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Le ombre non lasciano tracce. La croce capovolta
Le ombre non lasciano tracce. La croce capovolta
Le ombre non lasciano tracce. La croce capovolta
E-book529 pagine7 ore

Le ombre non lasciano tracce. La croce capovolta

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Info su questo ebook

Afghanistan, zona di guerra, notte.

Il capitano Daniel Drago sta per entrare in azione. Appartiene a un commando speciale per operazioni di guerra non convenzionali che ha ricevuto l’ordine di eliminare un pericoloso capo talebano.

Lo scontro è cruento e alla fine la missione si rivelerà un insuccesso, così Daniel farà rientro a Roma per ricongiungersi alla donna che ama.

Per i due, però, le cose, stanno per prendere una piega orrenda. Sofia verrà brutalmente violentata da una banda di stupratori seriali e all’uomo non resterà altro che il corpo di lei e pochissimi indizi. Sarà l’inizio di una caccia senza pietà e quartiere.

Ma Roma non trova mai pace.

La città è allo stesso tempo sconvolta da un altro gravissimo fatto di cronaca nera: i corpi senza vita di due giovani donne vengono ritrovati in strada orrendamente mutilati. Addosso, gli inconfondibili segni di Satana.

Dopo il rapimento di altre ragazze e in un crescendo sempre più esplosivo di colpi di scena, Daniel e il vice sovrintendente Rebecca Rei si troveranno segretamente uniti a condurre le indagini.

Ma qualcosa continua a turbare la poliziotta. L’uomo porta con sé terribili segreti: segreti che non lasciano tracce.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2016
ISBN9788892604391
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    Anteprima del libro

    Le ombre non lasciano tracce. La croce capovolta - Luca Improta

    sempre

    Capitolo 1

    Base di Camp Arena – Herat – Afghanistan

    Settembre 2010

    «Svegliatevi, rammolliti!».

    Il tenente colonnello Ennio Pellegrini appariva come un’ombra nera in piedi sulla porta. Dalle sue spalle un fascio di luce si propagava all’interno della stanza illuminando le brande e il pavimento con fiamme bianche.

    «Ma che ore sono?», domandò uno dei militari girandosi sul fianco e sforzandosi di staccare la lingua dal palato e di aprire le palpebre che si erano incollate tra di loro.

    «Le due e quarantacinque», rispose asciutto l’ufficiale.

    «Cristo, comandante, siamo tornati dalla missione neanche due ore fa!».

    «Lo so, ma è arrivata una soffiata».

    Lui, fino a quel momento, non era riuscito a chiudere gli occhi per un solo minuto. «C’è giunta voce che il famoso predicatore talebano Abdul-Samad al-Balîgh abbia trovato riparo per la notte proprio da queste parti. E così gli scalda sedie hanno deciso di mettersi in mostra utilizzando i nostri bei culi abbronzati per andarlo a prelevare». Un sorriso parve affiorare dal contro luce, ma dovette trattarsi solamente di un riverbero.

    Nella stanza, intanto, era calata un’aria fredda e surreale. Si poteva udire il rumore dei tendini contrarsi e quello delle menti assorbire le parole come acqua da una cannuccia.

    «Come saprete, quest’uomo fa schiere di proseliti incantando le anime e le ragioni degli uomini più di quanto riuscissero le sirene di Ulisse. E da quel che si racconta, ha dimostrato in più occasioni di essere spietato almeno quanto loro. - Fece una pausa terminata la quale voltò lo sguardo - Sciacquati bene la faccia, Nostradamus, avrò bisogno di te».

    Il capitano Daniel Drago, nome in codice Nostradamus, scostò di lato il suo fucile d’assalto automatico Beretta ARX 160 e si tirò su rimanendo seduto sul bordo del letto. Strinse il viso tra le mani e si massaggiò gli occhi. Aveva compiuto da poco ventotto anni, ma era già considerato un veterano. Subito dopo il diploma si era iscritto al corso per Allievi Ufficiali di Complemento nel corpo dei paracadutisti e, dopo neanche dodici mesi, era entrato a far parte del reparto di elite del G.I.S., il Gruppo Intervento Speciale dei carabinieri. In seguito, fu aggregato alle squadre interforze che operano in territorio di guerra. Dapprima in Iraq, poi in Pakistan e, adesso, in Afghanistan.

    In realtà, neanche quello era il suo vero nome. Così com’era accaduto per tutti gli altri componenti del gruppo, il nominativo con cui risultava battezzato era nascosto a Roma, in qualche meandro protetto all’interno del Forte Braschi, la sede operativa del Sismi, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare.

    Daniel era nato per sparare, ma aveva innata una qualità che lo rendeva ancora più unico: in un ambiente ostile, riusciva sempre a percepire da quale direzione provenisse il pericolo. Nostradamus sapeva fiutare l’aria, leggere la polvere, ascoltare il silenzio, scrutare le menti. Come fosse stato investito di un potere divino, era in grado di andare oltre le cose e, soprattutto, di percepire in tempo l’odore acre della morte che le avvolgeva. Almeno così era stato fino a quel momento.

    «Sente puzza di trappola, comandante?», chiese Blu Ice dal fondo della stanza.

    «Come di zolfo nel profondo dell’inferno. Ci vediamo tra quindici minuti nella sala comando. Non abbiamo molto tempo prima che faccia giorno».

    La porta si chiuse davanti alle facce indurite che formavano il 1° commando Snakes, l’unità speciale italiana per operazioni di guerra non ortodossa. Erano tutti soldati, per lo più ufficiali e sottufficiali, addestrati oltre tutti i limiti a portare a termine operazioni non convenzionali: infiltrazioni in territorio ostile, eliminazioni mirate, sabotaggi, azioni dirette, antiterrorismo, attività ricognitiva. E, soprattutto, a non morire.

