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Io ti pretendo
Io ti pretendo
Io ti pretendo
E-book366 pagine4 ore

Io ti pretendo

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Info su questo ebook

Dall’autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today»

The Indebted Series

«Tu dici che non sarai mai una mia proprietà. Ma se vinco, dovrai accettare di esserlo… Non stai firmando solo un contratto per estinguere un debito, ma anche un altro, che mi rende il tuo padrone». La famiglia di Nila Weaver è indebitata fino al collo. Per un accordo firmato più di seicento anni fa. Che pare però senza via d’uscita. Nonostante lo neghi, Nila ormai appartiene a Jethro. E la pazienza del rampollo della famiglia Hawk si sta esaurendo. Perché Nila lo sottopone a continue sfide e a sorprese che lui non apprezza affatto. Lei non è ancora al guinzaglio, ma lui pensa di aver trovato il modo di legarla a sé per sempre. 

Dall'autrice del bestseller Io ti appartengo

I commenti delle lettrici:

«In una sola parola, Pepper Winters è un genio!» 

«Comincerò col dire che Pepper Winters è una scrittrice straordinaria. E se non avete ancora letto i suoi romanzi, allora vi state perdendo delle storie eccezionali. I suoi libri non mi hanno mai deluso.»
Pepper Winters
È un’autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today». Ama leggere e viaggiare e i suoi libri sono già tradotti in numerose lingue. La Newton Compton ha pubblicato Io ti appartengo e Io ti pretendo, primi volumi della Indebted Series.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2016
ISBN9788854198210
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    Anteprima del libro

    Io ti pretendo - Pepper Winters

    1364

    Titolo originale: First Debt – Indebted #2

    Copyright © 2014 Pepper Winters

    Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione

    Prima edizione ebook: agosto 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9821-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Pepper Winters

    Io ti pretendo

    The Indebted series 2

    La storia che segue non è adatta a chi non ama i romanzi dark, le situazioni di disagio e le ambiguità. È sexy, perversa, è luce e buio, montagne russe e non una giostra a cavalli.

    (Come ulteriore avvertimento, si prega di tenere a mente che il racconto è denso di suspense. Le risposte verranno fornite a mano a mano che la trama si svolge e così le motivazioni dei personaggi).

    Fatte le dovute premesse… entrate nel mondo dei debiti e dei pagamenti.

    Nila

    Se avessi saputo che la mia vita sarebbe cambiata in maniera così drastica, forse avrei pianificato tutto un po’ meglio. Avrei scelto una strategia un po’ più efficace, fatto delle ricerche un po’ più approfondite.

    Un attimo prima ero il tesoro di Milano, e poi all’improvviso la puttana Weaver.

    Eppure, nonostante le mie scarse capacità e le armi inadeguate, non ero pronta a morire senza lottare.

    In realtà, sono sbocciata nella donna che avevo sempre avuto paura di essere.

    Sono diventata qualcosa di più di Nila Weaver.

    Più di una figlia, una gemella e una sarta.

    Sono diventata la donna che avrebbe abbattuto l’eredità di una famiglia intera.

    Mi sono evoluta in colei che ha catturato un Hawk.

    Jethro

    Avanzai a lunghe falcate verso le stalle e quegli stessi alloggi che Nila aveva abitato la notte precedente.

    L’immagine di lei che balzava via – candida pelle nuda che scintillava nel sole e lunghi capelli come seta al vento – continuava ad agitarsi nella mia testa.

    Tutto ciò per cui mi avevano addestrato – ogni discussione, ogni difficoltà che mi avevano detto di aspettarmi – non mi aveva preparato alla complicazione che si trattava di Nila Weaver. Come fare a comprendere e restare fedele al mio ruolo quando quella dannata donna aveva più personalità di un dipinto di Picasso?

    A volte ingenua. A volte smaliziata. Intelligente, paurosa, orgogliosa, credulona.

    E più di tutto, in evoluzione.

    In rapida evoluzione.

    Non ero abituato alla… confusione. Nel mio mondo non erano ammessi il caos di una mente umana né l’influenza schiacciante delle emozioni. La conoscevo da poco, ma era riuscita a farmi provare qualcosa che non avevo il diritto di sentire, cazzo.

