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Cacciatori di piste. Ricognizioni algerine
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Cacciatori di piste. Ricognizioni algerine
E-book235 pagine3 ore

Cacciatori di piste. Ricognizioni algerine

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Info su questo ebook

Il protagonista, un insegnante, viene ingaggiato da una scuola di cantiere presso Costantine, nel nord-est algerino. Ha accettato quel contratto poiché è appassionato di deserto e di fuoristrada. Una volta lì scopre che il Sahara è ben distante dal luogo di lavoro. E’ determinato però a raggiungerlo e quindi affronterà senza posa le numerose ‘tappe’, di viaggio ed esistenziali, per arrivarci. Tale percorso gli permetterà di scoprire e conoscere a fondo un popolo ed un territorio cui si legherà visceralmente (in particolare un incidente motociclistico lo avvicinerà alla breve Guerra del Cous cous). Sia attraverso l’avvicinamento iniziale e la successiva frequentazione del deserto, sia con un avventuroso viaggio nel profondo Sahara, riuscirà anche a prendere coscienza della propria indole nomade.
Quasi sempre sarà affiancato dalla collega Silviana; fra i due nascerà una profonda amicizia grazie alla rinuncia di un rapporto amoroso consolatorio.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita20 mar 2012
ISBN9788897513766
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    Anteprima del libro

    Cacciatori di piste. Ricognizioni algerine - Carlo Scappaticci

    Carlo Scappaticci

    CACCIATORI  DI  PISTE

    Ricognizioni algerine  1988-1989

    Abel Books

    Proprietà letteraria riservata

    © 2012 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È  vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    via Terme di Traiano, 25

    00053 Civitavecchia (Roma)

    ISBN 9788897513766

    A mio padre, veterinario, col quale fin da piccolo scarpinavo su tratturi, mulattieri e sentieri per raggiungere fattorie sperdute, seguendo a volte solo riferimenti naturalistici come: una vecchia quercia, un masso a forma di… una sorgente famosa per… ed altre cose del genere. Mio padre non andava d’accordo con la geografia, tuttavia arrivava sempre dove bisognava, poiché la necessità gli tirava fuori un senso d’orientamento intuitivo ed una memoria fotografica di cui neppure si rendeva conto e che mi ha trasmesso pari pari.

    Gli algerini hanno in comune: l’amore per la libertà, il senso dell’uguaglianza, la capacità di ribellarsi, la tendenza all’austerità... (AA. VV. Algeria, 1988 pag. 10)

    Il deserto è un luogo di austerità…(IbnKhaldoun, 1332-1406)

    Nota  dell’autore

    N. B. I corsivi sono tratti da Noces di A. Camuss

    Nel 1994 il fanatismo integralista evolveva ormai da due anni sempre più marcatamente dagli agguati agli eccidi ed il regime militare reagiva trasformando la repressione in sterminio. Allora non fu più procrastinabile un rientro definitivo. Il repentino rimpatrio mi fece sentire estirpato da quella terra dove per una volta ero certo aver interpretato bene la mia parte. Avevo compiuto la mia opera d’uomo.

    Negli anni di permanenza in Algeria non mi ero mai sentito ‘estraneo’, ma sempre in progressiva integrazione, addirittura, a tratti, adottato. Da subito allora m’impegnai a non perdere le tracce di tutte le piste, di terra e di gente, cercate e seguite sempre con tutto il cuore. L’angoscia di un oblio, da addio definitivo, mi fece freneticamente annotare tutto quanto la memoria rigurgitava per consolarsi del distacco coatto. Mai come quella volta fui meticoloso nel serbare. Fin dal primo foglietto infatti approntai una cartella sulla quale un titolo apparve come se una fiamma rivelasse una dicitura d’inchiostro simpatico: Cacciatori di piste.