    Dopo poco più di dieci minuti il gruppo di fuoco era pronto.

    Le suole di gomma speciale degli anfibi da deserto si appoggiavano rapide e delicate sul pavimento del corridoio dell’edificio come se anche loro fossero state addestrate a non fare rumore, a ingoiarsi la sabbia che copriva ogni angolo di quella regione per non farla scricchiolare.

    Oltre alla camerata in cui dormivano, all’interno di quel caseggiato gli Snakes avevano a disposizione una sala ricreazione corredata di un grande televisore con antenna satellitare, un tavolo da ping pong e un calcio balilla, una cucina e una sala lettura con libri e computer. All’esterno, un altro edificio, in cui era stata approntata una sofisticata sala operativa, e un’ampia zona per l’addestramento e le esercitazioni in cui si poteva notare anche un poligono di tiro e una porzione di un finto villaggio afghano.

    Gli Snakes vivevano per lo più in quella zona isolata all’interno della base italiana di Camp Arena protetti da muri, recinzioni, cemento, reti mimetiche e grandi matasse di filo spinato. Difficilmente ne uscivano se non per compiere le loro missioni, e raramente si mischiavano agli altri soldati sempre che non fossero coperti dall’anonimato o dal loro inseparabile passamontagna in Nomex, una fibra resistente al calore e alle fiamme. Oltre a loro, pochissime persone, rigorosamente italiane, erano autorizzate ad accedere in quell’area, e un unico alto ufficiale: il comandante del RC-W (Regional Command West), il generale di brigata Lorenzo Davanzati. E quel generale, era l’unico soldato da cui gli Snakes potessero ricevere ordini.

    Entrarono.

    La sala comando era una stanza rettangolare di circa trecento metri quadrati e sembrava più che altro un bunker grigio e disadorno. Non c’erano finestre e i soli fori che interrompevano i ruvidi profili del cemento erano costituiti da un’unica porta d’ingresso e da alcune feritoie per il riciclo dell’aria protette con grate di ferro spesso. L’ampio tavolo ovale era collocato proprio di fronte all’entrata mentre, appeso alla parete opposta, spiccava uno schermo bianco di circa tre metri per tre. Alcune poltroncine, schierate in file da otto posti ciascuna, puntavano quella grande chiazza lucida mentre, alle loro spalle, si poteva notare un bancone ricolmo di computer, monitor e un video proiettore ad alta definizione fissato a un supporto metallico.

    «Conoscete tutti il maggiore Morelli, - disse il colonnello Pellegrini. - Il maggiore coordinerà l’operazione da qui. Non esistono uomini o mezzi dentro questa base che lui non conosca o che non siano passati da lui. A parte noi, ovviamente».

    Nessuno dei membri del commando salutò. Diffidavano di chiunque non facesse parte della squadra e non lo nascondevano.

    A un cenno del colonnello Pellegrini, un tecnico in camice bianco in piedi dietro la strumentazione spense i neon sul soffitto e digitò alcuni pulsanti. Come i primi raggi del sole in mezzo alla notte, il fascio di luce emesso dal proiettore fece brillare migliaia di granelli di polvere andandosi poi a schiantare sullo schermo riempiendolo d’immagini confuse e sfocate.

    A mano a mano che i tasti scorrevano sotto le dita dell’esperto informatico, le figure prendevano forma. Sembrava di sentire il satellite girare sopra le loro teste e avvicinarsi come un meteorite verso la terra fino quasi a entrare nell’edificio che adesso risaltava in primo piano davanti agli occhi di tutti. Era definito in ogni particolare. Si riusciva persino a intravedere il colore del pavimento attraverso una delle finestre aperte.

    Quelle immagini erano state catturate appena qualche ora prima, il sole era ancora alto.

    I quattordici membri della squadra speciale si sedettero senza dire una sola parola. Erano tutti nella tenuta da combattimento dello stesso colore del buio che li avrebbe dovuti proteggere. Appoggiarono i fucili d’assalto sopra le ginocchia e si concentrarono su quello che avevano davanti. Per loro, quell’arma rappresentava più di un fratello. Non se ne staccavano mai.

    «Dentro questi muri si nasconde il nostro obiettivo. Non sappiamo come sia strutturato l’interno e, purtroppo, non sappiamo cosa ci aspetti una volta entrati. Non c’è stato tempo per mettere sotto sorveglianza la casa, ma quello di cui siamo certi è che Abdul-Samad al-Balîgh non dorme mai per due notti di seguito nello stesso letto. Abbiamo una sola occasione».

    «L’informatore è fidato?». Le spalle di Big Bear andavano ben oltre le estremità dello schienale della poltroncina su cui sedeva e la sua voce sembrava provenire dal centro della terra.

    Nonostante la domanda fosse stata formulata in modo brusco, l’interrogativo rimase a galleggiare nell’aria per alcune frazioni di secondo, fino a quando il colonnello Pellegrini girò lo sguardo verso un gruppo di sedie alla sua destra.

    «Non lo sappiamo. - Il generale di brigata Lorenzo Davanzati rispose rimanendo immobile. Era una figura imponente nascosta dalla penombra. - Qualche problema?».

    Nessuno aggiunse niente.

    «Facciamo una panoramica della zona», ordinò il colonnello spezzando la coltre di silenzio che aveva riempito la stanza.

    Dall’immagine allargata si poteva osservare una piazza ovale circondata da una serie di casupole o palazzine dai colori tenui alte uno, due o al massimo tre piani. Alcune di queste avevano i muri sventrati dai colpi d’artiglieria mentre altre erano ingentilite dalla presenza di stretti porticati. In cima a ogni costruzione non si notavano tetti spioventi né tegole, solo enormi terrazze piatte.

    In una rientranza del piazzale, quasi isolata dal resto, la villetta che doveva ospitare il capo talebano si appoggiava su un terreno di sabbia mista a polvere. Era di un bianco immacolato e aveva persino un piccolo giardino recintato da un muretto che sembrava alto non più di un metro e mezzo. E qualche pianta.

