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La Caduta
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E-book428 pagine6 ore

La Caduta

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Info su questo ebook

Alex ha compiuto qualcosa di irreparabile, qualcosa che la porterà a intraprendere un oscuro viaggio nel suo passato e in quello di un nemico senza volto: Lucifer. Segreti custoditi per millenni verranno svelati sconvolgendo la vita di Alex e dei suoi compagni, portandoli a stringere alleanze inaspettate e a prendere decisioni definitive. Dopo aver conosciuto il misterioso mondo dei Custodi, preparatevi a scoprire, nel più inaspettato dei modi, quello di coloro che hanno dato origine all’antica guerra: i Caduti.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788899660437
La Caduta

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    Anteprima del libro

    La Caduta - Yasodhara Leandri

    Goethe

    Capitolo 1

    Potere. Scorreva nelle mie vene come un incendio indomabile. Ero un tutt’uno con esso, ed entrambi avevamo voglia di vendicarci. Di distruggere. Sollevai lo sguardo sulla mia vittima. La disperazione nei suoi occhi non fece altro che aumentare il mio desiderio di vederla spegnersi. Mi pregava con voce tremante di fermarmi. Risi per la futilità di quel gesto e in una mossa fulminea la attirai a me senza nemmeno toccarla. Era mia. Percepivo la sua essenza, così vulnerabile e insignificante. Ero pronta a cancellarla dall’universo quando qualcosa cambiò. Riconobbi la vittima. Era il Custode che aveva ucciso mia madre. Il Custode che io stessa avevo assassinato. No. Non ne potevo essere capace.

    Assassina mi sussurrò una voce.

    Conoscevo quella voce, apparteneva alla ragazza che avevo privato di un padre. Nel cercare di vendicare un’ingiustizia ero stata la causa di un’altra. Avevo perso mia madre e solo da pochi giorni avevo scoperto che Jemima, grazie a me, aveva perso il padre. Fu quella terribile consapevolezza a svegliarmi dall’incubo. Nel ritornare alla realtà mi resi conto che qualcuno stava a pochi centimetri da me e teneva una mano sul mio collo. Non persi tempo a riflettere e, ancora agitata dal sogno, afferrai con vigore la gola di quel qualcuno. Continuai a stringere finché non capii di chi si trattava.

    «Al… Alex» rantolò Leila.

    Mi allontanai immediatamente da lei e mi guardai le mani tremanti.

    Che sto facendo?

    «Io… mi dispiace…» balbettai confusa.

    «Tranquilla sto bene… è colpa mia, ti ho spaventata…» ammise, massaggiandosi il collo.

    «Che stavi facendo?»

    «Niente, niente torna a dormire» rispose Leila alzandosi e raggiungendo il suo letto.

    Per un attimo rimasi zitta, non sapendo se insistere. Era passata appena una settimana dalla morte di entrambe le nostre madri e tra di noi si era stabilito una specie di rispettoso silenzio. Nessuna delle due parlava di come stava perché sapevamo quanto futile sarebbe stato quel gesto. Fissai il soffitto in legno, qualche volta scricchiolava emettendo suoni a momenti sinistri e a momenti confortanti. Mi resi conto che non sarei più riuscita a dormire, così mi alzai e uscii dalla camera. L’aria gelida mi investì ma non ci feci caso. Era proprio quello che volevo: sentire il vento freddo che mi entrava nelle ossa, mi faceva sentire viva, ancora umana. Quando invece dentro ero vuota. Ricordai, come era ormai mia abitudine, il momento in cui avevo disintegrato l’anima di quel Custode e strinsi i pugni sul balcone della nostra nuova casa. Ci eravamo trasferiti, l’Organizzazione aveva decretato che l’Accademia di New York non era più un luogo sicuro, eravamo stati scoperti da un Caduto o almeno così loro credevano. Ora ci trovavamo in un’enorme struttura nel bel mezzo del nulla, a quasi duemila metri sulle montagne della Great Valley. Mi piaceva quel luogo. Era selvaggio e così vasto da darmi in qualche modo l’impressione d’essere libera. Libera non dai Custodi ma da me stessa. Sentivo che, immersa in quella vallata circondata da boschi e vette rocciose, potevo smettere di esistere. Spaziai con lo sguardo percorrendo ogni angolo di quel luogo: il prato ricoperto di neve, simile a un oceano profondo e ignoto, i boschi argentati che si inchinavano al cospetto della luna e poi le imponenti vette che si slanciavano verso le stelle. Erano queste ultime le protagoniste di uno degli spettacoli più belli a cui avessi mai assistito. La sfera celeste era tappezzata da puntini luminosi e, nell’osservarla, non potevo che trarne conforto. Ero così piccola e insignificante, cosa potevo io di fronte a quella magnitudine? Il rumore di una porta sbattuta al piano di sotto mi distolse dalle mie riflessioni. Abbassai lo sguardo e la vidi. Avvolta in un cappotto, si stava allontanando dalla sua abitazione e si dirigeva verso il bosco. Era Jemima. L’avevo vista seguire quella routine per ben tre notti da quando eravamo arrivate lì. Non l’avevo mai seguita. Stavolta, però, la curiosità mi spinse a rientrare, afferrare il cappotto e scendere le scale esterne. Cercando di non far rumore presi in prestito una delle lanterne dall’armadio degli attrezzi appena sotto l’ultima rampa di scale e seguii Jemima. Sapevo che prima o poi si sarebbe accorta di me, eppure questo non mi fermò. Trovai il sentiero senza difficoltà, però, non appena alzai lo sguardo, mi accorsi che l’avevo persa di vista. Feci qualche altro passo incerto fino ad arrivare a un ponte di legno. Il solo rumore proveniva dal torrente sotto di esso, invisibile nell’oscurità.