    Decantato il dispiacere della separazione, ho provato di tanto in tanto a riordinare quelle note in una struttura narrativa che, solo grazie ad alcuni articoli, pubblicati sulla rivista letteraria Il Piede e l’Orma nel 2010-2011, trovò infine un ordine allorché mi resi conto che non provo la necessità di fare un’opera d’arte (nel senso di scrivere un romanzo), ma di raccontare… C’è un tempo per vivere e un tempo per portare testimonianza del vivere… Mi basta vivere con tutto il mio corpo e portare testimonianza con tutto il cuore… C’è in questo libertà... alla quale mi sono appellato per scantonare dalle  tesi più ortodosse circa l’universo algerino, qui narrato col solo supporto di una memoria che, dopo 24 anni, ha certamente trasformato vicende ed interpreti in  storie e personaggi.

    CAPITOLO  PRIMO

    Asini, cicogne, macachi e grifoni: ma il deserto dov’è?

    Piste, tracce, orme, impronte… l’intera nostra esistenza è un continuo scegliere fra l’una e l’altra direzione, nelle grandi decisioni  come nelle minuzie. A volte ciò accade in modo apparentemente meccanico, quasi automatico, addirittura quasi senza rendersene conto; altre invece, spinti dall’istinto, avviene in modo irruente; altre ancora succede lentamente, seguendo un estenuante raziocinio.  In tutti i casi una fra le tante possibili piste va affrontata e la percorriamo anche quando, chiusi a riccio, c’illudiamo di essere fermi, perché in quel momento gli altri scelgono per noi.

    Così come era stato tre anni prima all’arrivo, lasciavo definitivamente la Nigeria nel pieno di un tifone estivo. L’aereo dovette attendere quasi l’alba per rullare sulla pista flagellata da una di quelle piogge torrenziali di giugno.  Trascorsi tutta l’attesa a guardare fuori dall’oblò le sottili e arcuate palme da cocco piegarsi allo stremo, sul punto di essere sradicate. Uno spettacolo impressionante che invece di turbarmi non mancava mai di infondermi energie nuove, forse perché coincidente ogni volta con arrivo o partenza, ovvero araldo di periodi gravidi di incognite. O forse, più semplicemente, perché quelle chiome fluenti e aguzze, che la tempesta dimenava brutalmente, tornavano infine sempre morbide e acconcie. In quelle ore, più che scorrere una moviola dei tre anni trascorsi in Nigeria, i pensieri mi precedevano in Italia, erano già atterrati e percorrevano mestamente i cento chilometri dritti d’autostrada e poi i trenta chilometri di curve per tornare a casa. La gioia di ritrovare l’affetto della famiglia e degli amici sembrava non bastarmi, forse perché prevaricata dalle incognite di un futuro radicalmente diverso da quei tre anni agiati, avventurosi e magnetici appena trascorsi; oppure veniva oscurata dalla consapevolezza di separarmi definitivamente da quell’effervescente passato prossimo, per rientrare nei ranghi di una quotidianità dalla quale in un certo qual modo mi ero volontariamente esiliato tre anni prima.

    Quando l’aereo infine si staccò dalla pista e le infinite luci di quella  sterminata  città africana diventarono rapidamente prima  lumicini e poi baluginii,  mi resi conto che era l’ultima volta. Come insegnante non sarei stato riconfermato causa chiusura di una delle due scuole, con conseguente contrazione del personale. Ero consapevole che avrebbero avuto la meglio i veterani ed i più omologati allo spirito di conservazione della comunità italiana che lì gestiva e nutriva le strutture scolastiche. Non era dunque il mio caso. Ne presi atto e smisi di guardare la Nigeria. Indirizzai gli occhi sulla rotta e mi lasciai inghiottire dalle fumose colonne di minaccioso vapore che stavano scaricando saette e fiumi d’acqua su Lagos. Anche questo scoramento durò pochi istanti  perché, non appena l’aereo ebbe attraversato la spessa coltre della perturbazione, apparvero tutte insieme le strabilianti miriadi di costellazioni tropicali, impettite e lustre, quasi  schierate per  offrirmi l’onore delle armi.

