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Custodi Dark Paradise
Custodi Dark Paradise
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E-book314 pagine3 ore

Custodi Dark Paradise

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Info su questo ebook

Se sei un angelo e infrangi le regole, se ami senza poterlo fare, se sovverti un ordine che dura da secoli, esiste punizione migliore che privarti di colui che ami e strappare dalla sua mente il tuo ricordo? Quando le portano via Nathaniel, tutto ciò che resta ad Adriel è un paradiso oscuro.
Nate diventa umano e senza alcuna memoria del prima, si costruisce una vita divenendo un motociclista di successo. Adriel lo segue nei secoli e quando il tempo del suo oblio sta per scadere, assume le vesti di una giornalista per avvicinarsi a lui.
Seppur privo di ricordi, Nate è pericolosamente attratto da lei e su una spiaggia spazzata dal vento la bacia. Non ha idea di cosa questo comporti: un fulmine sovrannaturale si scaglia su di loro pronto a divorare il loro amore. Scampati al pericolo i due sono costretti a dividersi. Mentre Nate si sforza di recuperare i ricordi del suo passato, Adriel è immersa nei suoi compiti di Custode dell’amore e segue Cristal e Nicole, ignara dell’importanza che i due avranno nella questione dell’Ordine cosmico. Quando Nathaniel ritorna alla sua natura, recuperando i suoi poteri, il peggio non è ancora passato. Uno dei Guardiani dell’Ordine invia Adriel nel passato per correggere il primo errore, proprio quando Nathaniel viene a conoscenza di un’allarmante verità: se Adriel riuscisse nel suo intento il loro amore dannato scomparirebbe dal tempo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2016
ISBN9788892542075
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    Anteprima del libro

    Custodi Dark Paradise - Claudia Di Lillo

    scoperto.

    PROLOGO

    Davanti ai mei occhi la redingote blu notte e il panciotto chiaro, capace di modellare il suo torace come un’armatura di maglia. Il colletto bianco della camicia inamidata faceva risplendere il chiarore della sua pelle. Era stato un angelo fino a qualche luna fa e adesso avevo davanti ai miei occhi un mortale.

    Un semi-immortale.

    Mi piaceva definirlo così. In effetti, c’era ancora troppa eternità in lui, traspariva nella lucentezza del suo sguardo, un opale levigato dai secoli e acceso di scintillii iridescenti, si intravedeva sulla sua pelle tanto chiara da apparire traslucida e rendere visibile un reticolo di sottili vene, intricati arabeschi in cui smarrirsi. Anche i suoi modi erano differenti dai comuni mortali, c’era in lui una gentilezza e un garbo tali da colpire le dame ottocentesche al centro del cuore come infallibili dardi di cupido.

    Mi era difficile riconoscerlo completamente in quella mise aristocratica. Vederlo attraversare la sala lucida completamente soggiogato dalla gravità, impettito in un elegante completo scuro, così esile senza le due punte alate che svettavano dietro le sue spalle.

    Pensai che gli umani sono certi di avere libero arbitrio e non sanno che sono privi di libertà, soggiogati a regole sociali, asserviti a banali mode, a precisi modi d’espressione, bloccati in un luogo o pochi più per tutta la vita. Limitati. Prigionieri del mondo che li circonda e di una ristretta visione mentale. Pensano che non esista nient’altro al di fuori di quello che vedono con i loro occhi, o toccano con le loro mani. La tristezza che provai per loro coinvolse anche il semi-immortale che amavo perché anche lui aveva in parte eclissato le altre verità.

    Guardarlo mi feriva, mi costringeva a vederlo sotto un diverso aspetto, ad accettare che in qualche modo Nathaniel era scomparso. Eppure, sapevo che da qualche parte dentro quel corpo mortale, c’era un’essenza divina, una fiamma scintillante di luce e verità, sapevo che imprigionato, con le catene intorno alle ali, in fondo a quegli occhi umani, c’era il mio Nathaniel.