    Non ammetterlo.

    Strinsi i pugni. No, non l’avrei ammesso. Non avrei mai espresso a parole il bruciare lento della possessione nelle viscere o la confusione nella mia mente quando alla fine era riuscita a comprenderla.

    Corri, Nila. Corri.

    E l’aveva fatto.

    Nonostante la nudità, la mancanza di mezzi e il fatto che la mia famiglia aveva appena finito di abusare di lei, mi aveva fissato dritto negli occhi ed era corsa via come un cervo che sfugge al fucile. Un lampo di vulnerabilità le era passato sul viso prima che la foresta la inghiottisse.

    Mi aspettavo che svenisse per quella sua condizione ridicola, un esperimento, in realtà, per vedere cosa avrebbe fatto una volta che avevo finto di darle ciò che voleva.

    Scappare?

    Non l’avevo pensato nemmeno per un fottuto momento.

    Mi aspettavo che si ritraesse. Che implorasse. Che invocasse gli uomini della sua vita che l’avevano delusa. Ma non aveva fatto niente di tutto ciò. La conoscevo da pochissimo, eppure aveva preteso da me più di qualsiasi altra donna prima di lei.

    Non era permesso, e adesso che era fuggita, aveva svelato un altro pezzo dello scompiglio che aveva dentro. Avevo scorto la donna misteriosa che era diventata mia responsabilità, prigioniera e giocattolo.

    Una che era riuscita a rincoglionirmi.

    Per quanto tu non la capisca, la vuoi. Cazzo, è venuta sulla tua lingua.

    Mi fermai di colpo. Si era opposta a me in ogni momento, eppure proprio quando l’avevo reclamata sotto gli occhi dei miei fratelli, mi aveva lasciato il controllo totale.

    Aveva allargato le gambe e spinto il bacino sulla mia bocca, mi aveva concesso pieni poteri di leccare e mordicchiare e farla eccitare fino a ridurla in pezzi, che lo volesse davvero o no, mi aveva usato per ottenere piacere.

    Aveva avuto un orgasmo mentre la manipolavo con le dita.

    Mi si irrigidì il cazzo.

    Avevo il suo sapore ancora in bocca, l’ombra della pressione della sua fica che mi aveva strizzato la lingua quando si era inclinata verso l’alto ed era esplosa. Aveva graffiato il tavolo con le unghie, le mani allargate grazie ai fratelli che la tenevano giù. Ma non si era divincolata per allontanarsi da me.

    No, aveva lottato per avvicinarsi.

    E io l’avevo accontentata.

    Annegandomi nel suo profumo, ferendomi le labbra, leccandola più forte e più forte ancora.

    Si era agitata tra gemiti e ansiti. Si era abbandonata tra le mie grinfie, solo perché sapevo come far venire una donna.

    Ma non mi aveva dato solo il suo piacere.

    Gesù, no.

    Mi aveva dato un brevissimo assaggio di come sarebbe stato possedere non solo il suo corpo ma anche la sua mente e la sua anima.

    Era una droga.

    Cazzo mi stava incasinando la testa.

    Ringhiai sottovoce e ripresi a camminare. Quella cazzo di erezione che non mi aveva mai abbandonato dal primo momento in cui lei era entrata nella mia vita mi avvelenava, mi faceva rivoltare contro tutto ciò che conoscevo, tutto ciò che avevo abbracciato fin da quando avevo appreso il significato della sopravvivenza e della disciplina.

    Una libido bollente si agitava nelle mie vene.

    Mi avevano cresciuto per essere una belva fredda, ma come facevo a restare tale con il sangue impazzito per il desiderio di un altro boccone? Un altro piccolo assaggio del suo calore teso e bagnato.

    Merda, avrei finito per venire se non la smettevo di pensare a lei.

    Il cazzo fu percorso da un fremito di totale accordo.

    Scossi la testa e affrettai il passo verso le stalle.

    Resterai tutto ciò che sei. Sarà così.

    Non c’era altra scelta.

    Mi aveva insegnato a governare le mie emozioni. Mi facevo un vanto di aver abbracciato tutti i suoi insegnamenti. Una piccola Weaver non mi avrebbe compromesso. Così andava nel nostro mondo.

