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Dimmi che ne vale la pena
Dimmi che ne vale la pena
Dimmi che ne vale la pena
E-book582 pagine7 ore

Dimmi che ne vale la pena

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Info su questo ebook

Madeleine - adolescente impeccabile, di buone maniere e studentessa modello - nonostante sia la primogenita di una famiglia molto ricca e autorevole, e sia cresciuta nel lusso e nelle comodità, è rimasta una ragazza semplice e timida.
Ama la propria vita, la scuola e i due migliori amici Benedetta e Thomas, ma la cosa che ama di più in assoluto è proprio la famiglia: i nonni, la madre Emma, i tre fratelli e infine l'adorato daddy, Matthew, al quale è legatissima. A lui Madeleine racconta ogni cosa e fra loro non esistono segreti.
Durante l'estate dell'esame di maturità, però, avviene qualcosa di molto importante, e tutte le certezze che Madeleine credeva d'avere fino a quel momento crollano all'improvviso.
La ragazza è distrutta perché ha deluso l'amato padre, offeso i nonni e la madre e si è rovinata il futuro per colpa di un unico, stupido e scellerato gesto.

Daniel è un ragazzo che dalla vita ha ricevuto solo calci. La persona che lo dovrebbe proteggere e difendere è in realtà il suo aguzzino e Daniel - che con i suoi tatuaggi a vista e i piercing potrebbe passare per il classico cattivo ragazzo -, nonostante abbia solo diciassette anni deve già fare i conti con un passato doloroso e difficile da dimenticare.

Daniel e Madeleine si incontrano in una fredda giornata di pioggia e da quel giorno, per entrambi, nulla sarà più lo stesso.
Madeleine si renderà conto che innamorarsi è l'ultima cosa che vuole, perché quello che le è accaduto durante l'estate è un fantasma difficile da cacciare via e scoprirà, a proprie spese, che l'amato daddy potrebbe non essere più l'unico uomo veramente importante della propria vita.
Daniel, invece, comprenderà cosa vuol dire sul serio essere apprezzati per quello che si è, e cosa significhi avere una famiglia che ti sorregge e ti ama. Potrebbe scoprire che a volte vale davvero la pena lottare per quello a cui si tiene.
E quando per lui le cose si metteranno male, Madeleine sarà l'unica in grado di aiutarlo, anche se questo potrebbe essere il primo passo verso una inesorabile rottura. Sarà infine costretta a dover scegliere, e constatare sulla propria pelle quanto davvero Daniel possa essere vitale per lei; anche a rischio di rovinare l'intesa con l'amato padre.
E Matthew come si comporterà di fronte al giovane amore spezzato della figlia?

La trilogia #MGMSeries è così composta:

Prima che sia buio #1
Prima che il tempo si porti via noi #2

Dimmi che ne vale la pena #3
Dammi solo una ragione #4
Dimmi che mi bacerai ancora #5

... #6 ... coming soon
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2016
ISBN9788822865748
Dimmi che ne vale la pena

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    Anteprima del libro

    Dimmi che ne vale la pena - Marilena Tealdi

    Marilena Tealdi

    Dimmi che ne vale la pena

    Copyright © Edizione originale 2016

    Di Marilena Tealdi

    Tutti i diritti riservati

    Questo libro è opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale.

    Foto di copertina: https://pixabay.com

    Grafica: Marilena Tealdi

    UUID: 6ae0cc62-f205-11e6-81a3-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Dedica

    A mio fratello Armando, sempre.

    E a mia madre. È grazie a lei se sono riuscita a dare vita a Emma.

    PROLOGO

    (Il rock non eliminerà i tuoi problemi.

    Ma ti permetterà di ballarci sopra – Pete Townshend)

    Baveno, Lago Maggiore.

    Luglio.

    Sono qui, chiusa in questa stanza, seduta a gambe incrociate su un gelido pavimento di piastrelle quadrate color tortora, da almeno un’ora, a fissare imbambolata il niente.

    Respiro solamente perché è il mio cervello a dire in automatico ai miei polmoni di inglobare aria ed espellerla fuori tramite il naso a intervalli regolari, ed è sempre il mio cervello che dice al mio cuore di battere, di far pompare il sangue su e giù lungo il mio corpo e ossigenare i tessuti, perché se fossi io a decidere tutto questo, adesso i miei polmoni smetterebbero di gonfiarsi e sgonfiarsi e il mio cuore smetterebbe di far affluire il sangue lungo il corpo e negli organi, dalla punta delle dita dei piedi fino a quelle delle mani.

    È solamente da poco che sia il mio respiro che il battito del mio cuore sono tornati ad avere dei ritmi regolari; prima, nel petto, avevo come un uccello cieco e impazzito che sbatteva contro le costole e il mio respiro era come un uragano.

    E ora sono qui, seduta molle come una bambola di pezza e già rassegnata all’idea. Terrorizzata, anche, all’idea.

    Terrossegnata.

    Il nuovo gioco. Inventare parole nuove per sentirsi meglio.

    Potrei scrivere un saggio con questo titolo. Mille modi per… e altre sciocchezze di questo tipo per scacciare la paura, il terrore e il sentirsi completamente delle deficienti.

    Sospiro. Guardo fuori dalla finestra della stanza in cui mi sono rifugiata da fin troppo tempo e fisso con odio puro lo stupido e inopportuno sole che sta splendendo alto e fiero in questo cielo azzurro smalto, prendendomi beatamente in giro.

    Dovrebbe piovere, accidenti, soffiare un vento di tempesta, grandinare! Non esserci trenta gradi – ma perché allora io indosso una felpona con le maniche lunghe e pantaloni fino alle caviglie? – e un sole abbacinante che per colpa sua vorresti solo essere là fuori, sdraiata a bordo piscina e in attesa di uno splendente domani e senza alcun pensiero.

    Avere diciassette anni e tutta la vita di fronte.

    E invece no.