    «Useremo mezzi di terra. - Il colonnello abbandonò la sua postazione e si diresse verso lo schermo. Stringeva una lunga bacchetta di legno tra le mani. - Ci fermeremo in questo punto, dove lasceremo la retroguardia a proteggere il nostro rientro e i mezzi per il recupero. Sarà formata da un gruppo d’incursori del Nono». L’ombra creata dalla punta di legno si era fermata in corrispondenza di uno slargo posto a circa un chilometro e mezzo a nord dell’obiettivo. Subito dopo, una bandierina rosso vivo comparve a demarcare il punto segnato dalla bacchetta.

    «Se ci dovesse servire aiuto, faremmo prima a chiamare i becchini per il nostro funerale», commentò Braveheart.

    Nessuno rise, Braveheart non stava affatto scherzando.

    «Dobbiamo mantenerci totalmente invisibili, non possiamo rischiare. Questa missione è top secret. Non è stata informata alcuna autorità locale, tantomeno il comando ISAF o gli americani. Ce la dovremo cavare da soli. In quest’operazione noi non esistiamo».

    «Sai che novità», rispose una voce del gruppo.

    Tutti i presenti conoscevano molto bene il significato delle parole appena pronunciate dall’ufficiale.

    Il colonnello ordinò al tecnico di ristringere di nuovo l’immagine.

    «Nostradamus, tu entrerai dalla porta insieme a Zio Charlie, Blu Ice e Van Gogh, noi, invece, penseremo a rendere impermeabile la zona. Horus, tu ti occuperai del retro insieme a Cochise, mentre noi ci disporremo lungo il perimetro della piazza che guarda l’edificio obiettivo. A quanto ci hanno riferito, non sembra ci sia qualcuno in appoggio là fuori, ma non mi fido. Le finestre sono protette da inferriate fisse e non dovrebbero costituire un problema, ma le terremo d’occhio lo stesso, non si sa mai».

    L’illustrazione del piano durò altri dieci minuti durante i quali ognuno diede il suo contributo. Il generale, invece, rimase muto per tutto il tempo. Neanche lui era autorizzato a partecipare alla fase operativa.

    Alla fine, il tenente colonnello Ennio Pellegrini riprese la parola accompagnando la voce con un gesto della mano rivolto al tecnico in camice bianco. «Questo che vedete, invece, è il nostro uomo. La foto risale a circa quattro, massimo cinque anni fa, ma riteniamo che non debba essere cambiato di molto, almeno stando a quanto riportato dalle nostre fonti, da quelle americane e dalla CIA».

    La testa del capo talebano era avvolta dal tipico turbante bianco. La pelle di un olivastro chiaro, era coperta da una barba lunga leggermente conica che presentava qualche sfumatura grigiastra qua e là. Gli occhi erano azzurri e freddi. Lo stesso freddo che sembrava uscire dai tratti somatici del viso. Nostradamus ne fotografò ogni centimetro quadrato.

    «E’ nato in Giordania circa quarantacinque anni fa da madre russa. A quanto si racconta una ballerina del Bolshoi entrata a far parte dell’harem dello sceicco Muslin bin Kamal al-Anwar. - Lasciò passare qualche istante e riprese. - Si è arruolato nelle truppe dei mujaheddin quando era poco più di un ragazzo. Con loro ha combattuto contro i sovietici in Afghanistan, poi, a metà degli anni novanta, si è unito ad Al Qaeda. Ama più le parole della polvere da sparo, ma sa usare molto bene entrambe le cose. In effetti, la traduzione del suo Laqab al-Balîgh è ‘l’Eloquente’. Bisogna stare molto attenti, non gira mai disarmato ed è sempre accompagnato da almeno due guardie del corpo».

    «Vivo o morto?», chiese Horus.

    «Al momento non c’è stata fatta alcuna richiesta particolare».

    Il colonnello Pellegrini diede un’ultima occhiata a quel viso impresso sulla tela lucida, poi respirò forte.

    «Il nome in codice dell’operazione è Black Run. Okay, è tutto, muoviamoci».

    Le ultime parole si schiantarono sul pavimento tracciando la linea oltrepassata la quale non si sarebbe più potuto tornare indietro ma, a quell’ordine, tutti i militari si alzarono senza mostrare la minima esitazione. Si calarono il passamontagna sul viso, sistemarono l’auricolare del laringofono e uscirono dalla stanza calpestando con noncuranza quel solco immaginario appena disegnato. Erano le tre e un quarto di notte. Una notte che avrebbe lasciato il segno nelle vite di tutti.

    Senza perdere un secondo, gli uomini arrivarono correndo ai confini esterni della loro zona, attraversarono il varco controllato da due militari armati e raggiunsero il piccolo convoglio di mezzi blindati. C’erano due Freccia con a bordo il pilota e due operatori in torre, e due Land Rover Defender AR 90 VAV (Veicolo Assalto Veloce). I motori accesi rompevano con regolarità il silenzio notturno. Un plotone di quattordici incursori del IX reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin, il famigerato Nono, e un ufficiale medico li stavano attendendo impazienti.

    Il colonnello Pellegrini ricevette il saluto del maggiore Donini che gli era andato incontro. Aveva il volto ricoperto da righe di trucco mimetico spesse e nere. Ricambiò il gesto portandosi con uno scatto la mano destra sulla fronte mantenendola tesa e rigida come una lama d’acciaio.

    I due comandanti si scambiarono poche parole e subito dopo ordinarono a tutti i militari di salire sui propri mezzi blindati che, a un cenno, si mossero come fossero una cosa sola.

    Il deserto che ora li divideva dalla città si mostrava come un oceano nero e silenzioso.