    Vederlo in quella folla umana mi fece tremare. Pur d’incontrarlo avevo preso le sembianze di una dama dell’epoca. Sarebbe stato più adeguato infilare la mia forma corporea in un largo abito dalla vita alta, che lasciava intravedere le caviglie come dettava la moda del tempo. Ma mi rifiutavo di fasciare il mio busto in una corazza irrigidita da stecche di balena, e di trascinarmi dietro ad ogni passo il peso di due o addirittura tre sottogonne inamidate, con i loro molteplici strati di voluminoso tulle. Apparivo dunque più simile all’angelo che ero che non alla mortale che non volevo essere, visto che la mia carnagione diafana era coperta solo da una striscia di raso. Non segnava la vita, non metteva in evidenza le forme, si arricciava leggermente nella gonna e sotto la luce generava una pioggia di riflessi argentei, piccole onde di raso celeste polvere. Il tessuto lucido e liscio risaliva lungo una spalla avvolgendola ma lasciava completamente scoperta l’altra. Pur non avendo rinunciato ai guanti di soffice seta che risalivano il braccio fino al gomito, apparivo come un anacronismo.

    La sala gremita era un inno alla vanità e alla ricchezza. Ognuno era lì per ostentare ciò che possedeva: una carica militare, un’onorificenza, una nuova amante, un ulteriore e inaspettato possedimento fondiario o semplicemente la propria bellezza.

    Un gruppo di tre dame occupava un angolo della stanza. Una di loro sorseggiava del rinomato champagne, l’altra tormentava i diamanti appesi al suo collo mentre un gentiluomo inglese le rendeva palese il suo interesse. La terza aveva lo sguardo rivolto verso la donna fasciata nell’abito verde smeraldo che sorrideva distendendo labbra laccate di vermiglio. Aveva ravvisato in lei l’amante del marito. Era ferma ma avrebbe voluto stringere le dita sottili intorno a quel collo bianco fino a spezzarlo.

    Cercai di non lasciarmi trascinare nei drammi umani, non ero lì in veste di protettore.

    Con uno schiocco d’ali bloccai il fluire del tempo. Un piccolo regalo di Nathaniel. Prima di lasciarmi in qualche modo, mi aveva trasferito una piccolissima parte del suo potere ed ora che ne disponevo non ne avrei più saputo fare a meno.

    L’orologio dorato, sul camino di maiolica bianca, esalò il suo ultimo tac. Mani guantate si atrofizzarono intorno ai piattini di fine porcellana, il tè si freddò nelle tazzine decorate a mano, dame sedute s’incastrarono nelle poltrone di damasco bianco e gentildonne in piedi s’impietrirono come statue di bronzo lucido. Le rosse labbra dischiuse celarono il seguito degli ultimi pettegolezzi, le mani giacquero ferme lungo stoffe vaporose, intorno a colli di cigno, ad acconciature complesse. Esili ciocche non furono tirate indietro, copricapi costosi non furono acconciati in un ultimo gesto, e occhi, centinaia di occhi non ritrassero lo sguardo da ciò che l’aveva attirato.

    Persino in quella sospensione temporale non riuscivo a trovarlo.

    Dov’era Nathaniel? Le sue ali blu di Persia da fare invidia all’azzurro del cielo notturno. Dov’era Nathaniel? Le sue corde vocali pronte a vibrare come arpeggi celesti.

    Eccolo senza ali, né voce. Era proprio davanti a me.

    Declinai le ali che aderirono ai miei fianchi con un fruscio e toccai il pavimento con la punta delle scarpe di raso.

    L’orologio iniziò a ticchettare e il tempo riprese come se nulla avesse interrotto il suo corso.

    Non mi mossi, anzi, quasi mi nascosi dietro una nuvola di stoffa cobalto. Volevo guardarlo ma non volevo che lui vedesse me. Era appoggiato con la spalla a una porta riccamente intarsiata. Seguiva il trambusto senza prenderne parte. Aveva le braccia incrociate al petto e lo sguardo annoiato.

    Guardarlo mi faceva male, mi soffocava.

    Mi portai le mani alla gola quasi automaticamente e inspirai facendo gonfiare il mio torace fasciato dall’abito.

    Avevo visto abbastanza.

