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Matrioska
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E-book219 pagine3 ore

Matrioska

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Info su questo ebook

Raccontami una storia. Lui e lei si amano.
Tutto qui? Lei è molto bella ma anche molto giovane, nemmeno quindici anni.
Nient’altro? Lui è un cretino di vent'anni studente di giurisprudenza.
Capisco. Ah! Vivono in un paesino di poche anime.
Facebook però ce l’hanno? Certo.
* * * * *
Antoni Arca (Alghero, 1956), ha pubblicato libri di carta dal 1983 fino all'altro ieri e scritto le proprie opere in tante lingue; da qualche tempo ha deciso di creare in algherese di Sardegna, tradursi nell'italiano che insegna a scuola e pubblicare in ebook.
LinguaItaliano
EditoreNOR
Data di uscita24 gen 2016
ISBN9788897285960
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    Anteprima del libro

    Matrioska - Antoni Arca

    Antoni Arca

    Matrioska

    Romanzo

    ISBN 978-88-97285-96-0

    Indice

    Matrioska

    Nina

    Festa grande

    Venga la festa

    Piove ed è buio

    Nina no

    Non riuscire a dirlo

    Ieri

    Buongiorno mal giorno

    Era un sogno

    Papaveri

    La locanda musicale

    Vent'anni prima

    Diecimilaottanta

    Elettrico

    Volerei, se potessi

    Il dio del mare

    Come tu vuoi

    Non posso, non voglio, non so

    Così come sei

    Non ancora

    Per motivi infuocati e accorati

    Vostra onore

    Miracolo della natura

    Una notte

    Amor demente

    Ancora domani

    Guariscimi

    Fonte di vita

    La fine

    Epilogo

    L'Autore

    La collana Le Pleiaidi

    Colophon

    MATRIOSKA

    – Sentirai il contatto della coperta,

    entrerò nel letto come un danzatore,

    ti bacerò piano a labbra socchiuse

    e darò giusta stima a tutti i tuoi averi.

    Vicent Andrés Estellés

    Nina

    Elementari e prima media in paese, e dalla seconda sempre fuori. Fino alla maturità a Sanbenato e l’università a Cabususu. L’università avrei preferito farla a Pisa o a Padova, ma a casa: o Cabususu o niente. E niente avrebbe significato starmene dimenticato a Tanca-caria badando al gregge tutti i giorni domeniche incluse. Sono già due anni che vado a Cabususu quasi ogni giorno.

    Oggi sono previsti i colloqui del primo quadrimestre della scuola elementare, e mamma non vuole andarci, dice che col maestro non si piglia, e pretende che ci vada io.

    – Tu ci andavi d’accordo, mentre tuo fratello no. Vacci, per favore.

    – Non posso, ma’, devo essere a Cabususu prima delle otto e mi darà un passaggio Piccolino.

    – Vacci, e se dovessi tardare più del previsto potrai prendere la mia macchina.

    Mi preparo per andare ai colloqui di mio fratello minore, nove anni, quarta elementare. In casa siamo quattro fratelli: io vent’anni, Piera quindici, Marta dodici e Carlino nove. Io e Carlino abbiamo avuto lo stesso maestro; io in quinta elementare, quando ancora era supplente, e Carlino dalla prima. Naturalmente né io né mio fratello abbiamo avuto lui soltanto come maestro, perché c’è quella di italiano, quello di matematica, quella di storia e geografia, quella di religione e quella di inglese, ma essendo lui il solo insegnante maschio della scuola, è quello che si nota di più. E comunque, a onor del vero, lui è convinto che i bambini lo debbano sempre stare a sentire a bocca aperta, come se dicesse chissà quali cose tanto originali. E che dice, alla fine? Ciò che già sta scritto sul sussidiario! Vale a dire proprio niente che meriti di essere ascoltato con un qualche interesse.

    L’orario è dalle quattro alle sei, ci andrò alle sei meno un quarto, così mamma dovrà lasciarmi per forza prendere la macchina e potrò parlare con Nina in tranquillità. Con Nina stiamo insieme dall’ultimo anno di liceo, ma lei è di Sanbenato, io di Indebadas e quindi riusciamo a vederci sempre molto poco. Soprattutto, lei fa psicologia a Roma e io giurisprudenza a Cabususu. È più giusto che ci lasciamo. Non che non possiamo continuare a uscire con chi ci piaccia, ma io voglio essere onesto con lei e con me stesso: voglio potermi innamorare sapendo di non avere impegni con nessun altro. Adesso che ancora posso.