    I due VBM Freccia a otto ruote motrici si muovevano piuttosto spediti nonostante le quasi trenta tonnellate di acciaio con cui proteggevano gli occupanti del mezzo da colpi d’artiglieria leggera, schegge di granata, mine anticarro e dai micidiali IED, gli ordigni esplosivi improvvisati usati di frequente dalla guerriglia talebana. Una Land Rover del Nono li precedeva mentre l’altra occupava la coda del convoglio. Entrambe non avevano portiere né finestrini né parabrezza, ma all’interno del veicolo spiccava il kit WMIK (Weapon Mounted Istallation Kit) costituito da un pesante roll bar, telaio rinforzato e un supporto per le armi. Fissata a quest’ultimo, una mitragliatrice Browning Machine Gun calibro cinquanta, impugnata saldamente da uno dei paracadutisti incursori, scrutava minacciosamente le ombre scure sprigionate dal deserto.

    Nostradamus era seduto sul primo dei due Freccia. Lo sguardo era fisso sulla canna da dodici pollici del suo fucile Beretta che stringeva tra le ginocchia. Nonostante il frastuono dei cinquecentosessanta cavalli del motore, nell’abitacolo sembrava regnare un silenzio assoluto. Nessuno parlava, nessuno si muoveva, nessuno guardava. In quella fase di avvicinamento allo scontro, l’addestramento prevedeva che la mente dovesse raggiungere il suo più alto livello di concentrazione. Non c’era posto per nessun’altra cosa. Non per i ricordi, le fotografie, gli addii, le lettere, le preghiere. All’interno di quell’abitacolo, in cui otto sedili erano disposti frontalmente in due file da quattro, non c’era alcuno spazio che potesse essere riservato al cuore. I suoi battiti dovevano rimanere costanti, implacabili. Nella battaglia, la mente doveva essere lasciata libera di trovare la migliore soluzione senza che alcun elemento proveniente da dentro potesse creare disturbo. Quante volte gli addestratori avevano spinto quei soldati a sfiorare la morte misurandone i battiti cardiaci e facendo ripetere l’esercizio finché ognuno di loro avesse raggiunto il pieno controllo di tutti i suoi organi. E ciò che ora quegli uomini avevano davanti, era uno dei momenti per mettere in pratica tutto questo. Ognuno di loro doveva essere in grado di condurre l’istinto di sopravvivenza al suo stato supremo, per se stessi e per gli altri elementi del gruppo.

    Quando il viso di Sofia comparve nel riflesso nero dell’acciaio speciale del suo fucile, Nostradamus non se ne accorse. Quella notte si sentiva stanco. Sfidare a viso aperto la morte, alla lunga, può logorare le viscere.

    Lei sorrideva, un sorriso che ogni volta gli lasciava addosso una nuova, deliziosa cicatrice. Erano fidanzati da più di quattro anni ed erano passati sei mesi da quando si erano visti l’ultima volta durante una breve licenza. Il capitano Drago stava sentendo il richiamo di lei afferrarlo per le braccia e trascinarlo all’interno del vuoto che aveva davanti. Lo sguardo aveva cominciato a perdere la sua naturale direzione.

    «Tutto bene, Nostradamus?», chiese Thor notando qualcosa nell’espressione degli occhi che non riconosceva. O che forse riconosceva benissimo.

    «Sì, colonnello, va tutto bene».

    «Allora teniamoci pronti, tra cinque minuti raggiungeremo il punto di estrazione».

    I portelloni dei blindati si aprirono, e i due gruppi degli Snakes uscirono compattandosi tra le due grandi masse d’acciaio nero che occupavano un lato dello slargo. Nello stesso frangente, gli incursori si disposero a gruppi di tre unità lungo i punti cardinali sparendo all’interno delle tenebre con le armi cariche spianate davanti ai loro visori notturni monoculari fissati agli elmetti. Non c’era in giro anima viva.

    Quando tutti risultarono sistemati ai loro posti, il maggiore Donini diede il segnale di via a Thor e ai suoi uomini. Attese di vederli sparire e si precipitò all’interno del Freccia dal quale avrebbe fatto da ponte con il coordinamento del maggiore Morelli, l’ufficiale che, nello stesso istante, era in piedi nella sala comando davanti alla strumentazione, teso come una corda che sta per spezzarsi.

    Il commando si dileguò rapidamente lungo la via che portava verso sud. Correvano in formazione prestabilita, senza fare rumore, scrutando rapidamente qualsiasi cosa potesse nascondere un pericolo. Non c’era la luna, ma le stelle brillavano in un cielo sgombro di nubi fornendo grandi quantità di luce infrarossa a ottocentocinquanta nanometri, un grande nutrimento per i loro Litton AN/PVS-17, i visori a intensificazione di luce residua. Se all’occhio umano il paesaggio circostante sembrava avvolto da un immenso telo nero, all’interno del tubo moltiplicatore di terza generazione sembrava un giorno di sole pieno. Un sole verde.

    Il gruppo percorse la strada principale per sette o ottocento metri incontrando solo un paio di uomini in bicicletta che alla vista si dileguarono prontamente, poi svoltarono addentrandosi in una selva di stradine strette e polverose. Dovevano evitare in tutti i modi di indicare il loro possibile obiettivo alle sentinelle dei talebani.

    Faceva freddo. Tutto intorno ai militari aleggiava un silenzio surreale interrotto solo dai loro respiri affannati che s’infrangevano tra le maglie del passamontagna. Aveva piovuto di recente e l’umidità saliva verso l’alto con lenti sbuffi bianchi. Sembrava che le fiamme dell’inferno si fossero fermate poco sotto i loro anfibi neri. Sembrava che la Morte avesse dipinto quello scenario con le sue stesse mani.