    Il mio mondo.

    Il suo mondo.

    Per quanto mi stregasse, per quanto facesse rivoltare il mio corpo e la mia forza di volontà contro di me, non avrei ceduto.

    L’avrebbe capito molto presto.

    Non appena l’avessi presa, avrebbe imparato qual era il suo posto. Non appena l’avessi riavuta tra le mie braccia, non sarebbe fuggita mai più.

    Cazzo, era una promessa.

    È ora di andare a caccia.

    Le stalle erano vuote, eccetto che per il pony da polo di Kes, il pregiato purosangue di mio padre, Black Plague, e il mio castrone color ebano, Fly Like The Wind. Era il suo nome da show e da caccia. In privato, lo chiamavo in un altro modo.

    Wings.

    Perché cavalcarlo mi permetteva di andarmene da lì e trovare un pezzetto di libertà.

    Nila non era la sola a voler fuggire. A differenza della mia preda, io affrontavo i miei demoni e li accettavo. Invece di farmi controllare da loro, li costringevo a lavorare per me e sottomettersi inchinandosi ai miei piedi.

    Proprio come avrei fatto con lei non appena l’avessi trovata.

    Quando mi vide, Wings drizzò le orecchie vellutate e fece risuonare gli zoccoli contro i ciottoli cosparsi di fieno.

    Apparve un garzone che stava pulendo il letame dagli stalli. «Signore?»

    «Sellalo. Voglio partire tra quindici minuti».

    Avevi detto che gliene avresti concessi quarantacinque.

    Mi strinsi nelle spalle.

    Darle più tempo non aveva senso. Le avrebbero sanguinato i piedi correndo senza scarpe. La pelle si sarebbe riempita di lividi per la stupida malattia che stava cercando di sconfiggere, quale che fosse. E sarebbe stato tutto vano.

    Contrariamente a ciò che pensava di me, non ero un mostro.

    Avevo bisogno che rimanesse in forze.

    In più, potevo accordarle ore, anche giorni di fuga, ma non avrebbe mai raggiunto il confine.

    Ne ero sicuro.

    Lo sapevo, perché mi ero trovato nella sua stessa situazione, solo che allora non era estate, ma pieno inverno. L’aveva chiamato addestramento. Crescita virile, secondo la sua predica. Corri nella neve, diventa il ghiaccio che sgocciola dai cespugli e dagli steli. Usa la tua parte primitiva per scovare il limite della nostra proprietà, o pagane lo scotto.

    Avevo corso, avanzato e strisciato per tre giorni. Tre giorni e non avevo individuato il confine.

    Mi avevano trovato nello stesso modo in cui io avrei trovato Nila. Non seguendo le tracce o un

    GPS

    o nemmeno con le telecamere sparse qua e là nella tenuta.

    No. Ho strumenti di gran lunga migliori.

    Torsi le labbra in un sorriso, attraversando il cortile che separava le stalle dal canile. Fischiai e tesi l’orecchio alla confusione di unghie graffianti e guaiti che provenivano dall’interno. Poi i segugi uscirono con un balzo, scontrandosi, tremando come se fossero stati attraversati da una scossa elettrica.

    Rimasi saldo, lasciando che il mare di canidi mi si affollasse attorno alle ginocchia. Undici in totale, tutti addestrati alla caccia, con orecchie aguzze e fiuto sottile.

    Li lasciai ad annusare metodicamente in giro per il cortile ed entrai nella selleria in cui si riponevano le attrezzature, le medicine e il cibo per i cavalli.

    Allungai le mani sulla coperta usata da Nila.

    Sentii un sussulto al cazzo quando ricordai com’era sembrata persa e giovane, col fieno tra i capelli e gli occhi arrossati dalle lacrime. Eppure si era divincolata sulle mie dita come una civetta del cazzo. Le anche inclinate alla ricerca di qualcosa di più, quasi fosse nata per il piacere.

    Mi facevano male le palle per il bisogno di liberarsi. Cazzo, dovevo venire. Erano già due volte che mi portava vicino al limite e poi rovinava il finale.

