nuvola di fumo si levava dall’unica porta chiusa. Il custode si portò istintivamente una mano a protezione delle narici: qualunque cosa stesse fumando il tipo lì dentro, non era una sigaretta.

    Forse è uno spinello, pensò lui, che in vita sua non ne aveva mai visto uno, men che meno assaggiato. Cazzo, puzza di peli bruciati.

    Il signor Aversa decise di disinteressarsene, soprattutto a ridosso del cambio turno. Si limitò a battere la mano aperta sulla porta del bagno.

    – Non si può fumare qua dentro. Abbia rispetto per chi viene dopo di lei!

    – Ha ragione, la spengo subito,

    rispose Luca. Tecnicamente, la sigaretta era già spenta. Luca continuò a schiacciarsela nell’incavo del braccio sinistro finché le ultime stelline di brace non smisero di brillare. Se il signor Aversa avesse prestato più attenzione, avrebbe colto la differenza tra peli bruciati e pelle bruciata.

    Tirò fuori un flacone di disinfettante dalla sua valigetta da medico. Svitò il tappo con i denti (la mano sinistra tremava ancora) e se lo versò direttamente sulla bruciatura. La ferita frizzò come una compressa effervescente. Luca strinse le labbra mentre con l’altra mano cercava a tentoni un cerotto nella valigetta. Coprì con cura il cerchio di carne viva e gettò nel water il mozzicone e l’adesivo del cerotto.

    Poi spedì i suoi segreti nelle fognature con un colpo di sciacquone.

    Arrotolò l’altra manica della camicia sul braccio destro, scoprendo una garza che bendava un taglio di rasoio ancora fresco. Si lavò le mani con l’accuratezza che avrebbe avuto in fase preoperatoria, se avesse assecondato l’ambizione paterna specializzandosi in chirurgia.

    Luca si era invece specializzato nel disilludere le aspirazioni altrui.

    Quando aveva sposato Patrizia, lei ambiva esattamente a quello: essere sua moglie, e amarlo e onorarlo per il resto della vita. Una mattina, mentre Patrizia metteva in tavola la colazione col suo solito servilismo da geisha (senza averne però la carica erotica), le aveva detto:

    – Ti lascio.

    Non aveva avuto il coraggio di guardarla negli occhi, portandole via il suo sogno nel modo che gli riusciva meglio: vigliaccamente e senza giri di parole.

    Quattro anni dopo, nel suo spoglio studio da medico generico, aveva conosciuto Gemma.

    Aveva gli occhi neri, le labbra carnose e un bacino un poco sproporzionato rispetto al busto. Aveva ventidue anni, lui trentotto.

    Per un mese lei era tornata a farsi visitare una o due volte a settimana. Il flirt era durato più della relazione. Erano usciti insieme tre volte e avevano fatto sesso cinque volte quando lei gli aveva detto:

    – Forse è meglio che la finiamo qua. Prima che tu inizi a fare lo stronzo.

    Non

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