    Thor alzò il braccio destro verso il cielo stringendo le dita in un pugno duro e subito dopo gli Snakes, come fossero un unico elemento, si disposero in un ampio cerchio intorno a lui con i fucili puntati in tutte le direzioni. Il comandante diede un’ultima occhiata alla mappa, la riavvolse e, senza dire una parola ordinò di ripartire.

    Ormai mancavano poche decine di metri. Alla fine della strada che stavano percorrendo, sul lato di destra, sarebbe comparso l’edificio obiettivo. Il gruppo di fuoco rallentò la sua marcia fino a fermarsi ad appena un isolato di distanza dalla piazza.

    Il maggiore Donini, intanto, seguiva l’operazione nel monitor del Freccia attraverso le immagini trasmesse dalla telecamera termica fissata sul caschetto di Van Gogh. Quelle stesse immagini venivano poi inviate in tempo reale a Camp Arena e proiettate sullo schermo della sala comando degli Snakes dove il maggiore Morelli e il generale Davanzati, che lo aveva appena raggiunto, erano, al momento, tesi spettatori.

    Il colonnello Thor si acquattò e sfilò come un felino lungo la parete dell’ultimo edificio raggiungendo l’ampio slargo. Nonostante i suoi uomini avessero orecchie addestrate ad ascoltare qualsiasi rumore, nessuno sentì nulla. Sembrava che il militare si fosse confuso tra le ombre e avesse camminato nell’aria. L’ufficiale si fermò per alcuni secondi scrutando con il suo visore ogni angolo, ogni anfratto che aveva davanti. Non c’era in giro nessuno. Sapeva che quella rappresentava la condizione ideale per quel tipo di operazioni, ma il suo sesto senso non lo lasciava tranquillo. C’era un silenzio minaccioso.

    Si sporse con la testa appena fuori dell’angolo del muro e vide la villetta. A differenza delle altre costruzioni che aveva accanto, sembrava integra come se la guerra non l’avesse neanche sfiorata, come se fosse appartenuta a un altro luogo o a una favola lontana da lì. Non mostrava segni di vita, né dentro né fuori.

    Tirò indietro la testa e con i suoi occhi che perforavano il buio come coltelli tra gelatina molliccia, eseguì ancora un rapido giro. Il tempo stava scorrendo impietoso nel quadrante dell’orologio. Bisognava decidere in fretta, il sole non sarebbe rimasto nascosto ancora per molto. L’operazione, ora, dipendeva solo da lui.

    Come previsto dal piano originario, Thor ordinò a due uomini di portarsi sul retro dell’edificio obiettivo e di mantenersi a distanza di sicurezza. Tutti gli altri rimasero immobili con il calcio del fucile appoggiato alla spalla, gli occhi puntati sui mirini e l’indice che premeva delicatamente sul grilletto. Non passarono neanche trenta secondi quando l’auricolare delle radio si attivò.

    «Horus a Thor, confermo posizione».

    «Noti qualcosa di sospetto, passo».

    «Negativo Thor. Qui non si muove niente».

    Con dei gesti della mano, ordinò agli altri uomini di disporsi a coppia ai vertici di un quadrilatero immaginario posto di fronte alla villetta. Il comando fu eseguito prima che le lancette dei secondi terminassero un unico giro.

    «Qui Thor, datemi conferma».

    «Big Bear okay».

    «Black Arrow okay».

    Le rimanenti convalide arrivarono poco dopo. Era giunto il momento di entrare in azione.

    Il colonnello si voltò verso Nostradamus.

    «Io e Doctor ci disporremo su questo lato», disse sottovoce avvicinandosi all’orecchio di lui. «Non appena riceverete il segnale, vi andrete ad appostare sull’obiettivo e, una volta pronti, vi darò il via».

    Thor porse il pugno in segno di saluto.

    «Voglio portare via il culo da qui il più velocemente possibile. Buona fortuna».

    Nostradamus ricambiò il gesto senza aggiungere una parola. Aspettò di vedere le schiene del comandante e di Doctor sparire dietro l’angolo alla sua sinistra e si ricongiunse al suo gruppo di fuoco. Il tempo sembrò fermarsi di colpo e il silenzio tornò a rivestire ogni cosa con una patina talmente spessa che ognuno di quegli uomini poteva sentire distintamente i battiti del proprio cuore uscire dalle mani e infrangersi sul metallo dei loro fedeli fucili d’assalto facendolo vibrare. Una vibrazione lenta e costante.

    Senza perdere un secondo, la squadra si mise in posizione avvicinandosi al margine della strada e accovacciandosi in attesa del comando.

    «Thor a Nostradamus... - La sospensione rimbombò trepida all’interno dell’auricolare. - Ora!».

    I Serpenti scivolarono via mischiandosi alla terra dura e alla sabbia che li circondava, raggiunsero i confini della villetta, scavalcarono il muretto di cinta e si disposero ai due lati della porta. In tutto erano passati appena una ventina di secondi, un tempo di cui il mondo non si accorse nemmeno.

    Appena in posizione, Zio Charlie appoggiò il suo microfono a muro ad alta potenza alla parete. Dall’interno non proveniva nessuna voce o rumore, probabilmente gli occupanti stavano dormendo. Alzò il pollice verso l’alto in modo tale che tutti gli altri elementi del commando lo potessero scorgere, poi si scansò facendo passare Blu Ice. Impugnava un ariete per sfondare la porta. Pesava circa sedici chilogrammi ed era in grado di sprigionare un’energia cinetica all’impatto di oltre seimilatrecento chili.

    Nostradamus gli rivolse un gesto d’assenso, poi tirò su la mano aperta. Era tutto pronto. Adesso mancava solo il comando finale.

    Capitolo 2

    Nella piazza alla periferia nord di Herat c’erano ombre invisibili celate tra le crespe sabbiose della notte. Il comandante Pellegrini fece ancora un giro con il visore notturno verificando che non gli stesse sfuggendo qualcosa. Con l’occhio libero dalla lente diede un’ultima occhiata al cielo ancora nero, poi si decise.