    Quello non ero io, non ero mai così ossessionato dal sesso o confuso. Non riuscivo a pensare con lucidità.

    Nell’istante stesso in cui l’avessi catturata, l’avrei presa. Al diavolo le regole.

    Pensi che ti voglia, sapendo cosa le farai?

    Quella domanda mi intrappolò in una tagliola.

    Mi immobilizzai.

    Che cazzo di domanda era?

    Una che non mi ero mai posto prima e nemmeno avevo preso in considerazione. Strinsi i pugni. Non mi era permesso considerare il benessere di qualcun altro. Non mi era permesso provare… compassione. La cosa più vicina a un amico che avessi era mio fratello minore, Kestrel. In qualche modo si era sottratto ai condizionamenti di Bryan Hawk. Kes aveva preso da nostra madre. Dio accordi pace alla sua anima.

    E Daniel.

    Lui aveva preso da quel fottuto psicopatico che era stato nostro zio, finché mio padre non l’aveva ucciso, tanti anni prima, perché per poco non ci aveva fatto scoprire tutti.

    Non per la prima volta, mi chiesi se tutto il mio albero genealogico fosse composto da pazzi scatenati.

    Alla fine, nulla di tutto ciò era importante. Né l’eredità, né i destini, né i debiti.

    Dall’istante in cui era venuta sulla mia lingua, Nila mi doveva qualcosa. Non alla mia famiglia. A me.

    Il minimo che poteva fare era ricambiare.

    Scuotendo la testa, presi una bisaccia da sella e la riempii con tutto ciò di cui avrei avuto bisogno. A ogni oggetto che toccavo, il mio cuore si scioglieva e poi congelava di nuovo. Una coperta di neve si infittiva a ogni battito. Mentre il ghiaccio scintillava e ricopriva via via la mia anima, il silenzio prodotto dalle mie riflessioni in tumulto si acuiva, finché non scomparvero ogni debolezza, ogni idea di fuga e ogni pensiero sleale di tradire la mia famiglia.

    Feci un sospiro di sollievo rientrando nella mia gabbia listata di ghiaccioli.

    Sei stanco, stremato e con una fuggitiva tra le mani. Resta concentrato.

    Sapevo cosa sarebbe successo se avessi perso il controllo. Non potevo permettere che accadesse.

    Controllai l’orologio.

    Venti minuti.

    Bastavano. A lei sarebbe sembrato di aver corso per chilometri. Non avrebbe mai capito la differenza.

    Mi girai per andarmene e passai accanto allo scaffale su cui erano riposti i frustini e gli speroni di riserva. Ne afferrai uno e mi infilai una frusta nella cintura.

    Mi avrebbe fatto comodo se avesse disobbedito.

    Afferrai un paio di occhiali da sole e sostituii in fretta le scarpe eleganti con degli stivali da equitazione alti fino al ginocchio, poi controllai ciò che avevo preso con me. Peccato che non avessi il tempo di cambiarmi. Cavalcare con i jeans era una palla, nelle lunghe escursioni l’attrito era tremendo.

    Ma non cavalcherò a lungo.

    Le labbra si distesero in un sorriso. No, non ci sarebbe voluto molto. Ma sarà divertente. E a me non capitava spesso di potermi divertire.

    Uscito dal capanno semibuio, socchiusi gli occhi alla luce vivida del sole e infilai i grossi occhiali. Wings se ne stava fermo obbediente alle pastoie, il pelo equino scintillante come i rari diamanti neri delle nostre miniere.

    I cani da volpe abbaiavano e si giravano attorno come un organismo vivente, senza mai staccare gli occhi da me che raccoglievo in mano le redini e infilavo un piede nella staffa. Slanciando l’altra gamba sul possente animale, mi percorse le ossa l’eccitazione di trovarmi su qualcosa di così potente.

    Wings era diciotto spanne di puro muscolo del cazzo. Era il cavallo più veloce degli Hawk, dopo il corsiero di mio padre, Black Plague, e non cacciava da giorni.

    Batté gli zoccoli sul posto, i grandi polmoni sbuffanti per l’attesa.

    L’energia che vibrava attraverso la massa del suo corpo mi contagiò, mi ricordò chi ero e la mia vita privilegiata.