    «Perché mi stai seguendo?» chiese una voce alle mie spalle. Sussultai e mi voltai incontrando lo sguardo assente di Jemima. Non sembrava arrabbiata o infastidita.

    «Ero curiosa» ammisi avvicinandomi.

    Jemima annuì pensierosa quasi come se non avesse nemmeno capito cosa le avevo detto. Si tolse il cappuccio e lasciò che il vento sollevasse i suoi lunghi capelli biondi, facendoli agitare come fossero onde mosse dal vento. Fece luce ai suoi piedi, come per cercare qualcosa, finché non vide un masso che sembrava andarle a genio e vi si sedette sopra con aria composta. Spostò poi lo sguardo su di me, indicandomi lo spazio vuoto accanto a lei. Per un attimo rimasi interdetta. Non mi aspettavo quel trattamento, pensavo che mi avrebbe urlato contro mandandomi via. Poi, dubbiosa, decisi di obbedire e mi sedetti accanto a lei, tirai a me le ginocchia e posai la lanterna a terra. Restammo in silenzio per qualche minuto, entrambe intente a osservare il cielo.

    Fissavo la volta celeste sperando di potermi annullare in essa.

    «Ti hanno interrogata oggi» disse Jemima di punto in bianco.

    «Sì…» risposi, anche se la sua non era stata una domanda.

    «Devi essere innocente se sei ancora viva» dichiarò, puntando lo sguardo nei miei occhi. Ricambiai con assoluta indifferenza.

    «Sì, devo esserlo…» sussurrai, senza tradire nessuna emozione.

    «Mi sbagliavo su di te» sentenziò, sporgendosi verso di me.

    La fissai confusa.

    «Pensavo fossi una semplice Terrena, che non avessi il fegato di uccidere nemmeno un Caduto… ma mi sbagliavo» aggiunse, afferrandomi con uno scatto il colletto della giacca, «...potrai aver ingannato quell’ingenua che si azzarda a chiudere occhio quando tu le sei così vicina, ma io so chi sei, sei qualcosa che nessuno di noi ha mai visto e niente potrà convincermi del contrario» tuonò, tirando sempre più il mio colletto e fissandomi ancora più intensamente, come a volermi entrare dentro, scoprire ogni mio segreto, scavare dentro la mia testa e il mio cuore e trovare il mio senso di colpa e il dolore per aver tolto la vita a un uomo, suo padre, e aver cancellato la sua anima dall’esistenza. Tuttavia non aveva considerato un dettaglio. Un dettaglio che rendeva vano il suo tentativo di spaventarmi o indebolirmi. Non provavo nessun senso di colpa. Non c’era una fibra del mio essere che si fosse pentita di ciò che avevo fatto.

    «Penso tu abbia ragione» dissi, mentre un sorriso furbo mi affiorava sulle labbra. Quel suo atteggiamento mi divertiva. Sembrava davvero convinta di potermi minacciare. La persona che con un solo sguardo l’avrebbe potuta distruggere. Ed ero quasi sul punto di farlo quando qualcuno richiamò l’attenzione di entrambe.

    «Che sta succedendo qui?» esclamò Leila, illuminandoci con una torcia.

    Jemima allentò la presa sul mio colletto e mi fissò sorpresa, quasi spaventata. Non se lo aspettava. Non si aspettava quella mia reazione. Non si era resa conto del mostro che si trovava davanti e in quel momento realizzai di essermi io stessa sottovalutata. Non ne avevo più il controllo, l’assassina di quel Custode e io stavamo diventando la stessa persona, forse lo eravamo sempre state.

    Un tremolio cominciò a propagarsi in tutto il mio corpo, dovetti stringere le mani a pugno per evitare che qualcuno se ne accorgesse. Ero spaventata, anzi terrorizzata.

