Caccia all'uomo
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Anteprima del libro
Caccia all'uomo - Jale Poljarevius
Caccia all'uomo
Translated by Giorgio Berardi
Original title: Jakten
Original language: Swedish
Copyright ©2020, 2023 Karl Eidem and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788726874358
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
"Desperado, why don’t you come to your senses?
You been out ridin’ fences for so long now
Oh, you’re a hard one
But I know that you got your reasons
These things that are pleasin’ you
Can hurt you somehow"
Desperado
, The Eagles
Introduzione
Era il culmine dell’estate, e sopra Stoccolma splendeva il sole. Gli alberi si muovevano con indolenza nella brezza tiepida, e l’aria si sentiva a malapena. Le foglie erano ferme. Neanche gli uccelli avevano l’energia per cantare. Era la quiete prima della tempesta, quello strano breve momento di irrealtà che precede l’esplosione di un qualcosa di realmente caotico. Il momento in cui la natura fa i suoi preparativi.
Hannah Kaufman, commissaria della Polizia di Stoccolma, osservava con il binocolo i lotti degli orti comunali sottostanti dal ponte ferroviario. La casetta nel campo visivo era color verde militare e aveva gli stipiti delle finestre rossi. Una graziosa scaletta di legno dava accesso alla porta d’ingresso rossa. Il colore del capanno le ricordò il verde chiazzato del vomito. Alla sua destra, oltre i binari, si ammassavano i condomini del quartiere di Tanto. Dietro quegli edifici dalla caratteristica pianta arcuata si estendeva il blu scuro della baia di Årsta. Sarebbe stata una giornata d’estate memorabile. O no?
Anche la calma che regnava fra gli orti era ingannevole. Il capanno verde militare era circondato da incursori delle forze speciali di polizia, o FSP, che si tenevano fuori vista e che avevano iniziato la loro operazione alle prime ore di quella mattina. La termocamera della polizia aveva confermato che all’interno delle pareti si muoveva un essere vivente. Là dentro batteva il cuore di qualcuno. L’operazione non sarebbe dovuta iniziare prima che tutti fossero al loro posto e tutte le vie di fuga fossero bloccate e sorvegliate. Agli accessi del perimetro esterno del complesso orticolo erano stati piazzati degli sbarramenti non troppo appariscenti.
Alle spalle di Hannah, sul ponte, passò un treno. Gli occupanti delle casupole adiacenti erano stati avvertiti in vari modi e avevano potuto lasciare il posto uno dopo l’altro. L’assalto si stava avvicinando, ma gran parte degli abitanti di Södermalm non ne aveva alcun sentore, e continuava invece a godersi il calore e il piacere dell’estate, per quanto sarebbe durato. In Svezia, dove i mesi autunnali e invernali erano lunghi, freddi e bui, bisognava sfruttare al meglio le giornate come questa.
Erano più o meno le undici di mattina e le forze speciali avevano appena incominciato l’ultimo conto alla rovescia per l’intervento. Questa volta a Hannah non era permesso partecipare direttamente all’operazione. La sua richiesta in proposito aveva cozzato contro il rifiuto della direzione operativa, e così ora si ritrovava sul ponte di Årsta, con il binocolo, a circa trecento metri dalla casetta in mezzo agli orti in cui si sospettava che fosse nascosto il terrorista Aslan Basayev. I lunghi capelli le ricoprivano le spalle. Era furiosa. Le indagini degli ultimi giorni avevano praticamente confermato la presenza del terrorista. Praticamente. Attorno al capanno sarebbe stato avvistato qualcuno che rispondeva alla descrizione. Accanto a lei, sul ponte, c’era un pilota di droni, un cosiddetto operatore UAS¹. Aveva preso una posizione così elevata per avere contatto visivo col drone e dirigerlo verso l’obiettivo. Per mezzo di un piccolo e maneggevole monitor poteva ricevere le immagini riprese dal drone.
«Guarda!» le disse, tenendo su con orgoglio lo schermo che mostrava la casetta ripresa direttamente dall’alto. Anche il tetto era verde. Il drone non emetteva alcun suono. Aleggiava nell’aria come un’aquila intenta a osservare la preda. Hannah avvertiva un malessere crescente. Le si stava serrando lo stomaco. Si guardò attorno, preoccupata. Per non tradire la presenza delle forze d’intervento al terrorista, si era intenzionalmente lasciato che alcune attività civili continuassero a svolgersi nella zona. In distanza passeggiavano i padroni di un paio di cani. Due poliziotti travestiti con abbigliamento da jogging passarono di corsa, facendo un cenno con la testa verso Hannah. Lei accese la radio e udì subito il traffico di comunicazioni in corso fra gli incursori e la centrale di comando. L’assalto si avvicinava. La quiete prima della tempesta sarebbe presto finita. Se lo sentiva. I sensori avevano captato dei segni di movimento all’interno della casetta. Qui non si dovevano fare errori. Il terrorista non doveva sfuggire ancora una volta. Sarebbe stato un insulto.