    «Thor a Freccia Uno, stiamo per irrompere».

    «Okay Thor, vi aspettiamo a braccia aperte».

    Il generale Davanzati strinse le spalle in un gesto nervoso come se il brivido che gli aveva appena attraversato la schiena fosse stato formato da ghiaccio affilato.

    «Qui Thor a Nostradamus, mi senti?».

    «Forte e chiaro».

    Il respiro risultava appena accelerato. Strinse l’impugnatura del suo Beretta d’assalto portando l’indice a premere il grilletto fino al limite. Sentì il metallo cedere delicatamente alla pressione. Si fermò. Tutti gli uomini della squadra accesero l’illuminatore infrarosso di cui era dotato il loro Litton che gli avrebbe permesso di vedere anche in completa assenza di luce normale o di quella infrarossa emessa dalla luna, dalle stelle o dalle foglie degli alberi.

    « Tenetevi pronti, Black Run sta per avere inizio. - Il comandante Thor fece ancora una pausa microscopica che sembrò durare in eterno, poi respirò forte. - Back alive!».

    Era il comando.

    L’ariete serrato tra le mani di Blu Ice si schiantò sulla serratura della porta e, nell’istante successivo, Van Gogh gettò all’interno dell’abitazione una granata flashbang che scoppiò immediatamente provocando un boato e una luce intensissima. Zio Charlie, appena dentro, esplose due colpi con la sua Hecler & Koch MP5 con silenziatore intergrato e puntatore a infrarossi che centrarono in piena testa i due uomini sdraiati sopra un tappeto di fronte all’entrata. Non avevano fatto in tempo neanche a sfiorare i loro fucili.

    Nostradamus e Blu Ice si portarono dietro l’unica porta chiusa che si trovava in fondo a sinistra rispetto all’entrata, mentre gli altri due Snakes procedettero all’ispezione della villetta iniziando da destra e procedendo in senso antiorario. Dopo pochi secondi, da dietro una tenda sbucarono due bambini e una donna condotti da Van Gogh sotto la minaccia del suo fucile. Avevano gli sguardi impauriti rivolti verso il pavimento. Il viso delicato di lei sembrava essere uscito direttamente da un quadro.

    Gli altri vani risultarono liberi, adesso mancava solo un’ultima stanza.

    Gli uomini si diedero una rapida occhiata, poi Blu Ice, senza esitare, sfondò con un calcio il legno che li divideva dalla camera. Nostradamus si gettò al suo interno con il fucile spianato davanti agli occhi. C’era una persona sdraiata su un letto.

    «Non ti muovere ». L’ordine era stato pronunciato in inglese.

    Si tirò su il visore notturno e accese la torcia coassiale fissata alla canna del suo fucile. Il fascio di luce si propagò colpendo in pieno il volto dell’uomo.

    Il militare ne approfittò per fissarlo. Sebbene i tratti somatici sembrassero molto simili al suo ricordo, sentiva che c’era qualcosa che non tornava, che ci fosse qualche elemento che gli stava sfuggendo.

    Dove sei? si chiese tra sé.

    Ma il tempo a sua disposizione era scaduto. Non ne aveva più. Non ne aveva mai.

    Così come la procedura standard gli imponeva, stava per premere il grilletto, quando il suo sesto senso glielo impedì tenendogli il dito immobilizzato. Nonostante gli sforzi prodotti, non riusciva a piegarlo di un solo millimetro. Sembrava essersi trasformato in un blocco di marmo.

    «Dove cazzo sei? – ripeté. - Fatti vedere, figlio di puttana!».

    Diede una rapida occhiata alla stanza. Era vuota, non c’era mobilia. Il letto era coperto da un telo finemente ricamato che scendeva sui lati fino a coprire alcune mattonelle del pavimento, e un vecchio fucile se ne stava appoggiato sotto la mensola della finestra. Non c’era nient’altro.

    « Tu non muovere un muscolo», ribadì.

    L’uomo teneva lo sguardo fisso rivolto verso i piedi. Non l’aveva spostato quando avevano abbattuto la porta né quando il fascio di luce gli aveva ferito gli occhi.

    Era completamente vestito, con le mani sovrapposte tra loro, appoggiate al corpo all’altezza del cuore, immobile.

    Nostradamus strizzò gli occhi. Quell’uomo stava muovendo le labbra in maniera quasi impercettibile.

    Lo fissò più forte che poté. Il suo sesto senso continuava ad agitarsi dentro di lui come un oceano durante una tempesta mentre il dito sul grilletto continuava a rimanere rigido.

    Che cazzo succede?! si domandò cercando disperatamente una risposta dentro e fuori di sé.

    Perché questo figlio di puttana era vestito come se ci stesse aspettando?

    Perché la stanza era vuota?

    Perché i bambini erano usciti dalla casa e stavano chiamando, piangendo, quella che doveva essere la loro madre?

    Perché il letto aveva tutta l’aria di essere la sua cazzo di bara? Perché quell’uomo stava pregando?

    Perché, pur somigliandoci, non era quello il viso che stavamo cercando?

    Domande.

    «Tutti fuori è una trappola!». Nostradamus urlò più forte che riuscì catapultandosi contemporaneamente verso l’esterno della stanza.

    Zio Charlie e Van Gogh, che aspettavano vicini alla porta d’ingresso, schizzarono fuori dall’edificio sollevando di peso i ragazzini e portandosi il più lontano possibile dalla costruzione, mentre Blu Ice, che aveva assistito alla scena protetto dallo stipite della porta, raggiunse il giardino gettandosi con un tuffo di là dal muretto di recinzione. Nostradamus, dopo uno scatto furibondo, era quasi riuscito a guadagnare l’uscita quando la donna gli si gettò addosso urlando e tentando di bloccare la sua corsa. Colto di sorpresa, sentì le unghie di lei trapassare il tessuto della mimetica all’altezza delle gambe e forargli la pelle. Erano intrise d’odio.