    Girandogli la testa verso i campi aperti di Hawksridge Hall, gli piantai gli speroni nei fianchi.

    Un fiotto di forza incredibile esplose attraverso i muscoli dell’animale. Da fermo spiccò il volo in un veloce risuonare di zoccoli. Con un fischio brusco chiamai a raccolta i miei compagni canini.

    L’odore acre della terra smossa mi colpì le narici.

    Vengo a prenderti, Nila Weaver. Arrivo.

    Superando con la voce il rombo del galoppo, ordinai: «Inseguitela».

    Nila

    I polmoni bruciavano.

    I piedi dolevano.

    Le gambe erano esauste.

    Ogni centimetro di me urlava di paura.

    Corri. Corri. Corri.

    Abbassai la testa e raddoppiai gli sforzi, costrinsi il corpo a trovare energie inesistenti e a spingermi lontano dall’inferno, verso la salvezza.

    Da quanto tempo fuggivo? Non lo sapevo. Quant’ero arrivata lontano? Probabilmente non molto.

    Tuttavia, indipendentemente dalle fitte al fianco e gli spasmi nei polmoni, andavo avanti. Continuavo a correre. Ringraziavo Iddio per le notti infinite sul tapis roulant e per la prima volta in vita mia ero grata del mio petto minuto.

    Delle ombre mi inseguivano a ogni passo. Il sole era schermato dalla tettoia di alberi. Il bagliore giallo era ancora leggero, ancora luminoso, mi blandiva, mi urlava di alzarmi quando inciampavo, ordinava alle lacrime di fermarsi quando ansimavo in cerca d’aria.

    Continuai a correre zigzagando il più possibile, attraversando un ruscello dove per poco non mi slogai una caviglia sulle rocce scivolose del fondale. Feci tutto quello che avevo visto fare ai survivalisti inseguiti.

    Con il cuore che sibilava, lasciai perdere le piste boschive, evitai i sentieri fangosi e confusi il più possibile il mio odore.

    Ma nel mio cuore sapevo che non sarebbe bastato.

    Ti troverà.

    Il corpo mi implorava di fermarmi e lasciare che accadesse l’inevitabile. Di smetterla di punirmi inutilmente. La mia mente ululava di frustrazione, l’acido lattico bruciava nelle membra.

    Non funzionerà. Arrenditi. Andiamo… fermati.

    Scossi la testa e mi sforzai ancora di più.

    Ti prenderà.

    Non si trattava di se, ma di quando.

    Avrei potuto correre per anni e mi avrebbe trovata comunque. Come lo sapevo? Non mi fidavo di lui.

    Non credevo che mi avrebbe lasciata scappare così facilmente. Tutto in lui era una bugia orchestrata ad arte. Perché non anche la parola data?

    Non dubitavo che se non mi avesse trovata lui l’avrebbe fatto qualcos’altro – un laccio, una trappola – qualcosa appostato per catturare la preda.

    Mi irrigidivo ogni volta che poggiavo il piede, in attesa della morte, chiedendomi se quell’ultimo passo avrebbe fatto scattare una rete o una freccia diretta al mio cuore.

    Smettila di correre. Adesso… smettila, Nila.

    La mia voce interiore senza più fiato era stanca, affamata e distrutta. Avevo i crampi. La mente era in balia di troppe domande.

    Almeno era estate e non dovevo vedermela con il freddo oltre a tutto il resto. Avevo la pelle lucida di sudore per lo sforzo.

    Ma odiavo il senso di sconfitta che sentivo nell’anima, la rapidità con cui si inaridivano il coraggio e la speranza.

    Non si trattava dell’inseguimento. Sapevamo tutti chi avrebbe vinto. Si trattava di ribellione. La parola che non avevo mai conosciuto né messo in pratica fino alla notte precedente, ma ormai la vivevo e respiravo. Sarei stata la più ribelle delle spine, avrei aperto buchi nei piani accuratamente predisposti di Jethro.

    Non avevo nessuna possibilità di vincere. E l’unica che avessi di sopravvivere abbastanza a lungo da vendicarmi degli uomini che avevano rovinato i miei antenati era combattere il suo ghiaccio con il fuoco.