«T meno sei. Sono tutti ai loro posti? Passo».
Restavano sei minuti. Trecentosessanta piccolissimi secondi. Il cuore le batteva sempre più forte.
«Tutti in posizione. Abbiamo le immagini dal drone sopra la casa. Passo».
«Lasse-Maja è sul posto? Passo».
«Non lo sappiamo, ma si pensa di sì. In questo momento in particolare, la termocamera non registra attività. Potrebbe essere addormentato. Sembra gli capiti spesso di dormire di giorno. Passo».
Il nome in codice attribuito al terrorista per il traffico radio criptato era Lasse-Maja. Il vero Lasse-Maja era stato un ladro svedese che, stando alla leggenda, si travestiva da donna per non essere scoperto. Era un parallelismo con i capelli tinti di biondo di Aslan, che gli avevano permesso di passare inosservato. Lasse-Maja. Il quadro risultante dalle indagini degli ultimi tempi era che il terrorista avesse invertito il giorno e la notte. Dormiva durante il giorno ed era attivo di notte, quando scompariva all’improvviso. Faceva la spesa nei rari negozi aperti di notte in Hornsgatan, nel quartiere di Hornstull. Faceva delle lunghe passeggiate per la città deserta. Nessuno sapeva da quanto tempo andasse avanti con quel genere di vita. Non vi era nemmeno la certezza assoluta che fosse davvero Aslan Basayev. In quell’estate non mancavano a Stoccolma i giovani dall’aspetto straniero che stavano a zonzo senza tanti mezzi di sostentamento. Le istruzioni della polizia erano di procedere cautamente e di evitare uno scandalo. Era meglio investigare un giorno di troppo piuttosto che un giorno di meno.
Stando all’ultima immagine disponibile di una telecamera di sorveglianza, l’uomo noto come Aslan Basayev aveva lasciato l’Ospedale Pediatrico Universitario circa una settimana dopo l’attentato che vi si era svolto. Con fredda sfrontatezza si era evidentemente nascosto nell’edificio fino alla conclusione dell’incursione della polizia, e poi se n’era andato. Nel tempo in cui si era mantenuto invisibile si era evidentemente tinto i capelli di biondo. La polizia aveva trovato un flacone di acqua ossigenata in una grande unità di ventilazione posta nella sala del sottotetto. Era lì che si era tenuto nascosto per tutto il tempo?
«T meno quattro» gracchiò la radio. «Ripeto. T meno quattro. Passo».
Sembrava che dall’aggiornamento precedente fosse passata mezz’ora, non due minuti. Il tempo procedeva strascicato e indolente, come il sudore sulla schiena di Hannah.
Tutti i partecipanti all’operazione confermarono di essere pronti e in posizione. Se si trattava di lui, perché aveva scelto un nascondiglio così vicino al luogo del reato? La cosa pareva morbosa. Perché non si trovava il più lontano possibile dall’Ospedale Pediatrico Universitario? Anche questo non lo sapeva nessuno. Avevano interrogato ripetutamente suo fratello Hassan, che si era rifiutato di tradirlo. Aveva detto di non sapere nulla e di non approvare le attività sovversive di suo fratello. Hannah non gli aveva creduto. Ma a cosa serviva? Se non voleva parlare, poteva benissimo evitare di farlo. Mancavano del tutto mezzi coercitivi efficaci.
«T meno due».
All’improvviso il tempo si fece più compatto, e il campo visivo si trasformò in un mirino telescopico. L’unica cosa che la vista percepiva era la casetta in mezzo agli orti. Si contavano i secondi, che quasi diventavano visibili, come fette di tempo. L’operatore UAS si concentrò, con i tratti del volto che sempre più tesi. Se il terrorista avesse tentato di fuggire, sarebbe stato compito suo seguirlo col drone, il rapace d’acciaio. I pensieri di Hannah cessarono di sfarfallare. Udiva il proprio respiro e sentiva il cuore che le palpitava. Il pilota aveva l’espressione di una sfinge.