    Faccio un lunghissimo respiro, mi alzo adagio.

    Mi guardo sconsolata allo specchio.

    I miei capelli hanno alcune ciocche schiarite dal sole: sono così chiare da sembrare quasi bianche. Con le dita faccio sulla testa una scriminatura centrale, lego i capelli in una bassa coda di cavallo che mi arriva fin quasi a metà schiena.

    I miei occhi azzurri sono struccati e sbiaditi, svuotati dal troppo pianto e lo specchio mi rimanda indietro l’immagine di una ragazza triste.

    Mi passo un velo di burro-cacao sulle labbra secche e smunte, orrende, ma non trovo sollievo.

    Mi guardo le pallide lentiggini che mi sono comparse di recente sul naso; spiccano sulla pelle arrossata dal sole che ho preso poche ore fa, per la folle corsa in scooter che ho fatto lungo la strada che costeggia il lago.

    Prendo un lungo, profondo respiro.

    Forza e coraggio, Madeleine.

    Esco dalla stanza e vado incontro al mio destino, sperando sia clemente almeno un poco.

    Capitolo 1

    Torino.

    Qualche settimana prima.

    Esco da scuola come se mi fossi appena levata dal petto un peso da un milione di chili. Be’, ma in fondo è sul serio così. Per me gli esami di maturità sono un peso da un milione di chili.

    Ok, è vero, c’è ancora la prossima settimana da affrontare, gli esami orali incombono come aquile in montagna, ma per adesso la terza prova è passata e quindi… o la va o la spacca.

    Sorrido.

    Benedetta, la mia migliore amica, è in fondo al prato, seduta su una delle altalene del campetto delle scuole elementari, ad aspettarmi.

    Lei e io ci siamo conosciute proprio lì, nei pressi di quel minuscolo campo giochi, il nostro primo giorno di scuola, e da allora non ci siamo più lasciate: insieme abbiamo fatto le elementari, poi le medie e infine il liceo classico.

    E ora la scuola sta finalmente per finire, ma di sicuro non la nostra amicizia, anche se faremo l’università lontane.

    Appena Benedetta incrocia il mio sguardo, io alzo in cielo due dita, in segno di vittoria, e le corro incontro; Benedetta si alza dall’altalena e fa altrettanto. Ci incontriamo a metà strada, sul prato fiorito. Lascio cadere a terra la borsa che uso per la scuola, si apre e i libri si sparpagliano un poco, e abbraccio stretta la mia amica, affondando la faccia nei suoi capelli neri.

    Ridiamo, saltellando in tondo come due bambine.

    E poi ci lasciamo cadere sul prato, all’improvviso esauste.

    – Che sollievooo! – urla lei, felice, al cielo.

    La imito, felice pure io, muovendo le braccia come un angelo dell’erba.

    Mi metto a sedere, e Bene fa altrettanto.

    Ridendo ancora, travolte dall’ilarità sfrenata senza un briciolo di pudore.

    Lo sappiamo che al di là delle finestre probabilmente la preside ci sta guardando indisposta, con quel ghigno tipico che ci ha accompagnato per tutti gli anni che abbiamo passato qui, ma a noi – in questo momento – non importa niente. Non ce ne importa un accidente se lei ci sta guardando male. È quasi estate, gli esami stanno finendo e presto inizieremo con l’università e una nuova, favolosa parte di vita. Come potrebbe andare storto qualcosa, con queste fantastiche premesse?

    Siamo felici e ce la vogliamo godere fino in fondo.

    – Allora, ti è andata bene? – chiedo a Benedetta con il fiatone, nemmeno avessi appena finito di correre una mezza maratona.

    – Sì, sono abbastanza soddisfatta. Tu?

    – Sì, anch’io. Credo di aver fatto qualcosa di decente.

    – Tu, decente? Avrai fatto il top, come al solito. Non ignoreranno la tua media altissima. Secchiona. – e mi lancia addosso, facendo anche una linguaccia, un ciuffo d’erba.

    Forse ha ragione.

    Mi stendo di nuovo sul prato, guardando il cielo. Non c’è neppure una nuvola. È perfetto.

    Tutto questo lo è.

    La mia vita, la scuola, la mia amica Benedetta, la mia famiglia.

    Il mio futuro sarà perfetto.

    A settembre andrò a Cambridge.

    È fantastico, ancora non ci credo.

    Però, prima, ancora l’ultimo ostacolo: l’esame di orale, la prossima settimana.

    E poi tutto sarà incredibilmente in discesa! Uhuu!

    Io andrò a studiare in Inghilterra perché così hanno già fatto il mio bisnonno e mio nonno; mio padre ha spezzato la tradizione perché quando aveva la mia età era un ragazzo piuttosto complicato da gestire – diciamo così, è più semplice – e ora tocca a me riprendere in mano la tradizione di famiglia, che proseguirà ancora con i miei fratelli.

    Sono molto orgogliosa di me stessa. Anche la mia famiglia lo è.

    E a Cambridge andrò a studiare Archeologia e Storia dell’Arte. Ho scoperto d’avere una passione per l’arte, in particolare per quella del passato, quando ero solo una bambina: fissavo per ore i quadri e le statue antiche a casa dei nonni (cosa che faccio spesso ancora adesso). Credo di averla ereditata da parte di mia madre, l’amore per le arti figurative: lei ha insegnato Arte in una scuola media per moltissimi anni, prima di avere me.

    Benedetta invece andrà a studiare a Milano, alla Bocconi.

    Se lo merita. Benedetta è una ragazza eccezionale, è in gamba e sua madre, che è separata, ha fatto un sacco di sacrifici per lei. Mi mancherà tantissimo la sua presenza, lassù in Inghilterra, e io mancherò a lei. Credo che consumeremo Skype e Messenger: ci manderemo valanghe di messaggi, sia vocali che scritti. E intaseremo di foto e video i nostri Snapchat!