    Intendevo davvero quello che avevo detto a Jemima e quello che avevo cercato di fare prima che Leila ci interrompesse. L’avrei davvero uccisa. Cos’ero diventata? Un mostro. Non sapevo nemmeno com’ero riuscita a riprendere il controllo di me stessa. Non sapevo quando sarebbe successo ancora e se quella volta sarei riuscita a resistere a quel desiderio. Più che a un desiderio, però, quella sensazione somigliava quasi a un bisogno. Avevo bisogno di sentirmi come mi ero sentita nel distruggere il Custode. Sapevo che era sbagliato, orribile e disgustoso. Eppure tutto ciò non aveva importanza alcuna per quell’oscurità che sembrava essere diventata parte di me.

    «Lasciala andare!» ordinò Leila raggiungendoci e allontanandomi da Jemima in modo protettivo.

    Quanto a quest’ultima aveva abbassato lo sguardo e di lei, in quel momento, potevo vedere soltanto una cascata di capelli biondi.

    «Andiamo…» mi sussurrò Leila sospingendomi verso il sentiero.

    Obbedii, ma dopo qualche passo mi voltai.

    Jemima stava sollevando il capo lentamente; non appena i suoi capelli smisero di coprire il suo volto mi fissò con uno sguardo pieno d’odio e rabbia.

    La sorpresa e la paura erano sparite e nei suoi occhi albergava una sola promessa. Una promessa che conoscevo bene: vendetta.

    Non avevo seguito Leila in camera. Mi ero fermata sul terrazzo a fissare lo spettacolo sopra le nostre teste. Era l’unica cosa che sembrava impedirmi di impazzire. Nell’ultima settimana avevo cercato risposte, ovvero avevo cercato Jaden. Dopo quell’ultima frase, dettami dopo l’omicidio e la visione di Venezia, Sei la nostra speranza, Emma, mi ero resa conto che era lui che avrei dovuto perseguitare per scoprire cosa mi stava succedendo. Come era prevedibile da parte sua, però, era sparito nel nulla. Se ne era andato dicendo che sarebbe stato tremendamente occupato per le indagini dell’Organizzazione. Hanno bisogno di un colpevole da distruggere mi aveva detto.

    Ma sono io e lo sai benissimo avevo ribattuto allora.

    Aveva risposto scuotendo la testa e lanciandomi un sorriso divertito, per poi voltarsi e sparire.

    Riflettendo mi resi conto che l’unica persona vicina, che potesse sapere almeno la metà delle cose che sapeva Jaden, era sua zia; la direttrice, però, aveva fatto il suo arrivo nella Great Valley solo quel pomeriggio. Non avevo ancora avuto l’occasione di torchiarla; dunque decisi che il giorno dopo l’avrei seguita come un’ombra. Da quel momento in poi con lei avrei giocato a carte scoperte.

    «Che fai ancora qui fuori? Ti prenderai una bronchite…» disse Leila uscendo e stringendosi nel cappotto.

    «Torna a dormire…» ribattei fredda.

    Forse un po’ troppo. Tuttavia doveva essersi abituata a quel trattamento distaccato che ultimamente riservavo a lei e a ogni altra persona che avevo paura di ferire. Quello che aveva detto Jemima era la pura verità. Anche quella sera avevo rischiato di soffocare Leila.

    «Leila…» la chiamai prima che rientrasse.

    Pensare a quello che era accaduto poco prima mi aveva fatto tornare alla mente un dettaglio.

    «Che stavi facendo prima? Mentre dormivo…» le chiesi.

    Le davo le spalle quindi non vidi la faccia che fece mentre rispondeva con un lungo silenzio. Non insistetti e aspettai che se ne andasse. Poco dopo, però, la sentii avvicinarsi e appoggiarsi alla staccionata di legno accanto a me. Mi voltai, stava osservando la volta celeste, così ritornai a fare lo stesso. Forse aveva bisogno anche lei di trovare conforto in quell’infinità.

    «Controllavo il tuo battito cardiaco» ammise, sospirando nervosamente.

    Rimasi interdetta e la osservai in attesa di una spiegazione.

    «Mi sono svegliata e tu… non lo so… mi è sembrato che non stessi respirando… avevo paura che il tuo cuore si fosse fermato un’altra volta» finì di dire, abbassando lo sguardo.

    «Un’altra volta?»

    «C’è una cosa che non ti ho mai detto di quando ti ho trovata dopo l’attacco…» cominciò deglutendo.

    Rimasi in silenzio e aspettai che continuasse.

    «Alex il tuo cuore… non batteva, eri… morta» affermò con voce roca.

    La guardai e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.

    Doveva essersi spaventata molto.

    «Leila…» la chiamai e mi avvicinai toccandole una spalla.

