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Il gioco proibito
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E-book273 pagine3 ore

Il gioco proibito

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Info su questo ebook

Breach Series

Sono sempre stata una tipa introversa, per questo non faccio altro che lavorare e mi nascondo dietro l'ambizione professionale.
Ma il mio nuovo partner, Nathan, è esattamente il tipo di uomo da cui ho sempre cercato di stare alla larga. Il suo sorriso strafottente è la maschera perfetta dietro cui si nasconde un uomo tormentato. So riconoscere una bugia quando ne vedo una, e la facciata di Nathan non è troppo diversa da quella dietro cui mi sono barricata io per tutti questi anni.
Ho scoperto che persino nell'oscurità più buia può esserci la luce. Una scintilla in grado di far divampare un incendio, quando due anime vibrano alla stessa intensità.
Ogni volta che mi guarda o mi sfiora di nascosto so che è proibito. Ma ho deciso che non voglio perdere questa opportunità di essere finalmente me stessa. Anche se significa soffrire. Anche se so che Nathan non sarà mai in grado di amare.

K.I. Lynn
è un'autrice bestseller di USA Today che ha trascorso la sua vita dedicandosi a ogni forma di arte: dalla musica alla pittura, passando per la ceramica e la scrittura. Ha sempre la testa piena di intrecci e personaggi e si ritiene molto fortunata a potersi dedicare alla sua vera passione. 
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2019
ISBN9788822737786
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    Anteprima del libro

    Il gioco proibito - K.I. Lynn

    Capitolo 1

    Iniziò come una mattinata infernale, quindi doveva essere un lunedì. Il fatto che la notte avessi dormito solo tre ore non aiutava. Il mio cervello era incapace di spegnersi.

    Mi serviva un caffè.

    Subito.

    La giornata sarebbe dovuta migliorare: era il primo giorno del nuovo assunto. Forse non sarei più rimasta in ufficio quasi tutte le sere fino a mezzanotte. La prospettiva di tornare ad avere una vita, grazie al mio nuovo collega, era stupenda. Non che prima ce l’avessi. Negli ultimi quattro mesi, da quando Vivian ci aveva piantato in asso, avevo lavorato dalle sessanta alle settanta ore a settimana. Avevo bisogno di una vacanza.

    Cavolo, mi sarei accontentata di uscire prima delle cinque una volta a settimana.

    Entrai nel parcheggio, sfrecciai verso il mio solito posto e mi guardai allo specchietto: i miei occhi, solitamente luminosi ed espressivi, erano spenti e arrossati per la mancanza di sonno, mettevano in risalto le occhiaie e spiccavano sulla mia pelle pallida. I capelli non collaboravano, con ciocche biondo scuro che scappavano da tutti i lati. Mi ero pettinata prima di uscire, vero?

    Allo stato attuale, non ne ero sicura. Frugai nella borsetta, alla ricerca di un elastico per capelli (la migliore invenzione di sempre) e velocemente sistemai quella specie di nido per uccelli in una coda legata stretta. Guardando in basso, notai poi una smagliatura su una calza, che partiva dal ginocchio e arrivava alla fine del polpaccio.

    Ottimo, un’altra cosa da aggiungere a una mattinata già spettacolare.

    Io odiavo i collant, ma d’inverno, quando mettevo la gonna, mi tenevano un po’ più al caldo. Mi tirai furtivamente la gonna su fino alla vita, diedi un colpo in avanti con le anche e puntai i piedi a terra, poi calai i collant oltre il culo, giù per le cosce e mi tolsi quel materiale sgradevole dalle gambe. Mentre mi rimettevo a sedere, raccolsi quel tessuto inconsistente e lo buttai sul sedile del passeggero.

    Puntai di nuovo i piedi e sollevai il bacino per rimettermi a posto la gonna, e farla arrivare al ginocchio. Quando mi girai per prendere la borsa, mi spaventai nel vedere che qualcuno mi guardava.

    Cazzo.