    – Non vedo l’ora di venirti a trovare, a Cambridge. – dice Benedetta, spalancando i grossi occhi scuri e guardandomi già malinconica.

    – Certo che sì! Ci divertiremo come delle matte.

    – Faremo il giro dei pub e fregheremo alle inglesi tutti i ragazzi più belli! – e ride.

    Benedetta è diversa rispetto a me non solo nell’aspetto fisico – lei ha degli splendidi capelli neri (e mi ha detto che dopo gli esami se li tingerà di blu, e li terrà così per tutta l’estate), occhi come le olive taggiasche e forme generose –, ma anche nel carattere. Benedetta è spigliata, spontanea; fa amicizia con tutti molto in fretta e non diventa mai rossa come un pomodoro quando parla con i ragazzi. E non si fa scrupoli se le piace qualcuno: lo invita alle feste senza problemi.

    Io sono un completo disastro in quel senso, invece.

    Io sono davvero un caso patologico con i rappresentanti dell’altro sesso. Meno parlo con loro e meglio sto: quando parlo con un ragazzo la lingua mi diventa felpata e il cuore mi comincia a battere in modo convulso.

    Ed è per questo che credo morirò vergine. Vergine e imbranata.

    Zia Rebecca, la sorella di mia madre, dice spesso che dovrei passare con lei un fine settimana, e tornerei cambiata completamente; sia mamma che papà storcono il naso, quando zia dice così.

    Lei è l’anima ribelle della nostra famiglia.

    Benedetta e io ci alziamo dal prato ancora in preda all’euforia. Ci diamo una veloce pulita alla gonna della divisa scolastica e ci incamminiamo.

    – Ti serve uno strappo? – le chiedo. È venuto Tony a prendermi, come al solito.

    Tony è l’autista/guardia del corpo di mio padre; è un omone gigantesco, con il cranio lucido come una palla da bowling e braccia come prosciutti. E la gentilezza di un fiore. È sempre vestito di nero, e incute terrore verso chi non lo conosce. In realtà è un uomo dolcissimo.

    Lo vedo e lo saluto, lui mi sorride e ricambia; è dall’altra parte della strada ad aspettarmi, in piedi accanto alla macchina di papà.

    Benedetta e io siamo ferme sul marciapiede, appena oltre il cancelletto della scuola.

    Benedetta annuisce euforica, poi i suoi occhioni vagano oltre le mie spalle. Sorride, e io mi volto per guardare chi è che sta arrivando e che ha catturato l’attenzione della mia amica, anche se ne ho già una vaga idea…

    Infatti.

    Giulio e Francesco stanno venendo verso di noi. Sono i ragazzi più carini della scuola, e Benedetta ha una cotta per Giulio da quando ha dodici anni. Io trovo Giulio un po’ troppo arrogante per i miei gusti, mentre Francesco è molto più simpatico, anche se non è il mio tipo, con grande disappunto da parte di Benedetta che dice che sarebbe bello poter fare un’uscita a quattro.

    – Ragazze! – Giulio si avvicina a noi. Guarda me, un nanosecondo, poi fissa Benedetta.

    – Ciao, Maddy. – Francesco mi fa un saluto con la mano e un bel sorriso.

    – Allora, a voi come è andata? – esclama Benedetta, rivolgendosi a entrambi ma guardando Giulio.

    – Bah. Bene, credo. – rispondono quasi in coro.

    Tutti e due hanno la cravatta della divisa della scuola completamente slacciata; Giulio è già senza la giacca, è ficcata sbilenca nello zaino, mentre Francesco indossa ancora la propria, mezza storta. Anche Benedetta si è già tolta il cravattino della divisa e sfilata via la giacca, mentre io sono ancora vestita di tutto punto.

    E infatti Giulio alza un sopracciglio mostrando irritazione, a vedermi ancora ben infagottata nella divisa, e borbotta qualcosa, mentre Francesco mi sorride gentile, dicendo invece che sto bene vestita così.

    Ignoro Giulio e sorrido impacciata a Francesco.

    Con i ragazzi restiamo a parlare della prova appena passata; in realtà sono loro tre che parlano, mentre io cerco di non fare troppo la figura dell’imbranata. Intanto lancio occhiate a Tony, che mi sta aspettando paziente.

    Giulio segue il mio sguardo. Ghigna.

    – L’autista ti aspetta. Poverino, è lì che attende i tuoi comodi. – Non mi sfugge il leggero tono acido delle sue parole.

    – Non è così. – borbotto.

    – Dài, smettila. La tua è solo invidia. – Benedetta gli dà un colpo sul braccio.

    – Certo che lo è. Chi non vorrebbe poter scorrazzare tutto il giorno su una macchina come quella? La Porschettina del paparino. – dice Giulio aspro, senza neppure aver il coraggio di guardarmi in faccia mentre mi sputa addosso quell’acredine. Idiota.

    Sono davvero stufa dei commenti acidi che la maggior parte delle persone che conosco mi fa, per via delle mie origini e del mio cognome. Non vedo l’ora di essere a Cambridge. Là non mi conosce nessuno, e potrò vivere come una persona qualunque. In realtà, non mi conosce nessuno solo in parte: il Rettore è un amico di vecchia data del nonno – erano compagni di stanza quando studiavano là insieme, secoli prima – e anche la maggior parte dei professori sapranno chi sono, ma non i compagni. E io farò di tutto per mantenere un basso profilo.

    – Lei non scorrazza tutto il giorno sulla macchina del babbo. – esclama Benedetta rivolta a Giulio, a difendermi.

    Giulio scrolla le spalle. – Ok. Però sguazza in piscina.

    Benedetta fa un sospiro esagerato, e io mi chiudo ancora di più.

    Sono moltissimi anni che frequentiamo le stesse scuole e studiamo insieme; le frecciatine non me le risparmia neppure all’ultimo, eh?

    Sbuffo. Voglio andare via.

    – Benedetta, vieni con me? – chiedo ancora alla mia amica, facendo un passo verso Tony.