    Era umano. Si era ambientato. Stava bene. Potevo accontentarmi. Spiccare il volo e lasciarlo a vivere la sua nuova vita.

    Ero ancora parzialmente occultata dalla dama che mi precedeva ma lo specchio laterale che sormontava il secretaire in noce massello, mi tradì.

    Nathaniel scorse il mio viso, il turbinio di shock nei miei occhi.

    Se fossi sparita davanti a lui, sarebbe stato peggio perciò mi spostai. Il raso frusciò lungo la sala, ondeggiò lungo le scalinate di marmo, scivolò sulle pietre ruvide che pavimentavano il giardino. Mi ero introdotta in una porta e ora mi trovavo nel cortile posteriore. Sentii i suoi passi veloci dietro di me. Mi affrettai. Rasentai una siepe di ligustro e quando sfiorai i piccoli boccioli, essi sbocciarono riempiendo il verde con fiori bianchi e profumati, seguii i gradini di pietra affinché mi conducessero lontano, dimenticai completamente che potevo ormai dissolvermi nel vento o occultarmi al suo sguardo. Sentii il suo profumo, la sua voce dietro di me che mi gridava di aspettarlo.

    Corsi più forte, i gelsomini si sollevarono nell’aria priva di vento, la fontana scolpita con putti marmorei zampillò al ritmo del mio respiro, il chiarore lunare aumentò, il prato divenne rigoglioso, le rose sbocciarono in un’esplosione di profumi e colori primaverili.

    Infine mi raggiunse.

    Ormai bloccata, mi voltai lentamente mostrandogli i miei occhi.

    «Chi siete? – chiese con voce spezzata – una visione celestiale venuta a tormentare i miei sensi?».

    Non risposi, né mi mossi, ero paralizzata dal suo sguardo. Se avessi potuto piangere, l’avrei di certo fatto, mi sarei dissolta nelle lacrime amare, mi sarei sciolta in un lago salato ai suoi piedi.

    «Qual è il vostro nome - disse muovendo un passo – non avrei più pace né sonno se non lo conoscessi».

    Lo sussurrai appena.

    La luce lunare illuminava i suoi capelli biondi che scendevano in morbidi riccioli ai lati del viso, sopra le orecchie.

    Ormai era difronte a me.

    «Mai nome più bello invase i miei timpani, né voce più suadente» disse.

    S’inchinò leggermente, e sollevò la mano portandola alle sue labbra. Si fermò prima di sfiorarla, per guardarmi negli occhi.

    «Io sono Nicola, conte di Molinella, è un onore fare la sua conoscenza».

    Mi bloccai.

    Io conoscevo Nathaniel non Nicola. Conoscevo l’essere alato non quello mortale.

    Lo scintillio diverso del suo sguardo mi attrasse, mi accese di curiosità e, in quell’istante, capii che non ci sarebbe stato espediente in grado di separarci, di dividerci definitivamente.

    «Il piacere è mio conte» risposi, con una leggera riverenza.

    Mi porse il braccio ed io lasciai scivolare la seta bianca sul filato scuro della sua giacca.

    «Non vi ho mai visto prima d’ora» sussurrò. Dentro di me fremetti.

    «Sono solo di passaggio».

    Fu deluso. «Quanto vi tratterrete?» domandò.

    «Solo stanotte».

    Prese la mia mano tra le sue e mi fu davanti. «Vi ho appena trovato, non posso rischiare di perdervi».

    Il mio sguardo era un’esplosione di luce. «Come potreste perdere qualcosa che vi appartiene?».

    Si perse nel turbinio del mio sguardo.

    «È affrettato, sconsiderato, avventato, incauto e precipitoso ma mi credereste se vi dicessi che non potrei vivere se non cedessi al mio desiderio affrettato, sconsiderato, avventato, incauto e precipitoso di baciarvi?».

    Guardai il lago ghiacciato dei suoi occhi, non vi era menzogna in essi ma solo uno struggimento tanto acuto quanto quello che provavo io in sua presenza.

    «Mi odiereste, se rifiutassi?».