    Dovevo bruciare.

    Dovevo infiammarmi.

    Dovevo carbonizzare le sue convinzioni e il suo controllo. E macchiare la sua anima con le ceneri dei suoi peccati.

    Un ululato acuto cavalcò la brezza.

    Mi si bloccarono le ginocchia, inchiodandomi sul posto.

    No. Ti prego, no.

    Sentivo il cuore rattrappirsi in petto. Dovevo aspettarmelo. Non mi avrebbe inseguita alla maniera normale. Perché sprecare energie cacciando nella direzione sbagliata?

    Era più furbo di così. Più freddo. Avrebbe usato gli strumenti che aveva a disposizione per sistemare una volta per tutte quel piccolo inconveniente. Ovvio che usasse quegli stessi animali che erano diventati miei amici la notte precedente.

    Dandomi non una ma due lezioni in rapida successione. Primo, le bestie che in quel momento seguivano le mie tracce, che mi stavano dando la caccia, non erano mie amiche, indipendentemente da quanto mi avessero tenuta al caldo e comoda la notte prima. E secondo, ogni cosa lì, umana o animale, non avrebbe esitato a uccidermi.

    Quel pensiero mi affossò, poi mi contagiò con una forza che conoscevo da pochissimo tempo. Non c’era modo di far provare qualcosa a Jethro. L’unica speranza che avevo era combattere la crudeltà con la crudeltà.

    Dovevo oppormi a lui a ogni passo e far scattare quella scintilla sepolta nel profondo.

    Un altro ululato e un latrato.

    L’energia percorse all’improvviso il mio corpo, rovente e implacabile come un proiettile.

    Ripartii, corsi giù per una collinetta, aggrappandomi ai rami quando un capogiro minacciò di farmi cadere tra ortiche e rovi.

    Il collare intorno alla mia gola era pesante, ma almeno si era riscaldato. I diamanti non sembravano più estranei, ma parte di me. Il coraggio delle mie antenate. La forza spirituale di donne che non avevo mai conosciuto, viva in un gioiello che pulsava della loro energia e della loro guida.

    L’odio e l’avversione che provavo verso il collare scomparvero. Sì, me l’avevano dato gli Hawk, mi avevano condannata a morte con un’azione a cui non riuscivo a pensare, però mi avevano dato un pezzo della mia famiglia. Un pezzo di storia che potevo usare a mio vantaggio.

    Un altro latrato, seguito da un fischio penetrante.

    Non puoi seminarlo.

    Mi adombrai per il mio stesso pessimismo.

    Ma puoi nasconderti.

    Scossi la testa e repressi le lacrime quando un rametto mi si infilò nella pianta del piede.

    Non sarei riuscita a nascondermi. Veniva con i segugi. Avevano nasi leggendari.

    In alto. Sali in alto.

    Mi fermai slittando. Inclinai il collo per sbirciare lungo il fusto di un albero dall’aria bitorzoluta. I rami erano disposti in maniera simmetrica, le foglie non proprio fitte, ma il tronco era abbastanza forte da portarmi dalla terra al cielo.

    Non avevo mai scalato niente in vita mia. Sarei potuta cadere e rompermi l’osso del collo. Avrei potuto storpiarmi per un attacco di vertigini. Non ero mai stata così stupida da tentare.

    Nemmeno avevi mai dovuto correre per salvarti la vita.

    Scacciai le paure inutili e mi avvicinai all’albero con le mani protese. Non aveva importanza che non ne avessi mai scalato uno. Non aveva importanza che avessi sempre evitato ogni gioco e attrezzatura in palestra perché finivo sempre per farmi male.

    Sarei salita e avrei conquistato quell’affare maledetto.

    Non ho scelta.

    O rimanevo a terra e mi sedevo ad aspettare in silenzio che arrivasse, o correvo alla cieca attraverso la foresta, o mi arrampicavo.

    Mi arrampicherò.

    Posai alla base del tronco le dita dei piedi e allungai un braccio verso il primo ramo. Mi lasciai andare di peso.

    Si spezzò.

    Merda!

    Un altro latrato, forte e chiaro, appena oltre il crinale.

    Mi mossi.