    Scuote i bei capelli. – No, faccio un pezzo di strada con loro. Perché non vieni anche tu?

    – No, grazie. Mio padre mi aspetta, e…

    – Paparino l’aspetta, che tenerezza. La signorina MGM non si confonde con noi. – commenta Giulio a bassa voce, ma comunque udibilissima da tutti.

    Mi ha chiamato signorina MGM non per prendermi ulteriormente per il culo – gli MGM Studios di Los Angeles non c’entrano niente – ma perché MGM sono le mie iniziali. Di cognome, infatti, faccio Gal Monticello (e comunque spesso i miei compagni stronzi associano gli studi cinematografici per cercare di storpiare il mio nome e cognome).

    Ignoro Giulio, ormai è una mia specialità, mentre Francesco si dondola sui talloni: è a disagio. Benedetta dà loro le spalle, mi abbraccia.

    La saluto con un bacio sulla guancia, lei ricambia, poi saluto con un asettico cenno del capo Giulio e con un debole sorriso Francesco e filo verso Tony. Sollevata.

    Lui mi abbraccia e mi chiede con complicità se deve andare a fare un discorsetto a quello stronzetto biondo – e io gli rispondo di no, ridendo – poi mi apre gentile la portiera posteriore dell’auto.

    La guardo imbambolata, poi guardo lui.

    – Posso sedermi davanti con te?

    – Signorina Madeleine, l’ingegnere mi stacca la testa se lo viene a sapere.

    – Uffa – e salgo mesta sui sedili posteriori, conscia del fatto che mi hanno visto tutti.

    Pazienza. Non sono riuscita a bucare i loro pregiudizi in tutti questi interminabili anni, figuriamoci se riesco a farlo adesso, durante gli ultimi giorni di scuola.

    So benissimo che sanno chi è Tony, e so altrettanto bene che mi hanno visto salire sui sedili posteriori delle macchine del babbo per tutti questi anni, ma almeno oggi… Speravo di evitare loro lo spettacolo e le battutine – so che me ne fanno un mucchio, dietro – e mi viene sempre più il sollievo a pensare che me ne andrò in Inghilterra. Questo pensiero caccia indietro, almeno un poco, il magone che mi assale all’idea di lasciare la famiglia.

    È sciocco, lo so. Ho quasi diciotto anni, ma l’idea di andare a stare lontano dai miei mi fa salire la tristezza.

    Capitolo 2.

    Un ragazzo.

    Gli occhi scuri di Syd mi stanno fissando, cattivi. È crudele con me, e io non posso difendermi. Sono sicuro che oggi morirò. Sento il sangue sul mio viso, scivola giù e mi cola dal mento sulla maglietta. Con la lingua mi stuzzico l’interno della bocca, mi pare di sentire ancora tutti i miei denti. Di spaccato ho solo il labbro.

    La ferita pulsa, brucia dannatamente, e sento le lacrime pronte a uscire ma, lo so, se piangerò lui raddoppierà la dose di pugni perché, dice, solo le femmine piangono, i deboli e i froci.

    Dice anche che non devo essere un debole, perché quelli della nostra specie non si possono permettere alcuna debolezza.

    La stanza è in penombra, Syd ghigna.

    Sono sul letto, in boxer e maglietta.

    Ho freddo, e ho male allo stomaco oltre che alla faccia.

    Syd di solito non mi colpisce mai sul viso, ma oggi è più incazzato del solito. Credo abbia discusso con Cameron, il capobranco della zona, per dei cazzi che non voglio nemmeno conoscere.

    Syd mi lancia un asciugamano inumidito con dell’acqua, mi ringhia di pulirmi la ferita e sistemarmi la faccia perché fra poco lei arriverà e non vuole di certo trovare il suo bel giocattolino in queste condizioni.

    Ho le mani che tremano, mi impongo di tenerle ferme mentre mi passo l’asciugamano umido e caldo sulla ferita e ripulirmi dal sangue.

    Il cuore mi batte a velocità triplicata, devo respirare a fondo per cercare di farlo tornare a battere a ritmi più normali.

    Sento la porta d’ingresso aprirsi, e il profumo dolciastro di quella donna arriva sin qui.

    È ora. Mi impongo di essere propositivo e mi dico che non è poi così male, poteva andarmi peggio – anche se credo che presto il peggio arriverà, e prima mi convinco di questo e prima lo accetto – e che devo farmene una ragione, perché non ho alternative.

    Lei arriva in camera, è come al solito: provocante, agghindata, finta. Tacchi altissimi, pantaloni aderenti e camicetta trasparente.

    Mi saluta con voce come caramello, un caramello che provoca solo carie, mentre rapida si disfa dei vestiti. Mi viene addosso, mi ordina di levarmi i boxer; mi alza la maglietta sul petto – non le interessa il mio corpo nudo, ma solo il piacere che si può prendere – e mi fa sentire le lunghe unghie sul torace e sullo stomaco. Mi graffia il tatuaggio, è come se volesse marchiare il territorio; mi si struscia addosso.

    Mi passa la mano fra i capelli mentre miagola sul colore stupendo che hanno i miei occhi, mentre accarezza la mia pelle liscia di ragazzo.

    E io non posso fare altro che assecondarla anche se non lo vorrei e, mentre lo faccio, penso a una principessa con il viso di un angelo che presto arriverà per portarmi via da tutto questo orrore che mi è franato addosso.

    Fra poche settimane compirò diciassette anni.

    Madeleine.

    Tony guida silenzioso mentre mi porta verso il centro, da mio padre, nel suo ufficio nei palazzi della MGM Enterprise – l’azienda di famiglia – in via Pietro Micca.

    Ho voglia di vedere il mio daddy, e voglio raccontargli dell’esame. Ovvio che non gli dirò delle insulse battutine di Giulio; non gli ho mai confessato nulla di tutto questo, in questi anni. Preferisco che pensi che io abbia parecchi amici oltre a Benedetta.