    Nina è fantastica quando me lo prende in bocca. Mi mancherà.

    Mi preparo con calma, perché se finissi di parlare con tutte le insegnanti prima delle sei, mamma potrebbe cambiare idea e non darmi la macchina. Prendo il tablet e vado a studiare l’ultimo video di Ginger Mary: Mai più senza tappi. Inizia con lei che quatta quatta s’introduce nella stanza di due begli addormentati nel Campus. Si spoglia lentamente e ammira prima la bestia di uno e poi la bestia dell’altro. Uhmmm. Deve assaggiarli. Succhia qui, succhia là. I due bei dormienti si svegliano. E vai, uno davanti e uno dietro. Bocca tappata, fregna tappata. Ma non basta. E infatti, casualmente, entra nella stanza un nero già nudo e dal fallo chilometrico. E tre! Mai più senza tappi. Andiamo!

    Bussano alla porta. È quella matta di mia sorella. Ma io non ho ancora finito. – Un attimo! Un momento solo!

    – Sbrigati – dice Marta.

    – E comunque devo ancora fare la doccia.

    – No, la doccia vai a fartela nel bagno piccolo, a me serve questo perché c’è tutta la mia roba.

    – E invece aspetti.

    – Ma’, Telmo non mi fa entrare in bagno, e lui ci si è chiuso da più di mezz’ora!

    Tiro lo sciacquone, mi lavo le mani, esco.

    La mia sorellina è una vera perfida. Nella sua scuola hanno avviato da tempo una sperimentazione di educazione sessuale e lei è convinta di essere già una donna. La natura umana non ha segreti per lei.

    – Non sei ancora pronto? Ti prego di non arrivare in ritardo, non voglio che il maestro pensi che ce l’abbiamo con lui.

    – Perché, non è così?

    – Sì, ma non voglio che lui lo pensi, per cui tu fai finta di nulla. Mi raccomando.

    – Faccio la doccia e vado.

    – Ancora? Te l’ho già detto, non devi arrivare per ultimo.

    Mamma è una donna di cinquant’anni di un metro e cinquanta e di cinquanta chili, troppe coincidenze, quest’anno, dice prendendosi in giro. Vedrai, quest’anno sarà la volta che trovi un lavoro, diciamo noi. Ma io ce l’ho già un lavoro: siete voi. Non ho mai capito se mamma avesse smesso di lavorare dopo il matrimonio, oppure se non avesse mai lavorato e avesse cominciato a cercarne uno in questi ultimi anni; da quando la pastorizia non rende più come un tempo e il lavoro di babbo da solo non dà più le certezze di qualche anno fa nonostante le nostre quattrocento pecore. Ma il vero problema è che mamma ambisce a un lavoretto part-time ben pagato e che non la obblighi a spostarsi da Indebadas, perché lei odia viaggiare. Peccato che Indebadas abbia meno di mille abitanti, vale a dire circa trecento famiglie, e grossomodo corrisponda a un medio condominio di certe periferie di Roma, Napoli o Milano.

    La realtà è che mamma potrebbe fare soltanto il lavoro che sa fare davvero: la mamma. Come dire la tata e/o la cameriera. Nei fatti un lavoro che lei sarebbe anche disposta a fare fuori casa, ma di nascosto, per cui a Sanbenato o a Cabususu, e meglio se proprio a Cabususu, perché ci vivono poco meno di duecentomila abitanti e sarebbe più facile nasconderlo alla gente di Indebadas: che vergogna, la moglie di Torino Demiale serva a casa di un riccastro. Ma si tratta di un rischio inesistente, mamma non viaggia e noi stringiamo la cinghia, tanto a Indebadas non c’è mai nulla da fare, la vita costa pochissimo e io detesto fare sport. Dopo la seconda frattura in tre mesi, prima polso e poi tibia destri, mai più calcio. Anche per questo in paese mi considerano un po’ strano; per loro il calcio è qualcosa di appassionante e necessario, perfino quello giocato dalle squadrette locali, mentre per me non è nulla. Una palla rotola, tu la prendi a calci… Bah!

    Mi metto sotto la doccia del bagno piccolo. Sono le cinque e penso a Ginger Mary. Sì, sì. Due in meno di mezz’ora, non proprio un record, ma è sicuro che bisogna avere una certa preparazione. E io, modestamente. Il fatto è che devo vedere Nina, e non voglio correre il rischio che la bruta attrazione fisica mi tradisca. Mi dispiace, Nina. Non posso, non ce la faccio. Nemmeno un ultimo bacino a ‘lui’, Telmo?. No Nina, grazie. Come ricevuto. Ma che sto dicendo? Vai Ginger, vai Nina! E tre. Adesso sì che ci siamo avvicinati al record.