    Daniel, però, nella situazione in cui si trovava, non poteva fermarsi né preoccuparsi di lei. Doveva assolutamente uscire da lì.

    Istintivamente la colpì forte in testa con il calcio del suo fucile per ben due volte finché la donna cadde in terra liberandolo dalla stretta. A quel punto non gli rimaneva che scavalcarla e precipitarsi verso l’esterno dell’edificio.

    Nello stesso istante, la preghiera terminò. Il vecchio rimasto nella stanza fece scivolare le braccia lungo i fianchi del letto, l’identico movimento che avrebbe eseguito in maniera naturale se qualcuno gli avesse sparato. I fili elettrici legati ai suoi polsi si tesero, il detonatore si attivò e la cassa di tritolo sotto di lui esplose in un boato assordante facendo scomparire ogni traccia della villetta e della carne dell’uomo. Appena un attimo prima, la donna era riuscita a rizzarsi sulle ginocchia. Sembrava frastornata, lo sguardo delicato perso all’interno della propria morte.

    Come la lama affilata di una sciabola, la violenta onda d’urto le staccò di netto la testa dal collo scagliandola in aria fino a farle raggiungere il centro della piazza. Quando smise di rotolare era ancora avvolta dal velo fissato ai suoi lunghi capelli raccolti. Le lacrime di quegli occhi scuri senza più vita si erano mescolate alla terra e alla sabbia.

    Come in un assurdo gioco del destino, il viso della donna si era bloccato a guardare cento metri più indietro il suo corpo che ancora resisteva in posizione verticale per poi cedere e crollare inerte sul pavimento.

    Era una combattente, e lei e suo padre erano stati scelti per portare a termine il piano contro i militari italiani. Gli altri erano morti senza nemmeno sapere il perché.

    Non appena sentì il ruggito dell’esplosione, Nostradamus si lanciò in un tuffo disperato per cercare protezione nel muro di recinzione, l’unica cosa che in quel momento avrebbe potuto salvargli la vita.

    I detriti ci misero diversi secondi prima di cessare di cadere in terra come pezzi di meteorite lanciati da un dio diventato furioso.

    Blu Ice tirò su la testa.

    «Cristo santo!, - esclamò avventandosi tra le macerie che ricoprivano il corpo di Nostradamus. - Stai bene, fratello? Rispondimi cazzo!». Le mani si agitavano insieme alle parole come le ali di una libellula ferita. Passarono alcuni secondi interminabili, poi, finalmente, l’uomo disteso aprì gli occhi.

    «Come ti senti? Stai bene?».

    «Sì, …credo di si. - Mosse a fatica le gambe e le braccia. - Sono un po’ rintronato, ma dovrei avere ancora tutto attaccato».

    «Fanculo! Mi hai fatto prendere uno spavento del cazzo».

    «Qui è Thor, com’è la situazione? Passo». L’auricolare della ricetrasmittente gracchiò dentro le orecchie di entrambi.

    Blu Ice, prima di rispondere porse il pugno al militare ancora in stato confusionale.

    «Back alive?».

    «Back alive», rispose Nostradamus.

    «Sì, tutto bene comandante, rientriamo in posizione. Copriteci».

    I quattro militari, intanto, erano stati raggiunti da Horus e Black Arrow che avevano atteso qualche minuto prima di muoversi dalle loro posizioni alle spalle di quel cumulo fumante di mattoni anneriti in cui si era trasformata la graziosa villetta. Subito dopo si diressero tutti insieme verso la stradina da cui avevano iniziato l’attacco. Ma non era ancora finita.

    Quando la raffica della mitragliatrice seguì il fascio di luce di un proiettore da ventimila watt che aveva improvvisamente illuminato la piazza a giorno, lo sparuto gruppo di uomini si trovava allo scoperto. Non fecero in tempo neanche ad alzare la testa che una serie di raffiche di Ak-47 Kalashnikov, provenienti dal palazzo accanto, si aggiunsero alla prima susseguendosi in rapida successione e abbattendosi sulla terra a pochi centimetri dai loro anfibi.

    «Cazzo! Ci stanno sparando da quegli edifici a ore tredici!», urlò una voce davanti a loro.

    Nostradamus e gli altri si gettarono sul terreno cercando riparo ovunque ve ne fosse, trascinandosi dietro i bambini.

    «Mi hanno colpito! Porca puttana quegli stronzi mi hanno beccato!».

    Black Arrow cadde a terra portandosi le mani su entrambe le gambe. Oltre i pantaloni mimetici, la carne si era lacerata come un foglio di carta velina trapassato da una punta di metallo rovente e affilata come un rasoio. Un foglio che ora grondava sangue da tutte le parti.

    «Non riesco a muovermi, cazzo!».

    Una volta che la luce gli aveva staccato di dosso quei pezzi di buio che lo rendevano invisibile, Black Arrow si era trasformato in un bersaglio perfetto. Non sarebbe rimasto in vita ancora molto a lungo.

    «Big Bear, fai saltare quel faro di merda!», urlò Thor dal microfono del suo laringofono.

    Il comandante non arrivò neanche alla metà della frase che tutti gli Snakes si erano inginocchiati rispondendo con le loro armi al fuoco nemico, cercando così di proteggere quell’uomo disteso a pochi metri da loro. La reazione fu talmente furiosa e precisa da costringere gli uomini armati che avevano di fronte a rintanarsi nell’edificio. Purtroppo, però, non riuscì a sortire lo stesso effetto contro la mitragliatrice al secondo piano del palazzo che si trovava di lato. Era ben protetta da sacchetti di sabbia disposti a semicerchio, e non cessava di vomitare piombo.

