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Al di là dello zenith
Al di là dello zenith
Al di là dello zenith
E-book201 pagine3 ore

Al di là dello zenith

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Info su questo ebook

Sico non si è mai sentito così vivo come la notte in cui è morto.

È successo in condizioni particolari, in una notte magica e dopo aver presentito la morte arrivare. In un certo modo Sico è riuscito a ingannarla, passando dall'altra parte del buio senza chiudere la porta tra le due dimensioni, tra la realtà e l'oscurità. Sono due ragazze a spiegarglielo. Ragazze che diventano donne e poi anziane e poi tornano adolescenti. Due ragazze piuttosto strane che Sico ha incontrato dopo essere morto, aver attraversato il buio e gli scenari deliranti del suo inconscio.

Le ragazze sono venute fuori da due pugni di rampicanti risaliti dal terreno di una valle buia e desolata sotto una collina spettrale. Una ha la pelle bianca come il latte, l'altra nera come inchiostro. E sono nude, quasi completamente. Hanno solo una veste di filamenti che non le copre granché. Bianca, la ragazza dalla pelle nera e nera l'altra. Sono due opposti esatti e il motivo è abbastanza ovvio: una è la Dolce Illusione, l'altra la Pura Verità.

Sono spiriti della morte, guide al di là della vita che accolgono Sico e gli spiegano quello che è successo. La porta va richiusa, ma non subito. Va fatto l'indomani mattina, alla fine esatta delle nove ore della notte. Nel frattempo, per ognuna delle nove ore, arriverà un'anima, morta quella notte stessa. Sico dovrà tornare ai minuti finali della vita di quell'anima e tentare di salvarla. Dovrà salvarne più di quante possa perderne perché il loro è un destino comune. E dovrà farlo nel tempo stabilito perché rischia di non chiudere in tempo la porta dopo l'ultima anima e quindi di restare morto. Stavolta per sempre.

Sico ha solo sedici anni e da un po' di tempo non ha più tanta voglia di vivere. Ha perso quello che ha avuto di più bello. Per questo non ha nessuna intenzione di scegliere tra pure verità e dolci illusioni, tra vita e morte e tra bene e male. Ma poco per volta comincia a esserne costretto. A scegliere, a lottare, a tornare alla vita e a morire ancora e a spingere lo sguardo fin dove nessun vivente ha mai pensato che si potesse spingere: al di là dello zenith.

Recensioni:

https://www.landeincantate.it/recensione-zenith-stefano-saccinto/
http://noracastelli.altervista.org/recensione-al-di-la-dello-zenith/
http://traccedinchiostro.altervista.org/al-di-la-dello-zenith-stefano-saccinto-recensione/
http://voglioesseresommersadailibri.blogspot.it/2017/11/recensione-al-di-la-dello-zenith-di.html
http://www.ithinkmagazine.it/recensione-stefano-saccinto-zenith/
http://www.librierecensioni.com/libri-online/al-di-la-dello-zenith-stefano-saccinto.html
http://www.gliscrittoridellaportaaccanto.com/2016/07/zenith-di-stefano-saccinto-recensione.html

Pagina ufficiale:
https://www.facebook.com/scrittureliberestefanosaccinto/
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2016
ISBN9788892571204
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    Anteprima del libro

    Al di là dello zenith - Stefano Saccinto

    2017

    Al di là dello zenith

    Stefano Saccinto

    Questo libro è dedicato

    a chi mi ha ucciso

    Prologo

    Il mio piede puntato a terra si mosse con uno scatto involontario. Il tallone oscillò. Strisciai le nocche nel fango e feci leva su un polso che non mi riusciva di girare. Sollevai le spalle, ma la fronte restò piantata a terra. La gomma della scarpa slittava nella melma mentre cercavo di puntarla al terreno. Provai con il ginocchio. Mi sollevai. Lentamente. I capelli erano incollati alla faccia dall'argilla che mi riempiva un orecchio. Trascinai gli scarponi verso la moto inclinata su un fianco. La forcella si era spezzata. La ruota di avanti girava a vuoto su uno solo dei bracci, con un cigolio che si ripeteva senza mai rallentare. Strinsi la manopola del manubrio con una mano. Provai a tirarla per rialzare la moto, ma l'altra manopola era sepolta nel fango. Il cellulare era nel bauletto sotto la sella. Allungai una mano verso il cilindretto dov'erano le chiavi, caddi in ginocchio. Mi distesi sul fianco della moto e riuscii ad afferrarle e a sfilarle. Strisciai col petto sulla carena, la mia mano raggiunse la serratura del bauletto. Infilai la chiave e la girai, ma la serratura non scattava. Il sedile era bloccato dal fango. L'unico modo era tirare su la moto, per questo mi rimisi in piedi. Cercai di stare fermo in un punto, ma barcollavo. Iniziai a tremare, poi a tossire. Indietreggiai. Il sangue colava dalla faccia e dalla bocca, lunghe gocce si diluivano nel velo d’acqua steso in una pozzanghera.