    Nei viaggi precedenti avevo imparato a capire quando l’aereo superava il confine nord della Nigeria poiché le ultime luci che si distinguevano erano quelle delle case d’argilla rossa di Sokoto, poi nulla più fino al Mediterraneo, quando l’alba iniziava a svegliare i passeggeri. La partenza ritardata invece causò che l’aurora mi destasse da un riposo conturbato, mentre sorvolavamo  l’inquietante mare di dune del Sahara algerino: quello sì che riuscì a farmi sognare! Per  me, montanaro appassionato di fuoristrada, quel paesaggio diveniva visione: le diafane ondulazioni di sconfinati erg lambivano sterminati scheletri di imponenti fiumi e laghi svuotati, costellati di ramificazioni fossili dagli argini bruni. E sabbia, tanta sabbia, minacciosa e affascinante, come acqua d’oro inondava le millenarie nudità.

    Quando iniziò a profilarsi il verde delle steppe il vagheggiare-vaneggiare s’interruppe perché, dopo aver vissuto per tre anni tra foreste e savane, a livello emotivo ora l’Africa significava deserto e nient’altro. Ed il cuore del Sahara  appena sorvolato pulsava all’unisono col mio sogno nel cassetto, ben diverso da quello turistico assaporato l’estate precedente in una vacanza tunisina tutta da dimenticare o quasi.

    Il mercato degli ingaggi all’inizio di luglio non produsse novità, così mi dedicai ad un’estate di riorganizzazione italiana.  A fine agosto, quando ormai mi sentivo reintegrato a pieno titolo nella precarietà nostrana e pronto a riprendere i mille lavoretti per sbarcare il lunario nell’attesa di un’improbabile incarico del provveditore o di supplenze ballerine, ricevetti una dietro l’altra due telefonate egualmente inattese ed allettanti. La prima da Bergamo dove  occupavo le primissime posizioni in graduatoria con quasi certezza di incarico annuale; l’altra m’invitava a partire immediatamente per una scuola di cantiere in Algeria.

    Ricordo benissimo di non aver riflettuto a lungo sui pro e i contro. Quel probabile incarico a Bergamo non mi avrebbe tolto dal precariato poiché non ero ancora abilitato, ovvero restavo supplente di serie B; avrei certamente dovuto vivere due o tre anni da terrone, sgradevolissima esperienza già a me ben nota quando agli inizi della carriera avevo insegnato a Pordenone. Di contro mi aspettava una terra mitica, come per la Nigeria, opportunità unica di realizzare un sogno. Non ravvisavo priorità che mi inducessero a rinunciare se non le personali aspettative esistenziali che mai fino a quel giorno avevano mostrato propensione per pianificazioni a lungo termine. A scatola chiusa accettai tutte le condizioni ventilate via cavo pur di avere la certezza di partire per il deserto. Quella sera  incontrai come di consueto la mia fidanzata del momento e, al solito, dopo una pizza ci appartammo per fare l’amore.

    Ora che ti sei sfogato vuoi dirmi cosa succede?

    Sono esausto di venirmi a consolare di fronte a queste mura che se ne stanno in piedi imperterrite da tremila anni… ogni volta uno schiaffo all’impotenza… vorrei essere uno di quelli che le hanno erette, macigno su macigno, gente coesa e ostinata, consapevole che il futuro non si arresta di fronte a nulla, con o senza di noi.  Sono stanco di aspettare l’incarico annuale, la supplenza breve, il concorso che mi sistemerà. Sono stufo di passeggiate notturne in attesa di un’alba risolutiva. Non voglio sopravvivere raccontandomi sempre le stesse bugie consolatorie o accontentarmi di baci e di sesso a mezzanotte…

    Cosa cerchi di dirmi?

    Parto… lunedì!

    Parti?!   

    Mi hanno proposto l’Algeria… Costantine… una scuola di cantiere… scuola media.

    E quando l’hai saputo?

    Stamattina.