    Il guidatore dell’auto accanto alla mia era seduto in macchina con gli occhiali da sole, come se ce ne fosse bisogno quel giorno, in cui era prevista pioggia al novanta per cento. Lo fissai per un attimo, osservando un sorriso compiaciuto sulla sua faccia. Sentii il viso andarmi a fuoco e maledissi il rossore che sapevo stava spuntando.

    Prima di scendere dall’auto gli mostrai il dito medio. Come per dire che di quel che pensava non me ne fregava un cazzo.

    Andai verso le doppie porte ed entrai, presi l’ascensore diretta al mio piano e arrivai in ufficio. Be’, negli ultimi mesi era stato solo mio, ma di lì a un’ora, o giù di lì, sarebbe diventato il nostro ufficio. Quando vidi la pila di fogli che mi aspettava, emisi un lamento disperato. Era raddoppiata nel finesettimana.

    Ma nessuno si era preso un giorno libero? Chiaramente non avevano idea di quanto ci sarebbe voluto per sistemare tutti i loro documenti.

    Quando andai a sedermi, trovai un post-it giallo splendente a darmi il benvenuto. Era attaccato su un fascicolo: la pratica di Vivian. Ottimo.

    La mia ex collega e compagna di ufficio aveva fatto causa ai miei datori di lavoro, i soci dello studio Holloway and Holloway. Interruzione del rapporto di lavoro senza preavviso, né giusta causa. Un colpo di scena che trovavamo tutti ironico, visto che quella che era andata in pausa pranzo e non era più tornata era lei. Abbandono del posto di lavoro, ecco di cosa si trattava. Io lo interpretai come un fottiti, Palmer finale. Sapeva che sarebbe toccato a me sbrigare tutto.

    Emisi un lamento. Per quanto odiassi essere oberata di lavoro, odiavo ancora di più lavorare con lei, nello stesso ufficio. Quando era nei paraggi mi sentivo soffocare. Non riuscivo mai a sfuggire ai suoi comportamenti fastidiosi o al suo parlare ad alta voce, nemmeno volendo, per colpa della mole di lavoro che avevamo.

    Mentre guardavo quelle pile di fogli, mi saliva l’ansia e mi stupiva che le scrivanie non crollassero sotto il peso di tutti quei faldoni. Quindi, andai verso la sala relax e mi presi un caffè.

    Dopo averne bevuto uno appena fatto, sbrigai alcune pratiche rimaste in sospeso dal venerdì. Una volta finite, iniziai a frugare fra le pile nuove, cercando le cose più urgenti.

    Amavo arrivare presto in ufficio, prima della confusione. C’era silenzio e mi potevo concentrare sul mio lavoro senza essere interrotta.

    Ero a metà catasta, quando qualcuno che bussava alla porta attirò la mia attenzione.

    «Delilah, hai un momento?», chiese la voce familiare di Jack Holloway.

    «Per lei, signore? Sempre», risposi io con un sorriso spontaneo. Il mio capo, il signor Holloway (o Jack, a seconda dell’occasione), era sempre gentile e alla mano, ed era un piacere esaudire ogni sua richiesta. Sapevo che andava così perché desideravo fortemente le sue parole carine e gentili, che raramente altre persone mi rivolgevano.

    «Volevo presentarti il tuo nuovo collega prima di fare l’annuncio ufficiale». Si spostò di lato e lasciò entrare un uomo.

    Spalancai la bocca sorpresa quando vidi un uomo alto, simile a un dio, con capelli castani e occhi blu seducenti in piedi davanti a me. Me ne stavo seduta in un silenzio stupefatto, con gli occhi sgranati. Ma John diceva sul serio o era il mio cervello che si era spento?

    «Ti presento Nathan Thorne. Avrà bisogno che tu gli faccia da guida finché non si sarà ambientato. Per favore, abbi cura di lui».

    «Delilah, eh?», chiese il dio con un sorrisetto. Un sorrisetto!

    Tese la mano e, controvoglia, allungai la mia. Una breve scossa e poi il signor Holloway se lo portò via per fare quattro chiacchiere tra loro prima della grande presentazione.