    Si voltò e mi fissò spaventata e preoccupata.

    «Io sto bene...» cominciai, sorridendole forse per la prima volta dopo tanto tempo. Nonostante sapessi di dover mantenere le distanze non potevo lasciarla soffrire, aveva bisogno di quella sicurezza. Soprattutto in un momento come quello.

    «Non puoi saperlo, il Caduto potrebbe aver dato lo sguardo mortale anche a te, magari proprio per questo non ricordi cos’è successo…» farfugliò agitando le mani.

    A quelle parole una fitta al cuore mi fece sentire ancora me stessa. Mi sentivo in colpa, non per aver ucciso il Custode, ma per la mia disonestà nei confronti di una persona come Leila. Si stava preoccupando per me quando invece si sarebbe dovuta preoccupare di me.

    «C’è soltanto un piccolo dettaglio che non quadra nella tua paranoia, io non sono morta» dissi con espressione serena.

    «Ma…»

    «Ascolta» la interruppi, afferrandole la mano e portandola al mio collo.

    «Questo è il mio cuore e non smetterà di battere dal nulla, non so cosa sia successo… e il fatto che durante l’interrogatorio di oggi non mi sia stato chiesto niente a riguardo mi fa pensare che tu non ne abbia parlato con nessuno, giusto?»

    Lei annuì forse già intuendo dove volevo arrivare.

    «E perché non l’hai fatto?» chiesi, guardandola negli occhi.

    «Perché non… non sono sicura, forse…»

    «Ti sbagli e rischi di farti strozzare in piena notte per niente» conclusi, lasciandole andare solo allora la mano.

    Sebbene rispose alle mie parole con un sorriso divertito vidi nei suoi occhi il dubbio.

    «Direi di andare a dor…» cominciai, ma venni investita da uno di quei suoi abbracci improvvisi e intensi. Sapeva esprimere tutto il suo amore con quel gesto. In quel momento mi stava dicendo che aveva paura, paura che non stessi bene, che mi fosse successo qualcosa. E aveva ragione. Non stavo bene. Era davvero successo qualcosa dentro di me. Stavo perdendo me stessa o forse, e questa era la cosa che più mi spaventava, stavo trovando me stessa. L’unica cosa che ancora mi ricordava chi fossi erano le persone che amavo. Tuttavia, se davvero tenevo a loro, e volevo mantenerle al sicuro non potevo permettergli di scoprire cos’ero.

    Non potevo permettergli di avvicinarsi a un mostro. Fu per questo che risposi a malapena all’abbraccio e me ne staccai quasi subito. Evitai lo sguardo di Leila lasciandola interdetta e ferita per quel mio atteggiamento freddo. E, forse, ancora più confusa. Poco prima mi ero avvicinata. Nonostante l’avessi voluto fare per non vederla soffrire sapevo che una parte di me l’aveva fatto per fermarla da qualsiasi cosa avrebbe potuto fare per cercare risposte. Mi convinsi che stavo facendo la cosa giusta e rientrai senza aggiungere altro. Una volta a letto la sentii raggiungermi dopo pochi minuti e infilarsi sotto le coperte. Non passò molto tempo prima che i suoi respiri divennero pesanti e io tirai un sospiro di sollievo. Come se il fatto che non fosse più cosciente mi permettesse di stare sola, di smettere di fingere. Non mi sembrava di far altro in quegli ultimi giorni. Ci riuscivo molto bene; durante gli interrogatori tutti avevano dato l’impressione di credermi, pure la macchina della verità. Gli studenti avevano i loro sospetti su di me, ma anche la peggior ipotesi che poteva albergare nelle loro menti sarebbe stata quella sbagliata. Dalle voci che seguivano ogni mio passo avevo saputo che molte persone puntavano il dito contro me e Leila. Di motivi per accusarmi ne avevano molti, ero l’ultima arrivata, avevo un simbolo e dei poteri che nessuno aveva mai visto, ero stata presente agli ultimi attacchi e scontri tra Custodi e Caduti. Ero quel cambiamento, quel qualcosa di diverso che tutti temevano. Per quanto riguarda Leila la sua colpa era il suo passato, legato a quello di sua zia. La storia che si ripete, così dicevano. Essere oltretutto mia amica non giocava certo a suo favore. Eppure tutta quella diffidenza, tutti quegli sguardi sospettosi e indignati non ci toccavano, non toccavano me. Così mi risultava facile ignorare tutto e tutti. O almeno quasi tutti. A quel pensiero strinsi forte la coperta rossa e non la mollai finché quella fitta al cuore si affievolì. Non se ne andò completamente. Non se ne andava mai, ma diventava sopportabile nel momento in cui ricordavo a me stessa che lui c’era ancora. Senza di me, ma era ancora là fuori. A una decina di camere di distanza in effetti. Tuttavia per me era diventato ormai irraggiungibile. Aveva cercato di starmi vicino, di essere lì per aiutarmi a superare una perdita che lui conosceva bene. E io l’avevo rifiutato. Le uniche parole che ero riuscita a dirgli, dopo aver scoperto che mostro ero, erano state: voglio stare sola . Aveva rispettato il mio desiderio, ma nel farlo non si era reso conto che non sarebbe stata una cosa temporanea. Era l’ultima persona che avrei potuto avvicinare, l’ultima persona che mi potevo permettere di ferire. Aveva sofferto abbastanza e quella a cui pensava di tenere non ero io. Non lo ero mai stata. Quel pensiero, realizzare che non sarei più potuta essere quella che ero, che io e Peter non saremmo più potuti essere qualsiasi cosa fossimo stati anche solo per un altro attimo, era insopportabile.