    «Come potrei odiare qualcosa che già amo?».

    Chiusi gli occhi. Tremante.

    Le sue labbra mi raggiunsero; mi sommersero come il più feroce vento del Nord, come lava fusa del Vesuvio, come tempesta di sabbia del Sahara, come ghiacciaio disciolto dell’Artico, come cascata selvaggia del Rio delle Amazzoni.

    Baciare era come viaggiare in tutto il mondo senza muovere un passo, come fare i respiri di tutta una vita senza respirare e soprattutto era capire di avere un’anima indissolubilmente legata a quella dell’altro.

    E poi mezza.

    Dopo quel bacio io ne avevo solo metà.

    1

    MILLE VOLTE NELLA MENTE

    Avevo osservato questa scena molte volte nella mia mente, sotto ogni aspetto, luce e riflesso, in ogni dettaglio; l’avevo vista così tanto che avrei saputo dire quanti passi lui avrebbe compiuto nella mia direzione, quante volte avrebbe guardato me ed io lui, in quale modo il mio respiro avrebbe danzato modellandosi sul battito irregolare del suo cuore.

    In ogni visione avevo visto lo scenario mutare, a volte dalla luminosità del giorno scivolava verso le ombre tenui della sera, in alcuni casi i grattacieli di New York facevano da sfondo alla nostra conversazione, ma in altri essi sparivano inghiottiti dallo sfavillio del sole sulle leggere onde dell’oceano. Ci avevo visto in molti modi, in quasi ogni luogo della Terra, ma adesso il regno incerto e incostante delle possibilità svaniva e le circostanze del nostro incontro si definivano in modo inequivocabile.

    Lo sapevo, perché il tempo in cui le nostre vite si sarebbero riunite non era mai stato incerto. Esisteva un unico momento ed era questo.

    Mancava poco. Solo quaranta minuti.

    Atterrai con un piccolo tonfo avvertendo, sotto i piedi, la durezza della pietra e sulle spalle i capelli che si adagiavano dolcemente. Li mossi un po’ scrollandomi di dosso qualche fiocco di neve e guardai davanti a me.

    Ero al circuito motociclistico di Santa Monica costatai, anche se il luogo non aveva molta importanza, era un dettaglio, uno sfondo degli eventi.

    Il vento mi soffiò sulla faccia e inspirai l’aria gelida assieme al suo profumo. Persino adesso, che mi era ancora lontano, potevo sentirlo vibrare nell’aria tingendola di una sfumatura precisa, di un aroma frizzante e inebriate. La scia speziata era avvolgente e volteggiava nell’aria a ogni suo movimento.

    Le mie narici si allargarono e inspirai profondamente l’odore della sua pelle, che avevo a lungo desiderato.

    Poi avanzai, scendendo i gradini fino alle transenne più vicine al circuito, confondendomi con i gruppetti di persone che affollavano le tribune e le colline artificiali attorno alla pista. Nessuno di loro mi aveva visto arrivare e non si sarebbero accorti di me fin quando qualcuno non avrebbe avuto un sincero bisogno d’aiuto.

    Allora istintivamente mi sarei materializzata al loro fianco cercando di attenuare il loro dolore e loro non avrebbero più saputo fare a meno di guardare la pelle chiara e marmorea, i sottili capelli biondi e gli occhi color indaco, profondi come il cielo nelle notti d’estate che sapevano guardare un umano fino in fondo all’anima.

    Respirai il ghiaccio dell’aria che mi fluttuava attorno e con un leggero movimento che sembrò una riverenza profonda, mi adagiai sui duri spalti di pietra ripiegando le ali dietro la schiena come il più morbido dei cuscini.

    Erano trascorsi duecento anni, quattro mesi e diciotto giorni da quando per l’ultima volta i nostri respiri si erano sfiorati, condensandosi in un solo, unico, eterno ti amo. Ma nascosti nella mia anima erano incise anche le ore, i minuti e i secondi che ero stata costretta a trascorrere lontana da lui.

    Guardai il lunghissimo nastro d’asfalto che mi si srotolava davanti e poi istintivamente sollevai gli occhi verso il cielo, unica costante dei miei ipotetici scenari.