    Io restai in silenzio mentre il mio cervello confuso dal caffè elaborava quella novità.

    Poi capii.

    Merda!

    Era quello del parcheggio. Il coglione con gli occhiali da sole.

    Potevo già dire che avrebbe dato problemi. Era troppo bello, tutte le donne avrebbero fatto a botte per arrivare a lui… nel nostro ufficio.

    Forse Vivian non era così male.

    Rivolsi di nuovo l’attenzione alla pila infinita di fogli di fronte a me, e mi rimisi a lavorare. Nathan tornò solo dopo pranzo. L’ora seguente la passai ad aiutarlo a sistemarsi (tempo che non avevo). Stare così vicino a lui era una pessima idea, di quelle colossali.

    Passò poco tempo prima che iniziassero le allusioni e la mia pazienza iniziasse a scemare.

    Mi piegai su di lui per muovere il mouse. «Ecco, questo è il percorso per arrivare alla cartella condivisa. Tutti i documenti vanno salvati qui come back up».

    «Sai, non ti devi arrampicare su di me per attirare la mia attenzione. Va benissimo anche alzarti la gonna», disse.

    Sentivo il sangue ribollirmi nelle vene, anche più di quanto non facesse già per la rabbia.

    «Mi dispiace, non mi ero resa conto che ci fossero dei guardoni in giro. La prossima volta mi rinchiuderò in una stanza vuota per risparmiarti lo spettacolo», dissi alzando gli occhi al cielo, poi tornai a ciò che stavamo facendo, pronta a mostrargli il passo successivo.

    «Risparmiarmi lo spettacolo?». Alzò un sopracciglio con l’espressione interrogativa di chi cerca di capire.

    «Sì. La tentazione porta all’inferno, o almeno è quel che si dice». Cercai di nuovo di riportare la sua attenzione sul monitor.

    Lui fece un sorriso, cosa che già stavo iniziando a detestare. «Credi che sia tentato da te?».

    Pensai alla risposta da dare, anche se la sapevo già, ma decisi di tenerlo comunque sulle spine. «No, ma non voglio darti la possibilità di essere tentato da me».

    «Perché questa ostilità?»

    «Senti, Nathan», sbuffai. «Sono qui perché ho un compito da svolgere, non per mostrare il seno e attirare la tua attenzione. Mi piace il mio lavoro, mi piace farlo e voglio mantenerlo. Inoltre, so che non sei e non sarai mai interessato a una come me, quindi perché provarci? Ora, possiamo tornare a quello che facevamo?»

    «Come fai a saperlo?».

    Serrai le mascelle, chiusi gli occhi e mi girai verso di lui. «Prego?»

    «Hai capito bene», rispose. La sua voce si era abbassata, ora era dura e fredda, non lasciava pensare che ci stesse provando. «Come. Fai. A. Saperlo?».

    Era difficile avere a che fare con lui, mi faceva rizzare i peli sul collo. La mia maschera stava per cadere, al punto che la mia risposta non fu altro che un sussurro. «Niente, lascia perdere».

    «Come?»

    «Perché qualcuno dovrebbe esserlo?», sogghignai prima di raddrizzarmi per andare in bagno.

    Merda, merda, merda!

    Camminai su e giù per il bagno, respirando profondamente per rilassarmi e ritrovare la calma. Per colpa sua avevo fatto una gaffe; mi aveva sondata con domande che sarebbe stato meglio non sentirsi fare. Le risposte a quelle domande fecero riaffiorare emozioni che erano felicemente sepolte nel passato.

    Dopo una decina di minuti, mi accertai che in corridoio non ci fossero pericoli, e uscii. Quando rientrai in stanza, mi fissò con un’espressione perplessa in volto. Non parlò, e gliene fui grata. Tornai alla mia scrivania, portando la sedia accanto alla sua per riprendere la lezione.