    Capitolo 2

    Era finita la corsa sfrenata verso Peter, ma mi ritrovavo comunque sempre sotto lo stesso arco. Ero distesa e cercavo di tirarmi su a fatica. Mi sentivo agitata e piena di rabbia e disperazione. Ero quasi riuscita ad alzarmi quando qualcuno mi afferrò da dietro e mi sbatté contro la pietra dell’arco. Spinsi la testa all’indietro colpendo il mio aggressore e poi mi voltai pronta ad affrontarlo. Quello che vidi, però mi tolse il fiato. Inizialmente nel vederlo pensai a Peter, ma subito capii che gli assomigliava soltanto. L’avevo sempre scambiato per lui quando invece si trattava di… il nome ancora non riuscivo a ricordarlo. Tutto ciò che sapevo in quel momento era che voleva uccidermi.

    «No» sussurrai, appena prima che il ragazzo dai capelli rossi mi stringesse le mani attorno al collo.

    Mi svegliai ansimando. Controllai subito se Leila avesse assistito alla cosa, non volevo darle motivi in più per essere preoccupata. Non sembrava trovarsi in camera così tirai un sospiro di sollievo e crollai sul cuscino. I miei sogni si facevano sempre più strani e complicati. A volte ero l’assassina che bramava vendetta, a volte ero Emma, come in quello da cui mi ero appena svegliata. Nel primo caso almeno potevo trovare un senso, mentre quegli scorci di vita appartenenti a un’altra persona erano qualcosa di totalmente illogico. Per quale motivo avrei dovuto sognare la vita di una persona vissuta nel Settecento? Una persona che qualcuno sembrava conoscere: Jaden. Fu in quel momento che ricordai cosa mi ero ripromessa di fare quel giorno: perseguitare Laurel. Mi alzai velocemente e cominciai a sistemarmi. Mi stavo lavando i denti quando sentii la porta della camera sbattere. Leila era rientrata. Nel riflettere su dove se ne fosse andata prima delle otto di mattina me ne ricordai: era stata all’interrogatorio per l’omicidio del Custode. Finii velocemente di sciacquarmi la bocca e raggiunsi la camera, preoccupata dal silenzio con cui Leila stava sistemando i vestiti nell’armadio.

    Aveva un’aria assente e i capelli scompigliati in testa.

    «Leila?» la chiamai.

    Non rispose e mi accorsi che, in verità, non stava facendo niente di utile dentro l’armadio. Semplicemente muoveva i vestiti da una parte all’altra come se con la testa si trovasse da tutt’altra parte.

    «Leila com’è andato l’interrogatorio?» chiesi allora.

    Come se solo in quel momento si fosse accorta che ero nella stanza, mi guardò confusa. Stette ancora a fissarmi per qualche secondo con uno strano sguardo, distante e intenso al tempo stesso.

    «Se non vuoi parlarne non fa niente, ci vediamo in palestra» conclusi, afferrando la giacca e avvicinandomi all’uscio.

    «In palestra?!» esclamò poco prima che aprissi la porta.

    «Sì, non ricordi? Oggi ci sono le esercitazioni» risposi stranita; solitamente ero io quella che dimenticava quel tipo di cose. Quel giorno le lezioni non ci sarebbero state dato che molti professori dovevano ancora arrivare, così l’Organizzazione aveva ben pensato di allenarci al combattimento.

    «Ah, giusto, ok ci vediamo lì»

    «Ok» dissi, restando ancora a osservarla.

    Non stava bene, quello era chiaro. Qualcosa doveva essere andato storto durante l’interrogatorio. Pensai all’eventualità che venisse incolpata dall’Organizzazione per qualcosa che avevo fatto io. Non potevo permettermi che succedesse. Uscii sbattendo la porta alle mie spalle con forza. Inspirai profondamente l’aria fresca nel tentativo di calmare quella rabbia che sembrava salirmi in petto e divorarmi ogni volta che la lasciavo libera. Appena riuscii a riprendere il controllo di me stessa qualcosa, o meglio qualcuno, me lo fece perdere nuovamente. Mi accorsi che si trovava a due metri da me soltanto quando mi voltai per scendere le scale. Lo fissai impietrita. Era bellissimo come sempre.