    Il silenzio si era solidificato, come l'argilla nel mio orecchio. Non permetteva più a nessun suono di filtrare. Il cigolio della ruota si fermò. Si dissolse anche il suono vivo dell'aria della notte tra le foglie degli alberi del bosco giù dalla scarpata. Il cervello si sganciò dal sostegno che lo teneva fermo nella testa, i colori delle cose diventarono liquidi e iniziarono ad espandersi, toccandosi tra loro. I riflessi si imprimevano nelle retine come tagli dentro gli occhi.

    Mi misi le mani tra i capelli. Con un dito della mano destra sfiorai il bordo di uno spacco nel cranio, ruvido come quello di un dente spezzato. Ingoiai sangue.

    Macchie rosse diventarono nere e si allargarono nei miei occhi. Coprirono gli alberi tutto intorno, il monastero in alto ol­tre il ponte distrutto e poi la notte intera. Diventò tutto buio e silenzioso. Mi spinsi avanti, con la mano alzata. Era rimasto soltanto il freddo e il tiepido alone del mio respiro. Mi guardai le mani, c'erano ancora. E c'ero anch'io.

    Alzai la testa quando un tonfo sordo si propagò da una lontana linea d'orizzonte appena percettibile. Qualcosa si muoveva in fondo al buio. Una massa enorme articolò un lento movimento per mettere un passo in avanti e un altro tonfo si propagò sul pavimento del buio.

    Voltai le spalle alla cosa e iniziai a camminare, ma non c'era nessuna direzione in cui andare. Sentii il freddo ghiacciare il sangue tra i capelli e risalire fin dentro la ferita alla testa. L'odore del ferro e della terra bagnata mi chiusero il naso. Piantai il mento in una spalla e guardai la cosa diventare sempre più piccola, poi un rumore simile agli altri si propagò dall'altra parte del buio. Girai la testa e vidi davanti a me una seconda massa indistinta muoversi per avanzare. Mi fermai. Guardai da una parte e dall'altra. Scelsi un'altra direzione a caso e iniziai a camminare. Allungai il passo e mi guardai indietro. La cosa che si muoveva in fondo al buio scomparve, ma, quando girai la testa, la vidi ancora una volta avanzare verso di me. Presi un'altra direzione. Iniziai a correre e cambiare strada ogni volta che la cosa tornava a venirmi incontro. Provai per decine di volte, ma tutto si ripeteva come la prima volta. Rallentai, mi guardai attorno, mi fermai. Scappare non serviva a niente.

    Mi piegai in avanti con le mani sulle ginoc­chia, cercai di leccarmi il freddo via dalle labbra spaccate. Mi calmai, stesi il palmo di una mano a terra e mi sedetti. Strinsi le braccia intorno alle gambe e infilai la testa tra le ginocchia. Iniziai a dondolare avanti e indietro con il busto per riscaldarmi.

    I tonfi continuarono a propagarsi, con il ritmo lento e puntua­le di una goccia che cade da un rubinetto e insegue se stessa all'infinito, da qualche parte nella notte. Mi premetti le ginocchia contro le orecchie per non sentire finché il pavimento del buio non iniziò a vibrare sotto di me. L'ultimo passo impattò contro la superficie e risalì lungo la mia co­lonna vertebrale. Un flusso di aria calda mi accarezzò la nuca quando la cosa espirò.

    Sollevai piano la testa e guardai al di sopra dei miei avambracci. C'erano due enormi zampe di animale ricoperte di sot­tili peli chiari, incrostate di melma e filamen­ti d’erba secca e segnate da rughe e cicatrici. Alzai di più la testa. Un grugno rosa espirava caldi sbuffi e rilasciava una bava giallastra. Un maiale grande quanto un elefante sovrastava il buio davanti a me e oscillava piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito.

    Mi alzai lentamente per non fare movimenti che avrebbero potuto non piacergli e restai in piedi di fronte a lui. La sua testa si spostò verso il basso come attratta da qualcosa. Fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e la mia mano scomparve fino al polso nell'improvviso calore umido della sua bocca. Guardai i piccoli occhi di plastica nera immersi nella carne rosa, cercai di tirare fuori il braccio, ma la bocca del maiale in un attimo scivolò fino al gomito e me lo ritrovai steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Spinsi con il palmo della mano libera sul suo naso umido e tirai ancora, ma il braccio non si spostava di un millimetro. Cercai di afferrare qual­cosa con la mano all’interno della bocca, ma le mie dita si inzuppavano di bava e scivolavano su qualsiasi superficie interna.