    «Email e lista contatti. Poi possiamo vedere se hai accesso ai programmi che il settore informatico avrebbe dovuto predisporre durante il finesettimana».

    «Sei molto particolare, Delilah».

    «Sono solo una donna, Nathan. Niente di speciale», risposi, poi tornai a concentrarmi sul suo computer.

    «Devi proprio farlo?». Dopo quasi cinque minuti di clic del pulsante della penna del mio nuovo collega, stavo digrignando i denti. Il suono era così forte che rimbalzava sulle pareti, distraendomi dal contratto che avevo davanti.

    Nathan continuò il suo assalto al pulsante della penna. «Mi aiuta a pensare».

    Lo guardai storto. «Bene, a me fa pensare a tutti i modi in cui potrei usarlo per farti del male».

    Mi fissò a sua volta, sfidando la mia richiesta e facendo scattare di nuovo la penna. «È quel periodo del mese, Palmer?»

    «Sei uno stronzo. Torna al lavoro». Rimisi a posto i documenti davanti a me.

    «Il che mi porta a una domanda: cosa hai fatto negli ultimi quattro mesi?».

    Desiderio di morte. Ecco cosa provava.

    Sapevo che la vena sulla fronte mi pulsava dalla rabbia che mi stava provocando. Aveva iniziato da tre giorni e Vivian già sembrava un raggio di sole rispetto a lui. Avrei giurato che stesse cercando di mandarmi fuori dai gangheri, di provocarmi. Volevo solo sapere perché.

    «Ciao ragazzi!», disse una voce femminile dalla porta.

    Volevo urlare.

    Un sacco di donne venivano in continuazione a presentarsi a Nathan. Avevo visto più scollature quella settimana di quanto non ne avessi viste in tutta la mia vita, e avevo il seno. Ognuna di loro mi aveva portato a chiedermi se ogni donna in ufficio avesse rifatto completamente il guardaroba con capi scollati la sera dopo l’arrivo di Nathan.

    Io stavo quasi per esplodere. Con le loro continue interruzioni, non si riusciva a fare niente.

    Per un momento, guardai Kelly mentre flirtava con lui. Arricciai il naso per il disgusto, chiedendomi se sarei mai stata in grado di sopportarlo e se avrebbe mai smesso di stuzzicarmi.

    Era un buon avvocato, ma ciò non giustificava il fatto che portasse le sue attività del tempo libero nel mio ufficio durante l’orario di lavoro.

    Era attraente, non potevo negarlo. Su quello la pensavo come le altre. Ero una donna single ed etero, non cieca, sorda e stupida.

    Nathan sorrise a Kelly. «Cosa posso fare per te?». Avevo la mano appoggiata sulla spillatrice. Resistetti alla forte tentazione di lanciargliela in testa mentre lo fissavo.

    Le stava incoraggiando, facendomi desiderare di strangolarlo. C’era una testimone e tenevo molto alla mia libertà, quindi quel piano era impraticabile. Se avessi voluto farlo fuori, non sarebbe stato in ufficio. Magari in un vicolo buio a notte fonda, in modo da non riempirmi di sangue la scrivania.

    Arrivata al limite, mi alzai e uscii, lasciando quello che era destinato a diventare un peep show. Mi diressi a riempire la tazza del caffè quasi correndo e borbottando. Entrata nella sala relax, sospirai alla vista della caffettiera vuota. Oh bene. Significava caffè appena fatto per me e più tempo lontano da lui.

    «Ciao, Lila! Come vanno le cose oggi con Nathan?», chiese in tono allegro Caroline, la mia unica amica e alleata. Le avevo raccontato tutto della situazione con quello stronzo. Il sorriso sul suo viso si attenuò quando vide la mia faccia. «L’omicidio non è un’opzione».

    Non potei fare a meno di ridacchiare a quel commento che centrava il punto. «Ne sei sicura, Carrie?»

    «Sì. Il Commando Tette è ancora in giro?»

    «Mentre stiamo parlando, il membro numero sette del Commando Tette è nel mio ufficio». Mi stampai un sorriso falso sul viso, tentando di fare la migliore imitazione possibile.