    I suoi occhi sembravano riprendere i colori di quel luogo, il calore del sole e del legno e la freschezza dei boschi e dei pini. Portava un adorabile capello blu notte dal quale sfuggivano delle fiamme dorate. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e al tempo stesso ero terrorizzata. Come se anche solo standogli vicino potessi ferirlo.

    «Ehi…» esordì con un sorriso così insicuro che l’avrei voluto abbracciare per dirgli che andava tutto bene.

    «Peter…» sussurrai deglutendo.

    Dovevo andarmene, dovevo dirgli che volevo mi stesse distante. Eppure non riuscivo a fare nessuna di queste cose mentre lui mi stava così vicino.

    «Io… ho pensato che è mattina e tu… mangi… ehm» si schiarì la voce imbarazzato e io dovetti mordermi un labbro per non sorridere divertita da quella sua strana goffaggine, tipica di quando voleva dire o fare qualcosa di carino per qualcuno.

    «Mi pare un ragionamento logico… sì» lo assecondai avvicinandomi.

    Mi lanciò uno sguardo torvo, come se mi stesse dicendo che si rendeva benissimo conto che lo stavo prendendo in giro.

    «Sono riuscito a conquistare due muffin al cioccolato fondente prima che quelli dell’Organizzazione li divorassero… quei tipi sono dei pozzi senza fondo» disse lui, tendendomi un sacchetto dall’aria invitante.

    Ero lì lì per afferrarlo quando quello che aveva detto mi ricordò perché non avrei dovuto farlo. Accennando all’Organizzazione mi aveva fermato dal fare qualcosa di tremendamente stupido, qualcosa che evitavo di fare da giorni. Non so in che modo, ma per qualche istante l’avevo semplicemente dimenticato, forse era stata la sua presenza così magnetica a cancellare tutto ciò che fosse d’ostacolo a un nostro riavvicinamento.

    «Grazie… davvero, ma non ho molta fame» dichiarai, distogliendo lo sguardo e infilando le mani in tasca nel tentativo di fermare qualsiasi idea potesse animarle.

    «Tu hai sempre fame!» esclamò, sorridendo divertito. Quell’allegria, però, gli morì subito in volto. Doveva essersene reso conto. In fondo sapevo che lui era l’unico che non sarei mai riuscita a ingannare.

    «Devo andare» farfugliai e feci per raggiungere le scale.

    «Alex che succede?» ribatté, afferrandomi un braccio.

    «Sai benissimo che succede» risposi pacata.

    «No, c’è qualcos’altro…» disse, usando un tono più delicato e allentando un po’ la stretta.

    Sospirai sommessamente. Dovevo trovare la forza di farlo, proprio in quel momento. Dovevo fare in modo che lui volesse starmi alla larga. Mi divincolai e lo fissai seccata.

    «Ascolta Peter, anche se ci fosse qualcos’altro non sarebbero fatti tuoi, forse ti ho dato l’impressione sbagliata e mi dispiace, ma ora sarò chiara: non sono interessata a qualsiasi cosa tu stia cercando di fare, lasciami in pace, ok?»

    Ero riuscita a dirgli tutto questo senza tradire la minima emozione. Avevo lasciato che quel nuovo lato di me, quello più oscuro, mi togliesse il peso dei sentimenti. Anche se solo per poco. Quel poco che bastava a salvarlo. Peter mi osservava sorpreso e ferito. Non potevo più sopportare di vederlo guardarmi in quel modo, di sapere di avergli appena fatto del male. Così sbuffai, fingendo impazienza, e me ne andai. Corsi velocemente giù per le scale e non smisi di camminare finché non svoltai l’angolo. Controllai di non essere osservata e poi mi accasciai contro il muro. Volevo piangere, urlare, prendere a pugni qualcosa.

    «Alex?» mi chiamò una voce fin troppo familiare.

    Sollevai la testa lentamente e fissai quel volto con disprezzo.

    «Tutto bene? Ti vedo stanca, gli incubi ti tengono sveglia la notte?» chiese con il suo solito sorriso.

    Un sorriso che avevo sempre visto pieno d’amore e simpatia, ma che era invece la perfetta imitazione di quelle due cose.

    Mi staccai dal muro e feci un passo verso Laurel, indecisa se mantenere la calma o sbatterla contro la parete.

    «Può capitare quando uccidi un uomo a sangue freddo» commentò, annuendo tranquillamente.