    Smisi di tirare e ripresi fiato. Con un altro scatto, il maiale mi avvolse tutto il braccio. La sua testa si sollevò lentamente, ruotai intorno alla giuntura della spalla per seguirne il movimento e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilac­ciava a terra. Trattenni il respiro e restai immobile, il maiale spalancò la bocca e mi afferrò la testa e le spalle. La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide dentro la sua bocca. Scivolai avanti e indie­tro risucchiato dalla gola.

    Un millimetro alla volta, il condotto si allargava stringendomi come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pu­gni mi premeva addosso dappertutto e mi spingeva avanti nel condotto sempre più stretto e buio finché mi ritrovai affac­ciato da un buco dai bordi scivolosi. Le mani slittarono e io caddi nel vuoto.

    Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto le ascelle, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di rimetterla al suo posto per guardare in basso, ma vidi soltanto le mie ginocchia che risalivano di colpo verso la mia faccia mentre le ossa schioccavano fracassandosi. Attorno a me si sollevò un muro di polvere.

    Avevo le mani e i piedi enormemente distanti e la mente frantumata in migliaia di schegge. Restai immobile per un tempo lunghissimo, per paura di scoprire quanto si fosse rotto del mio corpo. Non sentivo più la mia forma, ero diventato un tappeto di macerie steso su un pavimento duro e qualsiasi punto di contatto con la sua superficie mi faceva male, l'angolo della mascella, la punta destra del bacino, l'ultima costola sul fianco, il ginocchio, il malleolo. Muovevo impercettibilmente questi punti di contatto, ma il disturbo non passava, così iniziai a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo.

    Mi alzai come un manichino scomposto. In quel momento sentii per la prima volta dirompere il dolore, talmente forte da non crederlo possibile. Avevo un braccio che pendeva dal lato sbagliato del gomito e il collo spezzato verso destra. Nei jeans non c'erano gambe, ma un ac­cumulo di frammenti che si muovevano, non sapevo neanche come fosse possibile che mi mantenessero in piedi. Le mani erano dilatate fino a sembrare finte.

    Mi girai su me stesso per guardarmi attorno mentre la nuvola di polvere si abbassava lentamente. C'era una città in rovina, vuota e silenziosa, ai miei piedi, sotto la terrazza dove ero caduto. Puntai il gomito disarticolato sul fianco e con l'altra mano stesi il braccio a denti stretti per rimetterlo a posto. Le ossa si riallinearono, forse erano soltanto venite via dalla giuntura.

    La situazione del collo era più complicata. Guardavo tutto da un'angolazione innaturale con la testa che pendeva da una parte. C'erano ammassi di case, una sopra l’altra, in incomprensibili arrampicate verso il cielo. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e cercai di guardare in alto, ma non ci riuscivo per via del collo. Non avevo il coraggio neanche di sfiorare il punto in cui sembrava spezzato. Mi presi la testa tra le mani e la tirai su lentamente. Urlai dal dolore e dalla paura. Qualcosa dentro al collo scattò e la testa restò dritta. Provai a muoverla a destra e sinistra. Tranne un leggero dolore, sembrava non ci fossero danni.

    Anche le gambe erano messe male. Le ossa salivano senza continuità verso il bacino. Mi piegai le ginocchia con le mani e cercai di raddrizzare tutto quello che mi sembrava storto. Camminai per un po' avanti e indietro. Provai le articolazioni delle mani, le spalle. Non avevo più dolori, ogni cosa era tornata al suo posto.

    Mi affacciai dalla terrazza. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Una scalinata partiva da un davanzale per finire nel bel mezzo di un muro. Un ponte enorme a campata unica saltava da una parte all'altra dell'intera città stesa davanti a me.

    Una vibrazione aumentò lentamente sotto i piedi, mi tenni al parapetto per non cadere finché non terminò. Dopo qualche attimo riprese e si fermò ancora e poi riprese più forte di prima. Indietreggiai e cercai di tenermi in piedi. In un'apertura su un campanile altissimo dal tetto a mongolfiera verde e rosso, una campana dorata iniziò ad oscillare. Si inclinò espandendo un rintocco che echeggiò tra le strade impolverate della città. Dopo un pesante silenzio ci fu un altro rintocco. La campana suonava a morto.

    Al di sopra delle terrazze in fondo alla città, le lunghe corna di una giraffa salivano e scendevano al ritmo delle vibra­zioni, sormontando una testa di dimensioni spaventose. Il corpo gonfio a cornamusa, sorretto dai quattro lunghi fuscelli che aveva per zampe, passò nel vuoto tra due ammassi di case in lontananza, trascinandosi un'ombra sbilenca.

    Il terzo rintocco della campana fu scavalcato dal boato delle torri e dei palazzi che iniziarono a venire giù, di lato, come se una mano gigante li stesse spingendo. Una pro­fonda crepa si ramificò in diagonale sul campanile. Il tetto a mongolfiera si inclinò da una parte, la campana oscillò spaven­tosamente, poi rintoccò contro il muro.