    Adesso era grigio, gonfio di nuvole livide, sperai che esse si diradassero per rivelare il rassicurante colore del cielo e dei suoi occhi.

    Da lì non riuscivo ancora a raggiungerli, non perché fosse troppo distante ma perché non si era ancora voltato. Forse era un bene. Non volevo che mi vedesse adesso, e quasi inconsapevolmente mi alzai, facendo un passo indietro. L’aria gelida si condensava in volute di fumo a ogni respiro. Trentasette minuti.

    Mi strinsi nel piumino candido in cerca di un po’ di calore, mi tirai il cappuccio sulla testa e mi affiancai al muro che recintava il complesso.

    Il sibilo di una moto riempì l’aria. Il mio sguardo volò automaticamente sulla pista e sprofondò in ogni dettaglio del suo volto come solo lo zoom di una fotocamera avrebbe saputo fare. La bellezza del suo viso mi mozzò il fiato. Gli anni non lo avevano cambiato: la pelle ancora candida e levigata, i capelli d’oro e gli stessi occhi impuniti e smaglianti che mi avevano folgorata nel momento esatto in cui avevo appreso della loro esistenza.

    Una voce lo chiamò forte e lui sobbalzò impreparato.

    Nate, era così che si faceva chiamare adesso.

    Abbassai il capo e indietreggiai fino a essere avvolta completamente dall’ombra. Le ali frullarono per un istante spinte dal bisogno di librarsi nell’aria, libere, ma io le tenni strette, aderenti alla schiena. Avvertivo il dubbio farsi strada, la paura trascinarsi lungo la mia pelle.

    Volevo quell’incontro eppure lo temevo.

    Cosa sarebbe successo se avessi sbagliato i tempi? Se il momento non fosse corrisposto ai miei calcoli? Come gli avrei spiegato qualcosa che la sua mente umana non poteva comprendere? E infine, con quale forza gli avrei voltato le spalle e sarei scomparsa di nuovo, e questa volta per sempre, dalla sua vita?

    Le mani m’iniziarono a tremare e le sollevai per esaminarle, la riga argentea che si diramava da ogni dito come un sottile ghirigoro, era intatta. La mia attenzione tornò a concentrarsi su di lui che in sella alla moto nera sfidava il vento con la foga di sempre, accarezzando le curve, e divorando il rettilineo, immemore delle nostre corse folli attraverso l’infinito.

    Questa volta lo seguii da lontano cercando di scacciare i ricordi, percorsi con lo sguardo ogni centimetro della pista, un giro dopo l’altro e quando lui si fermò anch’io ritornai con i piedi per terra.

    Strinsi i pugni intorno al freddo metallo delle transenne che delimitavano gli spalti dal circuito motociclistico, e rimasi immobile, aspettando il momento giusto. Ce ne sarebbe mai stato uno? Sarebbe davvero giunto? Come lo avrei riconosciuto?

    Forse sarebbe stato meglio andarsene, senza lasciare indizi, né tracce della mia presenza. Sarebbe bastato poco: un passo, un respiro, un battito d’ali. Poi sarebbe stato lui a cercarmi, a trovarmi.

    Guardai davanti a me. L’arena era grande e deserta, l’asfalto nero, manto luccicante sotto il sole freddo di febbraio. Nel box distante solo pochi metri si agitavano freneticamente alcune sagome, affollandosi intorno alle moto appena rientrate dai giri di prova. Anche lui era lì dentro?

    Avvertii un fremito nel petto. Dieci minuti.

    Il pensiero della sua vicinanza già mi sconvolgeva.

    Abbassai le palpebre per un attimo. Un bruciore fulmineo e intenso mi pizzicò le ali e prima ancora di aprire gli occhi seppi che lui le aveva involontariamente sfiorate.

    Quando mi voltai alzandomi in punta di piedi, lui era lì, di fronte a me, con la tuta azzurra a strisce gialle sporca di grasso, con i capelli arruffati e biondissimi, con lo stesso sguardo impunito e smagliante che mi faceva morire e rinascere ogni volta.