    Per favore accompagnami a casa…

    In quegli anni per me  prendere l’aereo non significava mai andare in vacanza, bensì l’entusiasmante consapevolezza di un periodo di vita in un posto del mondo tutto da scoprire, quantunque le foto  mostratemi nei colloqui d’ingaggio fossero sfacciatamente di repertorio, come quelle dei dépliant tutto-compreso. Ma i datori di lavoro non sospettavano lontanamente, tronfi della riuscita del loro inganno, che proprio ciò che sicuramente nascondevano quelle  immagini di facciata rappresentava per me il sale della situazione. E certo mi guardavo bene dal darglielo ad intendere.

    Il contratto in Nigeria mi aveva proiettato tra milioni di neri, in una foresta pluviale così fitta  che a volte si poneva come barriera invalicabile per vedere oltre. In Algeria non ci sarebbe stata differenza rispetto al colore della pelle o quasi, ma avrei incontrato una  radicale differenza nel modo di  concepire l’esistenza in ogni sua sfaccettatura: ateo-agnostico-miscredente approdavo in Algeria privo di una conoscenza diretta e realistica dell’Islam, consapevole tuttavia che non avrei potuto ignorarlo vivendo nei suoi luoghi.

    I modi e l’accoglienza del personale di volo resero palpabile da subito lo spessore di una religione che non è accessorio di una fede: non è concepibile l’essere o non essere praticanti; l’islam pervade ogni momento dell’esistenza corporea e spirituale. Non si prescinde dai suoi dettami. Dovevo per questo accettare la diversità immediatamente per beneficiarne piuttosto che subirla e lì dove non avessi condiviso avrei assecondato: mi sarei adattato, come sempre, ne ero certo, perché le mie finalità non comprendevano la ricerca di ragioni o proseliti. L’Algeria m’interessava esclusivamente per il deserto, il Sahara, il sogno di ogni cultore del fuoristrada, il mito di ogni viaggiatore. Eppure iniziai la permanenza in Algeria esclamando ad alta voce:  Ma il deserto dov’è? .

    Mi aveva svegliato all’alba l’invito interminabile alla sottomissione totale dell’uomo a Dio, gridato o meglio quasi ululato da un invisibile muezzin, la cui voce, amplificata da un altoparlante, ricordava un graffiato 33 giri d’altri tempi. Potente, echeggiante, perentoria, risultava senza dubbio meno allegra delle pur fastidiose campane domenicali, ma molto più di quelle non lasciava assolutamente scampo a chicchessia. Ci vollero alcuni minuti per far mente locale. Mi sentivo intontito. Le pareti a doghe di PVC color grigio anonimo intorno al letto mi ricondussero al presente ed all’infido liquido vinoso trangugiato la sera avanti al brindisi d’arrivo.  La prima certezza era il mio nuovo domicilio: nord-est dell’Algeria, villaggio prefabbricato presso l’abitato di Sidi Marouf sulla sponda destra dell’Oued El Kebir, lungo il quale la compagnia che mi aveva ingaggiato stava costruendo la nuova strada Costantine-Djijel, porto emergente del Mediterraneo magrebino. La seconda era che il mio alloggio consisteva  in  un prefabbricato di PVC coibentato di 8 metri per 2,5. Infine quella sveglia festiva di venerdì al posto della domenica confermò senza possibilità di fraintendimenti che mi trovavo proprio in un Paese islamico.

    La vescica mi obbligò a lasciare il tepore rassicurante delle coltri e, cercando il bagno, diedi un’occhiata alla mia magione. La porta d’ingresso si trovava in una stanza poliedrica  soggiorno-tinello-studio, sulla quale affacciava  un cucinotto con finestrella e senza porta; sul lato opposto invece, superato un divisorio a soffietto, si trovava una stretta camera da letto, con piccolo armadio e piccolo bagno. Il tutto assolutamente spartano ma molto funzionale. Non mi spaventò quel micro spazio, che suscitava comunanze con una cella carceraria, poiché la mansarda dove risiedevo a Roma misurava solo qualche metro quadrato in più, anche se la pianta quadrata la faceva apparire molto più ampia. In fondo ero semplicemente passato da una roulotte ad un’altra.