    Graffiando l’albero, abbracciai la corteccia ruvida e mi sollevai con forza, allungandomi come una scimmia folle e incapace di arrampicarsi su un ramo appena oltre la sua portata. Non pensavo che ce l’avrei fatta. Chiusi gli occhi preparandomi a una caduta dolorosa; invece, per qualche miracolo, afferrai con le dita il ramo e mi ci aggrappai più forte che mai.

    Vai. Vai!

    Mi abbandonai a un’abilità che non avevo mai usato, ma che speravo giacesse dormiente in qualche parte del mio retaggio evolutivo. Appoggiai il piede alla corteccia e mi tirai su con le mani. Afferrai il ramo successivo.

    E quello dopo.

    E quello dopo.

    Il respiro usciva pesante e affannoso, il cuore era un tamburo esausto.

    Usai l’albero come una scala verso la libertà, mi arrampicai sempre più su, fino a quando non osai guardare in basso, nel caso avessi perso i sensi e fossi precipitata dal paradiso all’inferno.

    Giunse un forte rumore che sopraffece i guaiti e l’abbaiare eccitato dei cani. Le foglie attorno a me tremarono all’avvicinarsi dei passi di una bestia più grossa.

    Jethro era venuto con qualcun altro? Ci sarebbe stato Daniel con lui? O persino suo padre?

    Sentii la pelle accapponarsi per l’odio. Avevo detto sul serio. Prima della fine avrei trovato il modo di ucciderli tutti. Non gli avrei permesso di versare altro sangue Weaver. Era il turno degli Hawk.

    La pagheranno.

    Mi girai piano piano, maledicendo le gambe tremanti e le mani d’un tratto nervose, e guardai il sottobosco da cui ero salita. Ero almeno all’altezza di un palazzo di due piani e mezzo.

    Chiusi gli occhi e deglutii con forza.

    Non cadere. Non pensarci nemmeno.

    Il capogiro era presente nella mia visione periferica, mi stuzzicava con l’immagine orribile di quel che sarebbe potuto succedere. Affondai le unghie nella corteccia e mi sedetti lentamente sul ramo. Non appena sentii la ruvidezza dell’albero mordermi il fondoschiena privo di protezione, avvolsi un braccio attorno al tronco e mi incastrai nel legno.

    Mi guardai intorno alla ricerca di armi, ma non ce n’erano. Nessuna pigna. Nessun ramoscello facile da spezzare per pugnalarlo. Avevo solo l’elemento sparizione. Una ragazza nuda che svaniva nella foschia verde della foresta.

    All’apparire del primo cane sentii il cuore in gola. Non lo riconoscevo da quella notte nelle stalle. Girava tutt’intorno, annusando il punto in cui ero stata prima.

    Comparve un altro cane, poi un altro e un altro ancora, si riversavano nei boschi come formiche, ringhiando deliziati per l’intensità della mia traccia.

    L’angoscia mi agguantò lo stomaco.

    Levatevi dai coglioni.

    Poi, arrivò lui.

    Seduto orgogliosamente su un cavallo nero, così grande che sembrava una bestia degli inferi, comparve al piccolo galoppo. Gli stivali lucidati assorbivano le macchie di luce; un frustino con un diamante incastonato nel manico scintillava minaccioso.

    Sembrava nel suo elemento.

    Un gentiluomo uscito a caccia con il fedele destriero e la sua prode schiera di cani. I capelli che iniziavano a inargentarsi rilucevano come lamine nel sole. La faccia senza età emblema di ferocia e vittoria.

    Vicino ai trenta, Jethro indossava il comando come un’acqua di colonia. La mascella forte, le labbra protese e la fronte scolpita urlavano potere, vero potere. E nessuno poteva farci niente.

    Seduto con la schiena dritta come un fuso e le mani strette sulle redini, era… maestoso. Non importava che lo odiassi o lo volessi. Quel fatto sarebbe rimasto vero.

    L’eccitazione gli luccicava negli occhi che esploravano il sottobosco, un sorriso accennato sulle labbra.

    Da quanto durava quella farsa? Un’ora? Forse due? Aveva mantenuto la parola e mi aveva concesso tutti i quarantacinque minuti? Non sapevo perché, ma

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