Scrivere l'horror - Nel cinema e nella letteratura
Di Luigi Boccia
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Saggi - saggio (83 pagine) - Che cosa significa, oggi, scrivere horror? Non solo romanzi, ma anche sceneggiature per film, o serie televisive? Ce lo racconta un grande esperto di horror, senza lesinare segreti e consigli
Scrivere horror, oggi, non è semplice. Bisogna sapere quali sono gli elementi imprescindibili di questo genere, fra i più amati in narrativa, al cinema e in TV. Per farlo, Luigi Boccia, grande esperto di horror a tutti i livelli (è scrittore, sceneggiatore, regista, giornalista e direttore del periodico Weird Movies) prende a esempio film e romanzi che hanno fatto la storia del genere, ma non per ricordare il passato, quanto piuttosto per prenderne spunto per superarlo e arrivare al presente, cercando di dare una precisa fisionomia all'horror di domani. Come dice lo stesso Boccia. "Il fine ultimo del genere horror è soggiogarci: attraverso la paura, senza nessuna regola, terrorizzarci fin dentro le ossa, possibilmente attingendo ai ricordi della nostra infanzia (una sorta di pozzo nero in cui ogni cosa diventa possibile), e se a suscitarci queste emozioni negative è un nome ben preciso, un nome che è sinonimo di spavento e crudeltà, allora lo scopo è stato raggiunto". Non abbiate paura di addentrarvi nei meandri di questo genere: conoscerlo può servire a dominarlo…
Luigi Boccia, sceneggiatore e regista, ha pubblicato i romanzi Confessionale Nero (1997), La Janara (2007), Leonardo da Vinci e la finestra sul tempo (2014) e La notte chiama (Delos Digital, con Nicola Lombardi). Ha curato diverse raccolte antologiche, tra le quali Fame – La trilogia cannibale, La Stagione della Follia, Malefica e Il paese dell’oscurità. È autore dei saggi Arcistreghe, Licantropi, Cinemalab e Il cinema digitale. Per la Star Comics ha ideato con Sergio Stivaletti la serie a fumetti Factor-V. È stato direttore di diverse testate, tra cui SciFi Now e Weird Tales Italia. Attualmente dirige la rivista del cinema fantastico internazionale Weird Movies e, per Delos Digital, la collana Horror Story.
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Scrivere l'horror - Nel cinema e nella letteratura - Luigi Boccia
9788825402643
I grandi capolavori dell’horror
non si sono mai occupati, in realtà,
dei mostri, ma dell’umanità.
Douglas E. Winter
Tutte le storie horror si dividono in due gruppi: quella in cui l’orrore deriva dalla scelta libera e consapevole di essere malvagi, e quella in cui l’orrore è frutto del destino e arriva dall’esterno come un fulmine a ciel sereno.
Stephen King
Dovremmo invidiare i mostri.
Clive Barker
Parte I
Teoria della paura
Amore, tempo e morte
«Amore, tempo e morte: queste tre cose mettono in contatto ogni singolo essere umano sulla terra.» Prendiamo spunto da questa citazione del film Collateral Beauty per dare forma a una fondamentale riflessione che sta alla base dell’esistenza stessa del genere horror, letterario e cinematografico: l’amore (la nascita, l’atto supremo) e la morte (la fine di tutto, il buio eterno) sono i due estremi del percorso lungo il quale si svolge la nostra vita. Il tempo è la costante, l’orologio universale che scandisce ogni attimo dell’esistenza stessa, il giudice assoluto con il volto dell’inganno che decide della razza umana.
Il nostro universo (o almeno la porzione che ne conosciamo) si basa su un delicato equilibrio di leggi quantistiche e fisiche, ma non esiste forza alcuna nel cosmo che possa mettere in discussione la morte, l’amore, e il tempo. Sono per noi elementi insovvertibili. Tre pilastri che ci definiscono per ciò che realmente siamo: un concetto finito, una prigione, un territorio limitato, un destino preconfezionato. Comunque vada il viaggio di ognuno di noi, saremo tutti un inizio e una fine.
C’è un solo genere al mondo che abbia osato cercare di scardinare le regole di questa realtà, violando i principi della fisica, dello spazio e, soprattutto, del tempo: l’horror ci ha donato l’immortalità, concedendo alla nostra mente una possibilità per abbattere i muri della prigione ed essere libera di addentrarsi nei territori dell’impossibile.
Se analizziamo ad esempio Dracula, scritto da Bram Stoker nel 1897, che resta probabilmente il romanzo capostipite del genere più conosciuto e amato nel mondo, oltre che quello con le maggiori trasposizioni cinematografiche, troviamo il primo vero tentativo di abbattere i limiti della carne
. Il vampiro di Stoker è una sorta di divinità, una sfida vinta su Dio e sulla natura, il primo eletto di una razza superiore che può vivere per secoli.
Il libro uscì nel 1897 e fu un successo immediato: di tali proporzioni, anzi, da sollecitare in seguito interi studi dedicati ad analizzare le motivazioni di tanta presa sul pubblico di tutto il mondo, in un’epoca il cui il positivismo aveva già scosso radicalmente gli opposti fascini del cielo e dell’inferno. [… Quando gli uomini smettono di credere in Dio finiscono non col credere in nulla, ma col credere a tutto: e probabilmente, proprio l’aver fatto emergere il suo personaggio dalle nebbie più cupe della superstizione medievale, permise a Stoker di affascinare col suo libro un mondo ormai già rassicurato nel suo materialismo.