    L’ultima cosa di cui avrei avuto bisogno, durante i miei anni a scuola, era di lui che faceva il cazziatone a dei ragazzini per come emarginavano sua figlia.

    Nella portineria del palazzo – è un bellissimo palazzo d’epoca Liberty – c’è Andrea; mi fa passare senza nemmeno annunciarmi, ma con un bel sorriso sul volto. All’ascensore preferisco lo scalone in marmo grigio, che salgo rapida. Percorro il corridoio decorato con minuziose vedute bucoliche ed entro nella mia stanza preferita – quella che ha un affresco sul soffitto che è stato attribuito al Beaumont – e quando arrivo di fronte alla scrivania di Margherita, la segretaria personale di papà, lei nel vedermi ignora il telefono che sta squillando come un grammofono guasto e mi viene subito ad abbracciare.

    – Eccola qui la nostra maturanda!

    – Ciao Marghe! Ehm… Il telefono. Non rispondi?

    Si scosta i riccioli rossi dal viso. – Sì, adesso vado. Ho messo l’interlocutore in attesa, nel frattempo. Intanto tuo padre ha altre gatte da pelare. – e sorride sagace.

    Margherita è una donna fantastica. Seria e tenace, è sempre stata vicino a papà fin da quando lui, neolaureato, ha iniziato a lavorare alla MGM Enterprise e poi anche in seguito, quando papà ha fondato la propria azienda, la Remember Me che si occupa del ripristino, del restauro e della conservazione di elementi storici e di interesse artistico.

    – Allora, – prosegue Margherita, – tutto bene a scuola?

    – Credo di sì. Ormai gli scritti sono passati, e ora voglio solo concentrarmi sull’orale.

    – Quand’è? Non ricordo.

    – La prossima settimana. Non vedo l’ora!

    – E la tesina?

    – Fatto tutto. Con l’aiuto di mamma alla fine ho scelto di svolgerla sul Novecento e sul futurismo.

    – Interessante! E dopo potrai goderti alla grande la piccola vacanza alla casa sul lago. Te lo meriti. E, ancora di più, il viaggio in America con tuo padre e Sebastiano. – Margherita sorride.

    – Già. Non vedo l’ora di andare in America a riprendere i gemelli al campeggio! Anche se, lo sai, ci resteremo poco.

    – Sì, lo so, anche se tuo padre mi ha fatto prenotare gli hotel per almeno dieci giorni! Dice che non si sa mai… – ridacchia; Margherita conosce mio padre, e le sue manie, molto bene.

    Lui non potrebbe mai accontentarsi di una prenotazione raffazzonata. No. Lui esige sempre e solo il massimo. Può permetterselo.

    – Ho voglia d’andare in America, ma ancora di più non vedo l’ora di fare la crociera nel Mediterraneo fino a Stromboli, dai nonni. Sai, così ci sarà anche mami. Voglio passare con lei tutto il tempo che ho ancora a disposizione, prima di Cambridge. A casa dall’università tornerò solo per Natale e Pasqua…

    E a quel pensiero mi torna prepotente il groppo in gola; mamma e io ci siamo separate solo una volta in vita nostra, io all’epoca avevo cinque anni, ma da allora non ci siamo più lasciate. Il pensiero di trasferirmi così tanto lontano da lei… Sì, lo ammetto. Mi fa stare davvero male.

    Non devo pensarci, altrimenti scoppio a piangere come una poppante, e non mi va proprio di aprire i rubinetti qui nell’ufficio di papà.

    Sono quasi una donna adulta. Non c’è più spazio per i piagnistei.

    Margherita mi guarda con dolcezza. – Eh, lo so. Tua madre ha ancora paura di volare.

    – Sì, purtroppo.

    – Non ti intristire. Vedrai che a starti lontana tua madre presto si deciderà a prendere finalmente l’aereo, e ti raggiungerà in Inghilterra. – Margherita fa gli occhi a cuore. – Sarà magnifico, vedrai. Che bello, Cambridge. Freddo, pioggia, posti stupendi… – Margherita ha recepito al volo il magone che mi stava salendo e l’ha ignorato; gliene sono grata.

    In quel momento la porta dell’ufficio di papà si apre, e lui esce. È insieme a Silvia, che lo sta guardando in modo stucchevole. E adorante.

    Be’, posso biasimarla? Non perché è mio padre… ma devo dire che lui è un vero schianto. Innanzi tutto, come mami, non dimostra la sua età – quarantacinque, a dicembre.

    Ha un viso perfetto, corti capelli biondi, più scuri rispetto ai miei, e gli occhi d’un limpido azzurro, come pietre preziose o il cielo d’Islanda. È alto, massiccio ma snello ed è un sacco muscoloso. E ha una fossetta sulla guancia sinistra, che appare soltanto quando ti fa il suo sorriso più speciale...

    Insomma.

    Mio padre è un grandissimo fico.

    E Silvia.... Lo rincorre da sempre.

    (È stupendo ed è ricco sfondato: chi non gli correrebbe dietro? Ma lui ha scelto la mia bellissima mamma, eh, eh).

    Da quel poco che so, Silvia è una sua vecchia amica di gioventù. Mami la detesta, e di conseguenza la detesto pure io.

    In effetti non è il massimo della simpatia.

    Lei, che è coetanea di daddy – anche se con tutti gli aiuti che si dà pare mia sorella maggiore, mentre mami è tutta naturale – scuote i lunghi capelli castani, mette le tette (rifatte) sotto il naso del babbo – le due protuberanze sono appena celate da un reggiseno in pizzo bianco e da un’impalpabile camicetta smanicata di seta trasparente – e si sistema la borsa di cuoio ocra (Gucci, pare) sulla spalla nuda; dà ancora uno sguardo da pesce bollito a papà, sbattendo le lunghe ciglia, poi mi vede e mi saluta con un gran sorriso, scoprendo i denti bianchi come perle (il sorriso che mi fa è piuttosto finto: dopotutto io sono la figlia della donna che le avrebbe portato via papà, e quindi non credo mi adori sul serio, ma sa anche molto bene che se mi odia, si gioca la sua amicizia all’istante; di conseguenza, fa la lecchina).