    Commando Tette era il nome che Caroline aveva dato a tutte le donne che ora facevano tappa fissa nel nostro ufficio, mio e di Nathan.

    Provò a rassicurarmi: «Sono certa che andrà meglio. Tutto ha un periodo di assestamento, no?».

    Io risi del suo ottimismo. «Certo, come no? Forse anche l’inferno si congelerà».

    Guardai la caffettiera riempirsi e la tolsi dal fuoco prima che finisse. Le augurai un buon pomeriggio con la tazza in mano, ormai piena, e mi voltai. Mentre me ne andavo, mi pregò di non finire in prigione. Non potei prometterle nulla.

    Quando tornai, della numero sette non c’era traccia, e tirai un sospiro di sollievo.

    «Su quale ragazza hai messo gli occhi?». Mi sedetti, con in mano la quinta iniezione di caffeina di quel giorno.

    «Prego?»

    «Quale scegli? Hanno lottato per le tue attenzioni. Tutte si chiedono chi scoperai per prima. Sono stupita che si stiano lanciando contro di te senza nemmeno preoccuparsi del loro lavoro».

    «Stai parlando della politica di non fraternizzazione».

    «Holloway adesso è molto rigido al riguardo, dopo la vicenda di Antonio e Karen. Ci sono stati un sacco di tragedie e problemi, quindi ora si liberano di uno dei due o di entrambi. Ecco perché mi sorprende che in così tante siano disposte a rinunciare al lavoro per il tuo pacco».

    Il suo volto si illuminò con quel sorrisetto sarcastico che mi faceva bagnare, e che faceva bagnare ogni altra donna dello studio. «Ho un pacco davvero impressionante».

    Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. «Per favore».

    «Devo mostrartelo?» Si alzò, mettendo le mani sulla fibbia della cintura e tirando il cuoio attraverso il primo passante.

    Mi coprii gli occhi con la mano. «Tienilo nei pantaloni, Casanova».

    «Mi sorprende che ti importi di loro».

    «Non mi importa di loro».

    «Allora non preoccuparti. Uno dei motivi per cui ho accettato di venire in questo studio è perché ha regole rigide che vietano relazioni tra colleghi. Pensavo che avrebbero tenuto le colleghe lontane, ma non sembrano sufficienti», sospirò. La sua espressione si fece scura, agitata.

    «Mi dovrei impietosire perché le donne ti si fiondano addosso?».

    Lo guardai con occhi sgranati per la sorpresa. I suoi invece erano occhi ormai spenti, senza più la luce e l’irriverenza che avevano avuto fino a un momento prima. Smisi di sorridere. Lo sguardo arrogante che avevo visto negli ultimi giorni era sparito, il luccichio giocoso sostituito da un’oscurità tormentata. Socchiusi la bocca, mentre l’atmosfera cambiava.

    «Dovrebbero stare tutte lontane da me». Mentre parlava, la sua voce era appena più di un sussurro, e subito dopo si alzò e se ne andò.

    Non potei fare a meno di fissarlo per alcuni istanti prima di tornare a posare lo sguardo sul lavoro che avevo di fronte. Fui attraversata da un brivido, e intanto iniziavo a capire.

    In Nathan Thorne c’era molto di più di quello che appariva sulla sua facciata tirata a lucido.

    Capitolo 2

    Trascorsi le settimane seguenti a cercare di decifrare l’enigma Nathan Thorne, ma senza risultati. Dopo quei commenti che mi avevano turbata, era fuggito, tornando poco dopo come l’uomo che avevo conosciuto fino a quel momento. Con sguardi attenti, osservavo il modo in cui interagiva con gli altri, ma non c’era traccia del dolore che avevo visto sui suoi meravigliosi lineamenti.

    Qualunque cosa lo affliggesse, era ben nascosta dalla sua personalità carismatica e dal suo bell’aspetto. L’unica occhiata che mi aveva riservato mi teneva sveglia la notte. Che cosa strana da dire su un uomo come lui.