    Decisi allora per la seconda opzione. Le afferrai il colletto del gilet e la scaraventai addosso al muro con una forza che non pensavo di avere, una forza che, forse, non avrei dovuto possedere.

    «Voglio delle risposte, ora!» ordinai, premendole il braccio contro il collo. Non cercò di liberarsi e non sembrò nemmeno sorpresa da quella mia reazione.

    «Certo che… educazione e pazienza non rientrano proprio nel tuo… vocabolario signorina Ridd» disse Laurel con voce strozzata.

    «Non le considero molto utili con persone che non sanno nemmeno cosa siano» ribattei, continuando a spingerla contro il muro. Stavo per passare a qualche altro metodo di convincimento quando sentii dei passi. Arrivavano da destra, di lì a poco qualcuno avrebbe assistito alla scena. Mollai subito la presa, rendendomi conto che stava succedendo di nuovo. Perdevo il controllo di me stessa e facevo cose che normalmente non sarei mai stata in grado di fare. Quando avevo ucciso il Custode ero stata in grado di sentire la sua voce mentre parlava al telefono, eppure ero troppo lontana. Il mio senso dell’udito si era acuito e, non soltanto, anche la mia forza sembrava aumentata. Solo quando l’avevo lasciata andare mi ero resa conto che, nel tenerla contro il muro, avevo sollevato Laurel da terra. Feci qualche passo indietro fissandomi le mani. Come ci ero riuscita? Un rumore improvviso mi fece fare un salto. Era un fischio. Le gomme di una macchina che stridevano. Poi uno scrosciare continuo, come il suono di una cascata. Mi presi la testa tra le mani mentre migliaia di rumori diversi si accavallavano l’uno all’altro: lo sbattere delle ali di un uccello, un’accetta che spezzava il legno, il vento che fischiava tra gli alberi. Potevo sentire ogni cosa e al tempo stesso distinguerne soltanto dei frammenti. Qualcuno mi posò le mani sulla testa sussurrandomi di calmarmi. Dovevo concentrarmi su qualcosa, su qualcuno. E la prima persona a cui pensai fu mia madre. Ai suoi ultimi momenti di vita.

    Sii te stessa… qualsiasi cosa succeda, sii… ciò che sei… sempre stata. Erano state queste le sue ultime parole e io avevo promesso che le avrei rispettate. Eppure l’avevo già rotta quella promessa, stavo già diventando qualcun altro. Nonostante pensarci mi ricordasse il male che avevo fatto, riuscii a calmarmi e finalmente nella mia testa ritornò il silenzio.

    Sollevai lo sguardo e incontrai quello di Laurel. Era stata lei a cercare di tranquillizzarmi poco prima. In quel momento mi osservava con un’espressione consapevole.

    «Ci vediamo più tardi Alex» disse, lanciandomi un ultimo sorrisetto identico a quello del nipote.

    Rimasi per un attimo immobile, ripensando a ciò che era appena successo e finalmente ammisi a me stessa qualcosa che avevo cercato di non realizzare fino ad allora. In quei brevi momenti, in Accademia prima dell’omicidio, e in quel preciso momento con Laurel, ero stata qualcos’altro. Mi era successo ciò che mi sarebbe dovuto accadere in presenza dei Custodi se fossi stata una Caduta. Era davvero così? Ero una Caduta? Ero una Caduta e una Custode insieme? Era quello il motivo per cui il mio simbolo era diverso da quello di tutti gli altri? Ricordai una delle mie prime conversazioni con Leila. Avevo chiesto se era possibile che l’unicità del mio simbolo dipendesse dall’unione di due discendenze. Allora la Custode aveva escluso quella possibilità, eppure eccomi qui a dimostrare che forse si sbagliava. Eccomi qui ad affrontare, per l’ennesima volta, una verità impossibile.