    Tra quel rumore infernale, Big Bear stava terminando di armare il suo Instalaza C - 90 del tipo ‘usa e getta’, mentre Black Arrow scioglieva il laccio emostatico legato al cuoio degli anfibi per stringerlo forte attorno alla gamba destra, poco sopra il ginocchio. In quei pochi, impercettibili movimenti, quest’ultimo stava tentando contemporaneamente di arrestare l’emorragia, di stringersi all’interno del suo giubbotto antiproiettile e del suo caschetto in kevlar e di scomparire tra le zolle di terra. Non gli era rimasto più nient’altro che potesse fare per rimanere vivo, solo urlare o pregare o entrambe le cose.

    «Sbrigatevi porca puttana o finisce che ci rimango secco!».

    Non se ne era accorto, ma perdeva sangue anche da una spalla, mentre il flusso ematico che fuoriusciva dalla gamba sinistra sembrava essersi quasi arrestato. Chiuse gli occhi. La pioggia di pallottole pesanti che stava deturpando il suolo intorno a lui odorava sempre più di morte e sempre più da vicino.

    «Big Bear sbrigati, cazzo!».

    Il militare sembrava non ascoltare. Fece scendere il silenzio intorno a sé, baciò il tubo di resina rinforzata del suo lanciarazzi, lo appoggiò sopra la spalla destra, lo strinse con forza, poi prese con cura la mira e premette il meccanismo di scatto.

    «Tanto quello stronzo non sa sparare», sussurrò tra sé.

    Il proiettile anticarro partì in un sibilo disegnando una scia di fumo bianco che attraversò la piazza per poi schiantarsi dritto contro il faro e la postazione della mitragliatrice, spazzando via ogni cosa e spargendo tutto intorno brandelli di carne sanguinante e di metallo. A quell’esplosione, un gruppo di uomini si lanciò di getto verso Black Arrow afferrandolo per le spalle e trascinandolo al riparo di un fabbricato pericolante. Era conciato male ma non sembrava in pericolo di vita.

    «Vaffanculo!», imprecò tra il dolore liberando tra quelle lettere tutta la tensione accumulata in quei lunghissimi secondi passati sopra quella sottile linea che divide la vita dalla morte.

    «Fanculo!», ripeté.

    Ora tutti gli Snakes erano al riparo e i colpi dei fucili automatici cominciarono a diventare sempre più radi. L’effetto sorpresa era venuto meno e i contendenti avevano bisogno di riorganizzarsi.

    Doctor approfittò di quella strana pausa per avventarsi sul corpo sdraiato del militare e, dopo aver verificato che una delle pallottole era rimasta conficcata tra le carni, e aver eseguito i primi frettolosi medicamenti, gridò di dover portare via il ferito. Un’ogiva di piombo senza alcun rivestimento speciale aveva forato il giubbotto antiproiettile all’altezza del cuore rimanendo piantata nel Kevlar. La estrasse guardandola da vicino. Era completamente deformata dall’urto. Sembrava uno schifoso chewing gum masticato.

    «Hai avuto fortuna, ragazzo», disse guardandolo negli occhi fieri e voltando subito dopo lo sguardo verso il colonnello che rispose con un gesto di assenso.

    «Qui Thor a Freccia Uno, rispondete, passo».

    «Qui Freccia Uno, ti ascolto».

    «Maggiore, dobbiamo evacuare un ferito e riportarlo alla base».

    «Affermativo, comandante. Vi mando le due Rover con una squadra dei miei incursori a protezione».

    «Okay, Freccia Uno, attenderemo il vostro arrivo e una volta caricato Black Arrow, procederemo a stanare quei bastardi».

    «Colonnello, saremo costretti a far rientrare anche i mezzi per il vostro recupero. Dopo tutto questo casino, non possiamo lasciare i blindati in territorio ostile senza l’adeguata protezione di tutti i miei uomini. Non è per nulla sicuro».

    «Vorrà dire che dovrai scomodare un HH-47 per farci portare le chiappe lontano da qui».

    «Okay, rimarrò con una squadra ridotta a presidiare la zona d’atterraggio. Back alive».

    Non appena chiuse il contatto radio, Thor sentì i gipponi giungere ai margini della strada principale. Comandò il trasporto del ferito e chiamò a sé Nostradamus. Nonostante qualche raffica sporadica, la situazione sembrava paradossalmente tranquilla.

    «Sono certamente insurgens in cerca di riconoscenza da parte di qualche potente capo talebano. Deve essere una banda ben organizzata. Prepariamoci ad attaccare». Il tono, però, stavolta pareva incerto.

    «Qualcosa non ti convince, comandante?».

    «Dopo aver attraversato l’inferno, sembra che tutto sia diventato fin troppo semplice. Protetti da quei porticati, possiamo raggiungere l’edificio senza che siano in grado di spararci addosso un solo colpo. Sono certo che stiano architettando qualche altro tranello. Metti i due cecchini sopra i tetti del lato ovest e dì loro di sparare a qualunque cosa si muova dalla parte opposta, fosse anche un gatto o una vecchietta che va a stendere i panni».

    Al comando, Ares e Cochise si arrampicarono lungo la corda che penzolava dalla cima dell’edificio ben fissata a un rampone lanciato con una balestra. Trascorsi alcuni secondi, i due soldati erano già in posizione distesa, con i loro fucili di precisione BCM Europearms Extreme STD calibro trecentotrentotto Lapua Magnum appoggiati sul bipiede. All’unisono inserirono il colpo in canna.

    «Andiamo», ordinò Thor in modo perentorio.

    Tutti i componenti della squadra speciale si mossero come un’unica ombra galleggiante nella notte. Ognuno di loro sentiva il sangue mischiarsi all’adrenalina e scorrere forte dentro le vene. L’aria era scura e umida.

    Non avevano percorso più di venti passi quando udirono due colpi di fucile partire contemporaneamente sopra le

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