    – Ciao, Madeleine! – dice Silvia con tono mellifluo. Ha le labbra dipinte di un irritante color rosa.

    – Ciao… – le borbotto. Guardo papà: – Hi, daddy!

    – Hey, princess. One moment please.

    Papà continua a parlare con Silvia. Lei fa le fusa, gli dice che è piuttosto fiduciosa per la ricerca della casa in collina, a Pino Torinese dove vuole andare ad abitare, e fa la gattamorta. Mi pare di capire che Silvia abbia chiesto a daddy una mano per trovare la casa dei sogni.

    La casa di Barbie sarebbe perfetta, per quella lì.

    Ehi, bella, mio padre è ingegnere ed è il proprietario della baracca. Mica il tuo agente immobiliare!

    Silvia fa a daddy occhioni languidi: – Matthew, se tu mi trovassi la casa perfetta, te ne sarei eternamente… grata.

    Bleah. No, dico: ma si può?!

    Cercando di ignorarla, mi catapulto nell’ufficio di daddy e mi spalmo sulla poltrona in pelle rossa davanti alla scrivania. Papà rientra poco dopo. Chiude la porta e mi viene vicino. Si china per darmi un bacio sulla guancia.

    – Ciao, piccola. Com’è andata la prova?

    – Sono fiduciosa. – Afferro da una ciotola in legno scolpito sulla enorme scrivania di papà un Lindor al cioccolato bianco; lo scarto, mi metto in bocca la deliziosa pallina intera e la gusto finendo la frase: – Fiduciosa come la tua amica.

    Lui ignora l’allusione a Silvia.

    – Bene. L’orale?

    Assaporo la palla di cioccolato mentre mi si squaglia sulla lingua, ma lui mi fissa attento in attesa della risposta. Mastico in fretta, deglutisco il cioccolato che mi si incastra in gola e bofonchio:

    – Prox. Set.

    – Ok.

    Con la bocca di nuovo libera, parlo: – Hai da fare, adesso?

    Lui, che nel frattempo è tornato a sedersi alla scrivania, dà un’occhiata allo schermo del Mac.

    – In realtà sì. Avrei da controllare un progetto.

    – Peccato. Mi sarebbe piaciuto rapirti e andare insieme a prendere un gelato da Stratta.

    – Mi spiace, principessa. Devo finire qui. Una rottura di coglio… scatole. – ghigna. Ignoro la parolaccia.

    – Senti un po’. Perché quella là ti ha chiesto di cercarle una casa? Sei mica il suo agente.

    – Lo so, principessa. Hai ragione, ma si dà il caso che suo padre è nel consiglio comunale e spesso una sua buona parola ci potrebbe fare comodo…

    – Mami lo sa?

    – Cosa? – chiede, smanettando al computer. Sa benissimo cosa. Sta solo cercando di prendere tempo.

    – Che tu e Silvia vi frequentate. – prendo un altro cioccolatino. Al latte, questa volta.

    – Io e Silvia non ci frequentiamo! – dice, piccato, scoccandomi un’occhiata severa.

    – Ah, lo spero bene.

    – Di’ un po’, signorina. Da quand’è che comandi il tuo vecchio?

    Scrollo le spalle con un sorrisetto. – Da mai?

    – Comunque sì, ho detto a tua madre che Silvia si è rivolta direttamente a me, per la casa.

    – E lei?

    – È più ragionevole di te. E poi lo sa che non ha nulla di cui preoccuparsi!

    – Ok, ok. – Faccio per prendere un terzo cioccolatino ma papà mi fulmina con lo sguardo.

    – Basta? Che ti viene mal di stomaco.

    – Sono così buoni.

    – E ti rovini l’appetito per il pranzo. Poi tua madre se la prende con me.

    – Naaa.

    Mi alzo. Intanto lui è più interessato a quei progetti che a me. O forse sta facendo una partita a solitario? Oppure… – Ma stai sul serio lavorando o stai giocando a Hold’em on line? – ghigno.

    Mi scocca uno sguardo severo. – Fa’ la brava, peste.

    Rido.

    – Ok, poker. Vieni a casa?

    – No, principessa. Ho da finire qui, il lavoro, e poi devo correre di là, nell’ufficio del nonno per sbrogliare con gli avvocati un paio di seccature insorte su un cantiere di Merano.

    Per fortuna, la Remember Me e la MGM Enterprise sono nello stesso palazzo; papà fa spesso la spola dall’una all’altra, durante il giorno. Della Enterprise è il vice presidente ed è anche a capo del Consiglio di Amministrazione.

    – Il nonno non c’è? – Lui, infatti, ne è ancora il presidente, ma ormai quasi solo più di facciata.

    – Sì, c’è. Credo.

    – Mami mi ha detto che forse il prossimo anno annuncerà la pensione…

    Papà sorride.

    – Sì. Dice così.

    Papà sembra Silvestro che ha appena ingoiato Titti.

    – Ti darà la presidenza?

    – Io direi che è anche ora, ormai. – mi sorride. – Non credi?

    – Sì, lo penso pure io. Intanto fai già tutto tu! Così potrai fondere le due società.

    – Non penso lo farò, non nell’immediato comunque.

    – Sarai un ottimo presidente! Basta guardare come mandi avanti questa baracca.

    – Che un giorno sarà tua, se la vuoi. Lo sai.

    – Non lo so ancora, papà. Per ora voglio laurearmi, poi vedremo.

    – La mia piccola Indiana Jones. La tua laurea qui ci starebbe a pennello, e io sarei davvero molto orgoglioso se tu prendessi in mano le redini della Remember Me.

    – E i gemelli?