    ***

    Peter aveva ragione. I miei muffin preferiti erano finiti. Mi accontentai così di due cornetti al cioccolato e una tazza fumante di caffè. Mi voltai cercando di capire dove mi sarei potuta sedere a fare colazione in pace, ma fu proprio allora che mi resi conto che sarebbe stato impossibile. Mi trovavo in una mensa simile a quella dell’Accademia: le pareti in pietra erano ricoperte di stemmi e quadri risalenti a chissà quale epoca. Leila mi aveva riferito che quel luogo era una delle più antiche sedi dei Custodi, che era stata chiusa per molto tempo per dei problemi alle fondamenta e riaperta appena tre anni prima. Gli studenti seduti sulle lunghe panche in legno sembravano non badare molto ai quadri lungo le pareti, raffiguranti membri del Consiglio e Custodi originali, piuttosto erano interessati a lanciarmi occhiate ostili e curiose. Decisi allora di trovare un altro posto con un numero ridotto di persone che potessero farmi venire voglia di ucciderle. Ricordavo di aver visto una specie di casetta dal terrazzo della camera, doveva trovarsi poco prima dell’inizio del sentiero percorso la notte precedente. Non volendo correre il rischio di interagire con altri Custodi per i minuti successivi, raggiunsi quel luogo isolato, prestando molta attenzione alle persone che incrociavo. Trovai subito la casetta, nascosta parzialmente dai rami degli alberi. Era addossata a un pino e una piccola scala avviluppata attorno a esso vi permetteva l’accesso. Una volta all’interno trovai un tavolo rotondo circondato da delle panche che formavano un tutt’uno con la parete. Per un attimo mi chiesi a cosa servisse quella struttura e poi mi accorsi di una scatola metallica appesa a una parete e la aprii curiosa. Conteneva un telefono a fili. Sollevai la cornetta e controllai se funzionasse. Nessun rumore ne uscì. Non ne fui particolarmente delusa, d’altronde avevo con me il mio cellulare. Mi sedetti e aprii il sacchetto con la colazione. Mentre mi ingozzavo di cibo, e osservavo il panorama attraverso le finestre disposte lungo tutto l’ottagono della casetta, riflettei sulla possibilità di contattare una persona. Tirai fuori il cellulare. Il Consiglio me ne aveva procurato uno niente male dato che il mio era andato perduto in servizio. O almeno queste erano state le loro parole. Non mi fidavo di loro, e forse ero paranoica, ma avevo paura che, grazie a quel regalo, mi stessero spiando. Ne aveva uno anche Leila e quando l’avevo resa partecipe di questo mio sospetto l’aveva scambiato per sarcasmo. Finalmente sapeva di cosa si trattava, anche se spesso non capiva quando effettivamente ero sarcastica e quando no. Mi rigirai ancora per un attimo il cellulare tra le mani e poi decisi di raggiungere la rubrica. Selezionai il contatto e chiamai. Rispose la segreteria, invitandomi a lasciare un messaggio. Dopo il segnale acustico rimasi per un attimo in silenzio, non sicura di cosa dire o anche solo di voler dire qualcosa.

    «Ehi... sono io, spero vada tutto bene... vorrei fossi qui...» mi interruppi rendendomi conto dell’inutilità di quelle parole: «io... mi sta succedendo qualcosa Jane, qualcosa di... e non so che fare... ho paura» confessai, stringendo il telefono con angoscia.

    Nell’ammettere ad alta voce quello che provavo mi sentii sprofondare nell’ignoto. Il bip che segnava la fine del tempo mi riportò alla realtà. Che stavo facendo? A cosa sarebbe servito quel messaggio? A far preoccupare Jane? Ad allertare l’Organizzazione se la mia paranoia non fosse stata tale? Scossi la testa, cancellai subito il messaggio e mi accasciai sul tavolo, poggiando il capo sul legno freddo, sperando che mi desse la lucidità per continuare.

    «Ehi! Hai trovato il…» cominciò qualcuno per essere poi interrotto dal mio breve urlo spaventato.

    A quel punto rise e prese posto di fronte a me.

    «Wow, non pensavo di essere così furtivo, allora ti nascondi anche tu dal resto del mondo?» esclamò Rowan, aprendo il suo sacchetto della colazione.

    «Beh, non più» commentai, cercando di ricompormi e considerando la possibilità di andarmene.

    «Orsetto gommoso?» chiese, lanciandomi una confezione di caramelle, «…soltanto i gialli, gli altri sono miei» aggiunse.

    «No, grazie» risposi, rifiutando un’altra volta una colazione, se così si poteva definire quello che mi aveva appena offerto.

    Misi via il cornetto rimasto e feci per andarmene, ancora aggrappata alla speranza di riuscire a stare sola.

    «Alex, aspetta!» mi fermò ovviamente Rowan.

    «Fammi compagnia» aggiunse.

    Aprii la porta impettita e cominciai a scendere le scale.

    «Ho un muffin al cioccolato fondente!» disse in tono canzonatorio.

    Tentata mi voltai e vidi il suo braccio fuoriuscire dalla porticina e sventolare il suddetto muffin. Lo fissai a lungo. Ero molto intrigata da quella proposta e sapevo che andarmene, visto com’erano andate le cose fino a quel momento, avrebbe probabilmente significato incontrare qualcun altro che conoscevo. Tra tutti forse Rowan era l’unico con cui avrei preferito passare del tempo se costretta. Feci dietrofront e rientrai lanciandogli uno sguardo torvo. Mi sedetti e afferrai velocemente il muffin, prima che cambiasse idea a riguardo.

    «Come sei riuscito ad averlo?» chiesi curiosa e, in parte, più di buon umore grazie a quella squisitezza.

    «Me l’ha dato Peter…»

    Quasi non mi soffocai con il boccone. Tossii e poi cercai

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