    Un altro shampoo, un’altra insaponata. Doccia. Accappatoio. Phon. Vai.

    E andiamo a sentire che dicono le maestre di Carlino.

    Sono già in macchina in direzione Sanbenato, diciotto chilometri di poche curve; il maestro ha messo una nota a mio fratello Carlino, perché non ha voglia di studiare, non esegue mai i compiti, non ascolta e non accetta alcuna forma di rimprovero. Dice che tanto sa benissimo che sarà comunque promosso: se ce l’hanno fatta quelle sceme delle sue sorelle, ce la farà anche lui, è un dato. Il maestro ha assicurato che io non sono mai stato come lui, io ero studioso. Erano altri tempi, maestro, sono passati dieci anni. E lui ha aggiunto che quest’anno, per la prima volta, ha presentato domanda di trasferimento; lui vive in frazione di Cabususu, per cui il viaggio non gli pesa, anzi, se lo assegnassero a una scuola in centro impiegherebbe molto più tempo a trovare un parcheggio che arrivare a Indebadas, è il clima che si è creato che non gli piace più. Quando iniziò Indebadas era un paesino vivace, pieno di energia positiva, mentre adesso è diventato una periferia senza anima dove la gente rientra per dormire, e quando ci devono passare la giornata sono sempre furiosi, pieni di livore nei confronti del prossimo. Un sermone interminabile. Fortuna che tutte le altre maestre avevano premura e mi hanno liquidato in fretta. Telmo, come stai?. Quanto sei cresciuto. Carlino? Tutto bene. D’altra parte siete tutti molto dotati nella vostra famiglia. Soltanto due maestre sono del paese, tutte le altre sono pendolari, come il maestro di matematica frustrato, perché ha trentacinque anni e se ne sente sessanta; le altre non hanno problemi, viaggiano in gruppo da Muragheddu, un paesotto di alta collina a cinque minuti d’auto da qui. Si muovono in tre e lavorano a Indebadas perché così hanno deciso; sono contente, per loro la scuola rappresenta un mestiere come un altro, non la missione cui ti ha destinato la vita.

    Il maestro mi ha messo di cattivo umore, non voglio diventare stronzo quanto lui, quando avrò trent’anni. Allora sarò un bravo avvocato divorzista con uno studio avviato, automobile, appartamento, vacanze all’estero, fidanzate. Sì, fidanzate, almeno tre, una bionda e alta, una rossa e atletica e una bruna tendente al curvy. Ma non stile harem. Non sarebbe elegante. Basta, devo darmi una calmata coi video del pussy-pussy club. Sto entrando a Sanbenato. Un paio di semafori, poi a destra sul lungofiume, quindi il ponte per Lisoletta e dritto al bar Marina, che oltre a essere un nome parlante, perché il bar è su una spiaggia alla marina, Marina è anche il nome della figlia minore del primo proprietario. Adesso quella bambina dovrebbe essere una matura signora di quarant’anni; il bar ha cambiato quattro o cinque volte la proprietà, ma il nome è rimasto sempre lo stesso.

    Noi ci andiamo perché d’inverno non ci va mai nessuno; l’estate sembra sempre una stazione all’ora di punta, e l’inverno un deserto infrasettimanale. Di sabato e domenica, infatti, si riempie di varia umanità, quando l’attuale proprietario si ricorda di organizzare feste a tema, serate di piano bar, sagre dell’alga a scottadito.

    Oggi è un giovedì e, oltre a quelli del nostro gruppo, non dovrebbe esserci nessun altro. Il nucleo forte è costituito dai compagni della terza liceo, quelli che non sono andati a studiare sul continente, ovvio; tutti gli altri ne fanno comunque parte, ma solo quando tornano per le vacanze. Nina è rientrata, perché questo sabato sarà il suo compleanno, e ha deciso di festeggiare i vent’anni a Sanbenato. E io, brutto idiota, che le regalerò? Un addio! Ma d’altra parte che dovrei fare, lasciarla con un messaggino? Troppo triste!