    Del  giovedì pomeriggio, giorno della mia partenza dall’Italia, cominciai a  ricordare esattamente lo sguardo ammiccante di una bellissima hostess, inesorabilmente svanita purtroppo insieme all’aeroporto di Costantine dopo quaranta chilometri di un  trasbordo crepuscolare privo di strade rettilinee. Il buio incalzante, pur celando la vera entità del paesaggio attraversato in pulmino, lasciava intuire colline e pianori, vallate, monti, vegetazione d’alto fusto, tutti elementi più simili ad un ritorno tra il verde della Ciociaria che all’arrivo tra quelle distese sabbiose che per anni avevo sorvolato nell’andirivieni tra Italia e Nigeria; quelle stesse che mi avevano fatto cogliere al volo il contratto per l’Algeria; quelle stesse che, da patito del fuoristrada, anelavo affrontare da sempre. L’impressione serotina di non esser capitato esattamente dove avrei sperato fu puntualmente confermata poco dopo il risveglio quando, a parte un sole  subito caldo ed asciutto, i pendii erbosi, le montagne glabre ed il silenzio che mi circondavano parvero assolutamente somiglianti a certi panorami del massiccio del Monte Cairo, delle Gole del Melfa, della Valle del Liri, insomma della mia terra.

    Della sera dianzi mi venne in mente anche un buio di aperta campagna, privo di baluginii e riverberi di spreco energetico, nonostante certi lampioncini minimalisti nei punti strategici che, nell’alibi dell’oscurità, assomigliavano il campo ad un villaggio turistico. Sì, era stata una notte veramente buia, specialmente al ritorno dal cosiddetto Club dov’eravamo stati condotti dal capo campo per  il brindisi di benvenuto. Si trattava del prefabbricato più esteso e più in alto di tutti gli altri, dove al giovedì sera si radunavano, ormai da qualche tempo, esclusivamente gli uomini soli. Mi ritrovai circondato da scoppiati che bestemmiavano di continuo tra una maledizione e l’altra all’indirizzo, unico argomento di socializzazione, di questi arabi che non capiscono mai quello che gli si dice, che non hanno voglia di lavorare, che hanno delle usanze veramente barbare.  Ne avevo sopportati fin troppi di questi discorsi negli anni trascorsi in Nigeria, dove per fortuna  vivevo in città e mi riusciva facile dribblarli. Lì invece sentivo che non avrei avuto scampo, avrei dovuto conviverci gomito a gomito, pranzo, cena e colazione nella mensa comune, con l’incubo di altri giovedì sera al Club per la sbronza settimanale a base dei terribili Clarette, Kajjam e La Trappe, un vino bianco, uno rosso ed uno rosato, pessimi: tre spine nel fianco della interessante e meritevole produzione algerina, lì però somministrati gratis al giovedì sera!  Un giovedì buio dunque, assolutamente nero di patologiche avvisaglie, con diffusa assenza di dignità ma eccedente delirio nazional-nordista. Tra un bicchiere e l’altro un carpentiere abruzzese desideroso solo di sfoggiare come sapere personali teorie psicologiche maldestramente memorizzate dal Reader Digest  fece notare, del tutto in buona fede, al compagno di bevuta, permalosamente friulano, che probabilmente preferiva la barba poiché utile a mascherare il suo vero volto. L’ossuto friulano dell’Alta Carnia però  non aveva né la pazienza né gli strumenti  per associare ‘volto a personalità’  o per procedere in una discussione pseudoerudita; perciò rispose, con tono inequivocabilmente seccato ma disposto a glissare, che non capiva quello che voleva dire, invitando l’interlocutore con tono bonariamente minaccioso a lasciar in pace la sua fluente barba. Il tipo abruzzese, cui la deleteria triade vinaria aveva sciolto lo scilinguagnolo, nel tentativo di chiarire aggravò il fraintendimento poiché ripropose il concetto avvalendosi di paroloni. Per tutta risposta il friulano lo aggredì mordendolo sul naso così forte che occorsero diversi punti di sutura per  mantenere attaccate le narici.

    Che Allah mi salvi, dal momento che sono sotto il suo cielo! fu il pensiero cui mi aggrappai per addormentarmi, con l’impegno che al risveglio

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