    – Be’, per loro esiste la MGM Enterprise, no? E Sebastiano è ancora piccolo, però potrei fondare in futuro qualcosa apposta per lui.

    – Una compagnia teatrale, magari! – Al mio fratellino Sebastiano piace un sacco scrivere commedie che poi obbliga alla famiglia a imparare e mettere in scena.

    Mentre quello che riguarda me… Devo ammettere che l’idea di prendere in mano la Remember Me mi stuzzica; inoltre abitare a Torino mi piace, e in ogni caso potrei non smettere di viaggiare e vedere il mondo del tutto, con la scusa del lavoro. Musei e siti archeologici da visitare, parlare con i committenti, finanziare grandi opere proprio come fa daddy. Sarebbe meraviglioso. Insomma, resterei vicino alla mia famiglia ma senza essere legata mani e piedi solo a questo posto. Sì, credo che potrei pensarci seriamente. Intanto non ho intenzione di innamorarmi di nessuno nei prossimi anni, e meno che mai con un inglese che magari pretenderebbe che io restassi poi ad abitare là.

    A Londra ci andrei quando cavolo pare a me.

    – Sì, daddy, lo so. Grazie. Ma adesso non mettermi pressione.

    – Sia mai. In fondo voglio che tu ti goda questi anni. A Cambridge, poi! Sai che un pochino ti invidio?

    – Ti è spiaciuto non poterla frequentare?

    – All’epoca sì, parecchio, ma la tua bisnonna Madeleine non stava molto bene e non poteva occuparsi di uno scapestrato come me. E ora, con il senno di poi, sono contento di aver studiato qui a Torino. Forse, se non avessi studiato qui, non avrei mai incontrato tua madre.

    – Io credo di sì, invece. Era destino. Voi due siete perfetti l’una per l’altro. Non potevate non incontrarvi. Dopotutto, gli opposti si attraggono e voi due insieme vi completate.

    Papà mi sorride; gli occhi gli si sono illuminati come lampioni.

    – Lo credo anch’io.

    – Spero di poter avere pure io, un giorno, un amore forte e bello come il vostro.

    – Oh, ti succederà, figlia mia. Sei troppo speciale per avere qualcosa di anche solo un poco inferiore.

    – Lo pensi davvero?

    – Certo. Per esempio, adesso non ti piace nessuno?

    – No. Mi sembrano così immaturi, i ragazzi della mia età. – Quello che dico a papà è vero; in questo momento non mi piace nessuno. Sarò davvero un caso patologico.

    – Posso dirti una cosa, Madeleine?

    – Certo, dad.

    – Meglio così. Lo so che hai quasi diciotto anni, ma l’idea di te e un ragazzo, insieme… Per me tu sarai sempre la mia piccola bambina.

    – Be’, non preoccuparti per questo. È l’ultimo dei miei pensieri, avere un fidanzato!

    – Lo ammetto: mi fa piacere saperlo.

    Il telefono rosso sulla scrivania, accanto a un posacenere in Das dipinto di blu che gli ho fatto in quinta elementare per la festa del papà, squilla.

    – Ok, adesso ti lascio al tuo lavoro, o Margherita mi sgrida. Ci vediamo più tardi a cena, quindi?

    – Sì, anche se stasera siamo invitati da Jean-Marie, ricordi?

    – Uh, vero! Ok, ciao daddy. A dopo, e non fare arrabbiare il nonno.

    – Semmai il contrario. – strizza l’occhio. – Ciao cucciola.

    Capitolo 3

    Quando torno a casa trovo la mamma e nonna Mathilde nel patio, sedute di fronte al tavolo in teak; il lucido ripiano di vetro è coperto da un mucchio di fogli sparpagliati ovunque.

    Mamma e nonna parlano fitto fra di loro, accigliate e completamente prese dal lavoro che stanno facendo ma, appena mi vedono, mi salutano con un sorrisone.

    – Eccola, la nostra piccola maturanda. – Nonna continua a sorridermi, e io mi chino per baciarle una guancia morbida. Nonostante l’età, settant’anni passati, nonna ha ancora una pelle stupenda, liscia come una pesca. Ed è del tutto naturale.

    – Ciao nonnina. Ciao mami.

    Do un bacio anche a mamma, la mia super mamma, lascio cadere sul pavimento a listoni di legno la borsa carica di libri e mi accascio sul divanetto.

    Juanita, la nostra adorabile governante – era la governante di papà già molto tempo prima che io nascessi –, fa la sua comparsa con fra le mani un vassoio con una caraffa ricolma di tè freddo al lime, bicchieri, un piattino con del salmone affumicato e un cestino pieno di burrosi scones appena sfornati. Affamata, me ne ficco subito in bocca due, uno dietro l’altro, insieme a un pezzo di salmone. Mhmm, squisito. Nonna mi sorride con una nota di leggera disapprovazione, mentre mi lecco golosa le dita.

    Aver fatto due debutti in società a quindici e sedici anni (al Gran Ballo delle Debuttanti a Londra prima, e poi alla Reggia di Venaria), e frequentato altrettanti Balli della Rosa a Montecarlo, evidentemente non mi hanno reso molto signorina ben educata.

    Mamma, invece, non commenta; è più sul rassegnato. A volte la stessa grezza educazione di papà mi salta prepotentemente fuori e lei ormai non ci fa più troppo caso.

    Come dice spesso, io sono la versione femminile di daddy.

    Poi, guardandomi mentre finisco di ingozzarmi di scones, mi chiede se non preferisco fare un pranzo degno di questo nome. Scuoto la testa. Non le dico che i cioccolatini in ufficio prima, e gli scones adesso, mi hanno rimpinzato a sufficienza.

    – Per ora sono a posto così, grazie mami. Magari mi faccio un panino più tardi.

    – Allora, come è andata la prova? – mi chiede lei, iniziando a radunare con cura le carte sparpagliate e mettendole ben impilate di fronte a sé.