    Il panorama di Sanbenato lo ammiro fin da bambino, ma ogni volta, quando il mio sguardo cade sulla foce che si apre al mare, è sempre una sorpresa. A Indebadas si vedono soltanto colline più o meno alte che noi chiamiamo montagne; sempre, tutto intorno, e qui scopri che l’acqua dei fiumi incontra il mare. Fortuna che non sono un poeta, altrimenti ogni giorno scriverei un’ode al mio Sanbenato bello, o Sanbenato bella! Che poi non è nemmeno vero. Secondo i miei amici di Facebook non scrivo tanto male, anzi, a starli a sentire dovrei raccogliere le mie riflessioni poetiche e farne un vero libro. Sì, domani! Non sono mai riuscito a capire se i sanbenatini chiamino il proprio paese al maschile o al femminile, forse in tutti e due i modi in base a proprie convinzioni sentimental-sociologiche: il mio paese, o finale, oppure la mia città, chiusura in a, obviously.

    Essendo in auto ed essendo da solo parlo con me stesso e preparo il discorsetto da offrire a Nina, anzi, me lo canticchio.

    Nina, Nina preziosa, domani per te sarà una festa sontuosa. Ascolta, mia graziosa, che io per te ho in dono qualcosa. Mia bella, davvero, lo giuro, è la luce di una stella. Così di notte paura del buio non avrai e più bella tu sarai.

    Vedi, Nina, la bianca spiaggia è per te, e le onde del mare sono per te, per cullarti nel sonno, Nina. Perché i tuoi pensieri siano dolci e pieni di tenerezza. Tutto sarà bello e io per te canterò, finché il sonno non arrivi a proteggerti.

    Un giardino, Nina, un giardino di fiori, profumi e sentimenti ti regalerò, Nina. Uno spazio senza ombre dove la paura sia bandita. Intorno a noi felicità soltanto, e ogni mattino sarà per te un nuovo meraviglioso fiore. Anche quando io non ci sarò, Nina. Un fiore tu però, sempre lo avrai, perché amico ti rimarrò. Forever!

    Dopo un pezzo così, o chiama la neurodeliri o mi fa un pompino d’addio da Guinness.

    Nel parcheggio riservato del bar Marina vedo qualche moto e poche auto. Non sono il primo. Di Nina non vedo né bici né motorino, magari non c’è ancora. E invece, sì, c’è, è al bar. Tutta figa. Poggiata al banco, alta, magra, piena di curve, un vestito nero attillatissimo, capelli neri molto corti. Perché dovrei lasciarla? Non sono mica matto.

    Dal parcheggio al bar saranno una decina di metri, li percorrerei in un istante e poi ciao Nina, amore mio, e quindi appartati nel punto più buio per stare da soli. Ma gli amici mi trattengono.

    – Mi dispiace, Telmo – dice il primo.

    – Dovevi aspettartela, Telmo – dice un’altra.

    – Telmo, mostrati superiore – consiglia un terzo.

    – Mi raccomando, Telmo, in fondo tu non hai mai avuto davvero bisogno di lei – assicura un’altra ancora.

    Ma che vogliono? Perché mi trattano come se mi fosse capitata chissà quale disgrazia? Dentro, accanto a Nina c’è un uomo, un tizio sulla trentina. E non si limita a starle vicino. Con un braccio la cinge alla vita, le parla fitto dentro i padiglioni auricolari, e intanto le bacia i capelli, i lobi, le guance. E lei non protesta. Dice solo: – Ciao Telmo, questo è Mirko Martelli, il mio ragazzo, ricercatore di psicologia urbana.

    – Telmo.

    Sto male. Improvvisamente l’effetto Ginger Mary ha smesso di produrre la giusta energia, adesso presenta il conto: svuotato da dentro. Non ho più né forza e né voce. Ma tanto a che serve la voce, non avendo più nulla da dire?

    Festa grande

    L’ho assorbita bene la faccenda Nina. Quasi bene, sono rimasto due settimane sempre chiuso in casa e ho preparato due esami; in uno ho preso ventisette e nell’altro ventotto. Avrei anche potuto puntare al trenta, ma avrei avuto bisogno di altre sette otto giorni di clausura; impossibile, un giorno in più senza Ginger Mary e mi sarebbe esploso tra le mani.

    In questi giorni non sono mai entrato in Facebook, né ho mai sentito nessuno via skype, né ho twittato alcunché, nix, nisba, nulla: isolato dal mondo. Ho scritto due mail a Nina, ma ne ho inviato una soltanto: – Grazie per tutti i bei momenti vissuti insieme. Questo solo. Perché si senta almeno un po’ in colpa. E di che? Di avermi lasciato un attimo prima che lo facessi io?

    Ritorno alla vita di sempre: università, Ginger Mary, amici, Ginger Mary e la mia famiglia, ovviamente. Come potrei dimenticarmene, viviamo in sei in cento metri quadri di appartamento e duecento di cortile. Babbo, perché non facciamo una stanzetta

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