    Il campanile spezzato crollò sull’ammasso di case dove ero io, rompendo il terreno sotto i miei piedi. Le macerie iniziarono a smottare in un liquido scuro che gorgogliava emanando vapore, nel fragore sordo della città che veniva risucchiata lentamente. L’alba o il tramonto fluiva via, lontano, in un fa­scio di colori confusi tra i banchi di polvere che si alzavano mentre il ponte si infrangeva sulla città.

    Sprofondai in acqua insieme a tutte le rovine intorno a me che mi trascinarono sotto la superficie, sempre più a fondo. Risalii agitando le braccia nell’acqua verde scuro. Da una spon­da lontana qualcosa prese la mia direzione. Mi passai il dorso della mano sugli occhi, sputai fuori dai denti l'acqua entrata in bocca. Mi ripulii lentamente dal fango che avevo ancora appiccicato in faccia e addosso. Quando mi passai le mani tra i capelli, la ferita alla testa non c'era più.

    Tra i bianchi addensamenti di fumo che ruotavano in circolo sullo stagno oscuro, il muso di una rana gigantesca si immerge­va e riemergeva dall'acqua, avvicinandosi. Una piccola figura con la schiena dritta la cavalcava seguendone le immersioni e le riemersioni.

    La rana deviò verso una sponda vicina, agganciò il bor­do di terra con le zampe e si fermò. La figura girò la testa e tese una mano. Era una scimmia con lo sguardo serio, fisso su di me. Restai a guardarla per un po'. Aprivo e chiudevo gli occhi aspettando di capire. Ma non riuscivo, non c'era niente da capire. Nuotai verso la sponda, afferrai la mano della scimmia e mi arrampicai sul dorso della rana, issandomi con un piede sulla piegatura della sua zampa. Il fondo dei jeans scivolava sulla schiena liscia e umida. Mi aggrappai alla vita della scimmia. La rana abbandonò il bordo e si immerse di nuovo in acqua.

    Respirammo in silenzio il vapore mentre andavamo attraverso lo stagno tra i banchi di fumo bianco come muri di un labirinto di nebbia. Raggiungemmo una sponda lontana dove la rana rallentò e poi si fermò, galleggiando a zampe aperte. Poi iniziò a inabissarsi. Aprii le braccia e lasciai andare la scimmia che restò aggrappata al dorso della rana e si lasciò trascinare giù, finché l'acqua non la sommerse del tutto. Infilai una mano sotto la superficie cer­cando di afferrarla, ma non ci riuscii. Nuotai fino a riva. Af­fondai i gomiti sulla sponda e mi issai. Mi stesi a pancia in su, con le gambe ancora in acqua. Restai a respirare per un po', poi mi sollevai per sedermi.

    Nella tasca davanti dei jeans, qualcosa premeva contro la mia gamba. Tirai fuori la bustina del tabacco accartocciata e la scrollai per liberare dalle gocce d'acqua l'involucro plastificato. Il tabacco, le cartine e i filtri non erano bagnati. Mi soffiai sulle dita per un po', per asciugarle. Rullai una sigaretta, la infilai in bocca e sollevai una gamba per prendere l’accendino dalla tasca posteriore dei jeans. Non funzionava. Mi alzai e mi misi a camminare guardan­domi attorno, continuando a provare l'accendino.

    I miei occhi si abituarono lentamente all'oscurità. Forme appena visibili, curve come pance di donne incinte attraversate da venature nere, erano sospese nel buio tutto intorno. Qualcosa si muoveva al loro interno. Mi avvicinai a una pancia più grande delle altre, la fiamma dell'accendino si accese. La avvicinai per fare luce e al­lungai una mano. Le mie dita passarono attraverso la superficie fa­cendo vibrare tutto, ma quando ritirai la mano, la pancia riprese la sua forma.

    Qualcosa cigolò in fondo al buio. Mi voltai e vidi in lontananza una porta nera senza pareti attorno. Mi avvicinai, la spinsi piano. Un lungo corridoio buio si proiettava su una nuova oscurità. Attraversai la porta e andai avanti. Arrivai in fondo al corridoio. Un abisso infinito si apriva sotto i miei piedi. Mi in­clinai in avanti, tenendomi a una parete del corridoio, e mi affacciai. Allungai un passo che restò sospeso nel vuoto. Oltre il corridoio non esi­steva più niente.

    Avvicinai l'accendino alla punta della sigaretta, ma, al contatto con la fiamma, il buio iniziò a incendiarsi come un gi­gantesco foglio di carta nera. Il chiarore si diffuse allargandosi concentricamente, scintille di fuliggine cadevano leggere dal cielo staccandosi dai bordi del buio. Una luce livida

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