Da sottolineare che la ricerca dell’amore, oltre che quella della sussistenza, resta l’elemento dominante (il leitmotiv) di questa immortalità.
Ma c’è anche un altro elemento di forte impatto psicologico sul pubblico, un fattore quasi inconscio: il Vampiro è trasfigurazione dell’eros, è il simbolo di una sotterranea ma sempre palpabile venatura erotica. Dracula è espressione «di una sessualità totalmente deviata, vista come male assoluto e assoluta perdizione. È il seduttore infernale che viola l’innocenza con una malvagità così turgida e totalizzante da essere irresistibile. L’unione con lui non significa soltanto perdita della purezza, ma remissione completa del sé, assorbimento completo nella non-vita dei non-morti, e quindi esclusione sia da questo mondo che dall’altro. Nel suo disordine totale, la sessualità del vampiro è ambigua, onnivalente.»
Ecco il quarto elemento, che insieme all’amore, al tempo, e alla morte, genera l’alchimia vincente che ha permesso al conte della Transilvania – e alle successive stirpi vampiriche che ne hanno raccolto l’eredità – di essere il principe della paura
nel vasto immaginario cinematografico e letterario.
Il Vampiro è stato infatti per oltre un secolo la perfetta metafora del male, la cosa senza nome che si nasconde negli armadi e che respira sul limitare dei nostri incubi, ma prima di ogni interpretazione, egli ha simboleggiato e incarnato le fattezze dell’uomo nero della nostra società.
Presente da molti secoli nella cultura di diversi popoli in tutto il mondo, l’uomo nero non ha una sua riconoscibilità, non possiede caratteristiche precise: siamo noi, attraverso i nostri timori e desideri più profondi, a dargli un volto, una profondità, un motivo per esistere.
Il cinema e la letteratura sono da sempre impegnati nel tentativo di dare un nome e un volto al boogeyman perfetto, poiché è questo fondamentalmente il fine ultimo del genere dell’orrore: soggiogarci attraverso la paura, senza nessuna regola, terrorizzarci fin dentro le ossa possibilmente attingendo ai ricordi della nostra infanzia (una sorta di pozzo nero in cui ogni cosa diventa possibile), e se a suscitarci queste emozioni negative è un nome ben preciso, un nome che è sinonimo di spavento e crudeltà, allora lo scopo è stato raggiunto.
Cosa contraddistingue un grande romanzo dell’orrore? Mi piace rispondere a questa domanda con una citazione dello scrittore e critico americano Douglas E. Winter:
Per trovare una risposta soddisfacente alla domanda […] è necessario che condividiate con me un’importante considerazione anche se può essere considerata un’eresia: l’horror non è un genere, come il giallo, la fantascienza o il western. Non è un tipo di narrativa se con questo concetto indichiamo qualcosa di ristretto a un ghetto o peggio a uno scaffale speciale nelle biblioteche o nelle librerie. L’orrore è un’emozione.
Nella nostra società attuale, l’amore e la morte sono ancora i pilastri fondanti di quest’emozione? La risposta è affermativa: di questi tempi il tema dell’amore e quello della morte (e quindi più che mai dell’immortalità) muovono ancora tutte le coordinate emozionali dell’essere umano.
Ci sono quattro punti vitali che non dovrebbero mai mancare in una grande storia dell’orrore moderna, sia essa un romanzo o un film, che aspira a conquistare un grande pubblico. Quattro semplici ingredienti che potete ritrovare in tutti i capolavori della letteratura o del cinema che avete amato:
L’eroe
Non esistono storie senza gli eroi. Ogni opera artistica ha il suo eroe buono o cattivo: stiamo parlando del personaggio principale, quello che ci trasporta nella storia, che ci emoziona o ci spaventa, che ha la capacità di farci rimanere attaccato alla narrazione fino alla fine. L’eroe è il protagonista, ed è una sorta di specchio per la maggior parte dei lettori o spettatori, che in lui si riconosceranno.
C’è infatti un complesso fenomeno di immedesimazione che si instaura tra il lettore e l’eroe della storia, un’alchimia che non ha regole. Se i lettori ameranno o odieranno il tuo protagonista, vuol dire che hai scritto una buona storia.
L’amore
L’amore rappresenta la speranza. C’è sempre una possibilità per cavarsela, da una vita in bilico o da una situazione ormai disperata. Lì dove il male sta per vincere, deve esserci una seppur vana probabilità che noi possiamo farcela.
La morte
Perché la morte ci accomuna, tutti, nessuno escluso. Perché creare l’orrore «equivale a paralizzare un avversario con le arti marziali: si tratta di localizzare i punti vulnerabili e poi schiacciarli con decisione. Il più comune punto di pressione fobica è la consapevolezza della nostra mortalità.»
Il finale
I lettori vogliono essere spiazzati. Adorano essere presi in contropiede. Nessun lettore amerà mai