    Avrei dovuto preoccuparmi di più del fatto che stessi perdendo il sonno a causa di un uomo con cui non potevo andare d’accordo, e non potevo permettermelo, dato che già non dormivo molto, e che sarebbe diventato il protagonista di tutte le mie fantasie.

    «’Giorno», dissi trascinandomi e sbadigliando un venerdì, ultimo giorno della terza settimana di Nathan alla Holloway and Holloway.

    Non che stessi contando i giorni.

    «Caffè?», chiese, tendendomi una tazza.

    La osservai, poi fissai lui. «È avvelenato?».

    Ridacchiò: quel suono mi creò un lago fra le cosce. Stupido corpo che reagiva così a un uomo che non sopportavo.

    «No, Delilah. Appena fatto».

    «Mi stai lisciando per qualche motivo?», chiesi prima di prendere la tazza.

    «No. Ti ho vista entrare mentre stavo andando a prenderne una tazza per me. Visto quanto ne bevi, ho pensato che lo volessi».

    «Oh». Ero sbalordita all’idea che avesse fatto qualcosa di carino per me. «Scusa… Grazie».

    Gli sorrisi, per metà sincera e per metà guardinga. Per una frazione di secondo il suo viso si illuminò, poi comparve una smorfia.

    «Non dirlo a nessuno». Il suo sguardo tornò alla scrivania e alle carte che lo circondavano.

    Eccolo lì, sfuggente. Bloccò quello che avrebbe potuto essere un vero sorriso, per ragioni solo a lui note. Cos’era che mi aveva incuriosito di lui che, insieme a ogni nuovo dettaglio, mi lasciava senza fiato e col desiderio di saperne di più?

    Quella sera staccai alle sei, pronta per il weekend. Era stata una settimana lunga e scoraggiante, e avevo un disperato bisogno di bere qualcosa per rilassarmi. C’era un bar a pochi metri da casa mia che negli ultimi mesi avevo frequentato ogni finesettimana. «Ehi, Lila!», disse John, il barista, quando entrai.

    «Ehi, John!».

    «Si inizia con il solito?».

    Feci un cenno col capo, e si mise a preparare lo shot e il Long Island.

    Non ne avevo bisogno solo per rilassarmi, ma mi avrebbe anche aiutata a dormire un po’.

    «Settimana difficile?». Mi passò lo shot, poi mi preparò l’altro drink. «Ancora insonnia?».

    Tracannai il rum, facendo una smorfia a causa della gradazione. «Già. Mi sento come se mi si dovesse sciogliere il cervello».

    «Holloway non ti ha ancora mandato rinforzi?»

    «Sì, ha iniziato da qualche settimana, ma è una specie di idiota».

    Alzò le sopracciglia in segno di comprensione. «Che schifo. Almeno è bello?».

    Osservai John per un momento, chiedendomi se fossi caduta in qualche trappola. «Sì. È maledettamente eccitante e tutte le donne in ufficio gli vanno dietro nella speranza che ceda e, non lo so, che si tiri giù i pantaloni lì davanti a loro e glielo pianti dentro».

    Rise sotto i baffi, dandomi il Long Island. «Tutte le donne tranne te?»

    «Che vuoi dire?». Alzai le spalle. «Innanzitutto, è uno stronzo. Secondo, non avrebbe comunque alcun interesse per me, quindi perché disturbarmi a fare l’idiota?»

    «Tesoro, sei bella e sexy. Vorrei che tu riuscissi a vederlo da sola. Quando entri qui, tutti i miei clienti abituali vanno in fermento».

    «Sì, be’...», provai a dire. Non seppi cosa rispondere.

    John si allontanò per servire altri avventori, lasciandomi a sorseggiare il drink e a contemplare una partita sullo schermo della tv di fronte a me. Il suono della porta che si apriva non era raro, ma il brivido che mi correva lungo la schiena non era normale.

    «Posso avere una Dos Equis?», chiese il nuovo arrivato.

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