    Oggi la trovo un po’ più stanca del solito; ha i begli occhi verdi segnati, è senza un filo di trucco e porta i capelli stretti in una coda bassa e sobria. Il suo colore è ancora biondo naturale, come quando era ragazza, anche se ora appare più scuro rispetto a quando ha conosciuto daddy; all’epoca – guardando alcune fotografie che tengo ben custodite in camera mia – aveva i capelli più chiari, oltre che molto più lunghi; quasi come io porto i miei adesso.

    Stava bene. Peccato che ora li tenga corti, a differenza di zia Rebecca che li ha ancora lunghi ben oltre le spalle.

    – La prova è andata bene, credo. Scusa se ho fatto tardi, ma sono passata in ufficio da daddy.

    – Sì, lo immaginavo.

    Nonna aiuta mami con le carte; le stanno dividendo per metterle in diversi raccoglitori colorati. Mi osserva con gli occhi blu luccicanti:

    – La nostra maturanda. Siamo tutti fieri di te.

    – Grazie, nonnina.

    La nonna è inglese, ma quando siamo con la mamma parliamo sempre in italiano fra di noi. Mia madre l’inglese lo parla molto poco, nonostante tutti gli anni passati con quel londinese di papà.

    – Hai visto anche il nonno? – mi chiede mami.

    – No, però… – sto per dire che c’era Silvia, in ufficio, ma mi fermo per tempo. Non voglio dire quello di fronte alla nonna, quindi proseguo: – Però daddy stava per andare da lui.

    – Potevi passare, da nonno. Gli avrebbe fatto piacere un tuo saluto. – Mami mi rimprovera dolcemente.

    Arrossisco.

    – Va bene così, Emma. – dice nonna. – Il nonno la vedrà stasera.

    – No, perché questa sera siamo a cena da Monica e Jean-Marie. – le ricorda mia madre. – È il compleanno di Jean, oggi.

    – Oh, me lo ero scordato. – Nonna conosce molto bene Jean-Marie, che è il migliore amico di papà, da quando era un bambino: spesso lui passava le vacanze ospite di nonna anche se papà, da ragazzino, lo detestava e gli faceva un mucchio di dispetti.

    Quando erano bambini papà gli parlava appena.

    Jean è sposato con Monica, ovvero la migliore amica di mamma, e hanno un figlio, Thomas, che ha due anni in meno di me – e quindi ne ha quindici – ed è il principe di casa Montpellier. Monica, purtroppo, non ha potuto averne altri e quella faccenda, in passato, l’ha destabilizzata parecchio; è anche stata in cura a lungo presso uno psicoterapeuta.

    Per quel motivo ha ripreso a lavorare subito dopo che Thomas ha cominciato l’asilo: per non struggersi. E, proprio come è stata mami, anche Monica è insegnante. Si sono conosciute così.

    Jean-Marie invece è avvocato alla MGM Enterprise; è l’avvocato personale di daddy e nonno e fa parte del CEO sia della Enterprise che della Remember Me. È molto importante per la nostra famiglia, specialmente per dad.

    Thomas è solo di un anno più vecchio dei miei due fratelli gemelli Michele e Edoardo ma, chissà perché, è con me che ha legato maggiormente. E, come un tempo papà faceva a Jean, adesso sono io che faccio al caro Thomas un sacco di dispetti. Adoro stuzzicarlo, fin da quando eravamo bambini. Ah, gli scherzi che gli ho fatto… Non si contano! Bisticciamo in continuazione, perché siamo entrambi testardi ed entrambi vogliamo sempre aver ragione su tutto, ma ci vogliamo un bene assurdo. Ci capiamo con uno sguardo, e spesso pensiamo le stesse cose.

    È speciale: lui di me sa praticamente tutto. E io credo di sapere tutto su di lui. Non esistono segreti fra di noi, e forse non ne esisteranno mai. Come Benedetta è la mia migliore amica, Thomas è senza dubbio il mio migliore amico.

    Nonna parla: – Il caro Jean-Marie. Ha invitato anche noi, per questa sera, ma non credo che Michele si senta d’andare alla festa.

    – Peccato.

    – Sì, ma lo sai che ora Michele è ancora più brontolone di com’era un tempo. Meglio se restiamo a casa. – Nonna fa un risolino divertito.

    Nonno, con daddy, è stato un vero despota, in passato. Definirlo brontolone è riduttivo. Ma ora le cose fra loro due sono decisamente migliorate; basta pensare che ormai nonno ha lasciato nelle mani di papà l’azienda quasi completamente. E se il prossimo anno andrà sul serio in pensione…

    Poi mamma e nonna tornano a parlare delle loro faccende, ovvero della Fondazione.

    È stata la mia bisnonna Madeleine a crearla, per la tutela del Patrimonio Artistico, e da quando nonna Mathilde ha lasciato in mano a mami la dirigenza, anni fa, lei ha aggiunto un settore dedicato alla tutela dei bambini vittime di soprusi e violenze. La mamma adora potersi occupare degli altri, ma è difficile cercare fondi e sponsor che l’aiutino; sono innumerevoli le difficoltà che si trova a dover sbrogliare quasi ogni giorno, fra impossibili burocrazie e gentaglia poco disponibile.

    Mamma riprende in mano le ultime carte rimaste di fronte a lei, le studia ancora perplessa e ne parla con nonna. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con una raccolta fondi, da fare a Milano la prossima settimana, e io mi eclisso in casa.

    Ora di svago finita: ormai non badano più a me.

    In cucina incrocio Juanita, che mi obbliga a mangiare ancora qualcosa, ingurgito delle verdure a caso solo per farla felice, poi vado in salotto. Nessuno. Do un’occhiata nello studio di papà e alla scrivania trovo Sebastiano. È intento a scrivere qualcosa su un quadernetto.

    Lui, che ha imparato a scrivere già a quattro anni, è il nostro piccolo genio. Ed è molto, molto timido. Così tanto che, per esempio,

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