    Tirai un respiro profondo e quasi annegai nel suo odore.

    Nessuno mi avrebbe strappato dalla memoria l’odore della sua pelle.

    Un brivido mi percorse la schiena, mentre i nostri sguardi s’intrecciavano l’uno all’altro, ma non potei attribuirlo al vento freddo che graffiava il mio viso come una lama tagliente e s’insinuava arditamente sotto il mio giubbino.

    «Ciao» dissi cauta, restando immobile.

    «Ciao» rispose, facendo lo stesso.

    La sua voce fece fermare il tempo, anzi lo annullò, riavvolgendolo, riportandolo all’ultimo istante in cui c’eravamo parlati. Cercai il suo sguardo. Cosa brillava nei suoi occhi? Un ricordo cancellato, un amore proibito, un’attrazione inesorabile, una parola mai detta? Lui mi fissò di rimando come se mi vedesse per la prima volta. Scrutai la sua espressione calcolando i minuti che mancavano. Ancora troppi.

    «Sei qui per l’intervista?».

    Il suono scaturito dalle sue corde vocali era ancora la musica più bella che avessi mai udito, nella mia lunga, immortale vita angelica e gli angoli della mia bocca si piegarono leggermente nel più dolce dei sorrisi.

    Adesso dovevo rispondere.

    Avrei voluto dire tanto, troppo.

    Se solo mi avesse riconosciuto.

    Due minuti.

    Acconsentii per guadagnare tempo.

    «Nate Hashmallim, potete concedermi qualche minuto per un’intervista?» chiesi con un tono appena sussurrato.

    Lui sorrise. L’avevo visto sorridere così tante volte che ne avevo perso il conto ma quel sorriso che indugiava adesso sulle sue labbra aveva un altro sapore. Sembrava divertito dalle mie parole.

    «Dammi pure del tu e se me lo permetti, io farò lo stesso» disse amichevole.

    Annuii cercando ancora di interpretare i segni della sua espressione.

    «Puoi intervistarmi ma solo se mi concedi qualche minuto per un caffè».

    «Un caffè?» ripetei stupita dall’invito.

    «Sì – confermò con un largo sorriso che gli illuminava il volto – hai presente quella bevanda dal colore scuro e il gusto forte e deciso? Staremo più tranquilli in quel bar lì giù».

    Uscimmo all’esterno del circuito. Il bar era poco distante e lo raggiungemmo a piedi. I nostri piedi sfioravano, un passo dopo l’altro, l’asfalto coperto di un sottile strato di neve e mi venne voglia di sollevarmi qualche millimetro dal suolo per non affondare nel morbido biancore che ricopriva le strade.

    Ci stavo ancora pensando quando Nate spalancò la porta e una corrente d’aria calda ci invitò a entrare. Scegliemmo a caso uno dei tavolini di vetro smerigliato disposti in ordine nel piccolo locale e ordinammo due caffè.

    Il silenzio era imbarazzante ma presto sarebbe svanito.

    Dieci secondi.

    Nove.

    Lui puntò gli occhi dentro ai miei sfiorandomi con lo sguardo.

    «Ci consociamo forse?».

    Cercai di restare perfettamente immobile per non tradire il mio stato d’animo ma dentro tremavo.

    «Ti sembra forse di sì?».

    «Hai un viso familiare. Ti ho già vista ma non riesco a ricordare dove».

    Zero. Era questo il momento.

    I suoi occhi si spalancarono ma la pupilla si ridusse a una minuscola punta di spillo.

    «Nate» sussurrai.

    Lui si piegò in avanti e una smorfia di dolore increspò la perfezione del suo viso.

    «Perdonami» disse.

    La calma svanì e fui sommersa da un’onda.

    «Cosa?».

    La mia voce era panico puro, struggente, acuto, bruciante.

    «Ho una terribile emicrania».

    Le mie mani si precipitarono su di lui e sfiorai le sue. Aveva bisogno di me ed io ero lì; potevo guarirlo? Non ero un angelo guaritore ma una volta ce l’avevo fatta.

    Sollevai

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