Infine, quando arrivò, l’esplosione scosse tutta la zona. Un incursore vestito di nero si precipitò verso il capanno e diede uno strattone alla porta, che si aprì subito. Perché la porta non era chiusa a chiave? Hannah strizzò gli occhi e cercò di vedere meglio nel binocolo. Attraverso la porta della casetta furono gettate all’interno due granate stordenti, nello stesso momento in cui uscivano allo scoperto altri incursori. Nel binocolo, Hannah vide il resto della squadra di uomini vestiti di nero che circondava la casupola. Le folate di fumo generate dalle granate riempirono lo specchio della porta e cominciarono a ostacolare la vista. Qualcuno lanciò un grido forte, e ci furono alcuni spari. Altri ne seguirono. Poi subentrò un prolungato silenzio. L’avevano neutralizzato? Altri poliziotti avanzarono velocemente dentro la casetta e sparirono nel fumo. D’un tratto le parve di aver visto un gatto che usciva a razzo e scompariva. O se l’era immaginato? Trattenne il respiro.
La radio gracchiò di nuovo.
«Negativo» disse la voce. «Lasse-Maja è sgusciato via. La casa è vuota. L’abbiamo mancato. Passo».
Hannah sentì l’aria che fuoriusciva dal suo corpo, proprio come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Avevano sprecato la loro chance. Avevano aspettato troppo. La beffa non era più un rischio incombente. Era un dato di fatto.
«Cazzo!» imprecò ad alta voce. «Merda! Quello stronzo è scappato ancora. Perché ci avete messo così tanto a intervenire?».
Il pilota del drone non rispose, ma anche lui aveva un’espressione di frustrazione.
«Non sappiamo neanche se fosse davvero lui» disse con tono di scusa. «Vedremo. Lo sapremo col tempo».
Hannah sbuffò al ragionamento diplomatico del collega.
«Il tempo… Di tempo non ce n’è».
Lui sollevò le spalle.
«Dai, fa’ un altro giro col drone!» gli disse. «Potrebbe essere benissimo nei paraggi. Cerca di trovarlo!».
L’operatore UAS non era sottoposto gerarchicamente a Hannah Kaufman in alcun modo: lui rispondeva alle forze speciali di polizia. Però qualcosa nella voce della collega lo indusse ad eseguire l’ordine senza obiettare. Il drone si alzò rapidamente in aria, e sullo schermo le casette si moltiplicarono, rimpicciolendosi al tempo stesso. Nel frattempo, dal capanno obiettivo dell’operazione continuava a fuoriuscire il fumo.
«Ci vuole osservare» disse Hannah. «A tal punto è squilibrato. Vedi niente?».
«Silenzio! Sto provando a concentrarmi. Guarda anche tu!».
Si piazzò più vicino a lei, così che entrambi potessero osservare lo schermo. Ora il drone era a una cinquantina di metri d’altezza e cominciava a essere difficile distinguere ciò che accadeva a livello del suolo. Fuori dai transennamenti della zona avevano già cominciato a raccogliersi i primi curiosi. Presto sarebbero arrivati i quotidiani della sera. Nelle comunicazioni via radio si stava discutendo dei passi successivi per gli incursori. Il drone continuò a salire e la sua telecamera fece una panoramica sulla baia di Årsta e sui tetti dei palazzoni del vicino complesso di Tanto.
«Cos’è quello?» chiese Hannah all’improvviso.
Il collega fece una lenta zumata. «Cosa vuoi dire?».
Hannah aprì un canale radio, in modo che tutti potessero sentire.
«C’è un individuo sul tetto oltre quel boschetto che osserva col binocolo la situazione dell’assalto. È dei nostri? Passo».
«Quale tetto? Passo» rispose il comandante dell’operazione.
«Il tetto dei palazzoni. Passo».
Hannah e il pilota del drone si guardarono. Johan Svärd, il comandante delle forze speciali, aveva udito la richiesta a sua volta e rispose direttamente: «Puoi darci un’immagine migliore della persona sul tetto? Passo».
Il drone ridusse la propria altitudine, così che tutti quelli che avevano accesso al monitor potessero vedere la persona distesa sul tetto che guardava in giù verso di loro.
«Aspetta… sembra che sia calvo. E penso di essere stato individuato. Mi ha visto. Ora si sta alzando. Passo».
«È lui» disse Hannah con il volto impietrito. «È Aslan, cazzo. È lui a tenerci sotto osservazione. Porca puttana!» sbottò, dimenticando di concludere la comunicazione con il passo
.
«Cosa succede? Passo» gridò il comandante.
«Si è lanciata all’inseguimento» rispose il pilota del drone. «Si è messa a correre. Passo e chiudo».
Senza attendere niente o nessuno, Hannah aveva cominciato a correre giù dal ponte. Il percorso pedonale svoltava bruscamente a sinistra e diventava un vialetto intitolato a Katarina Taikon. Aumentò la velocità e corse sotto il ponte, in direzione dei palazzoni più vicini a pianta arcuata. Non pensava assolutamente di perderselo un’altra volta, e cercò di riflettere mentre correva. Lui avrebbe dovuto prendere l’ascensore, o possibilmente le scale, fino al pianoterra, e poi con ogni probabilità avrebbe tentato di fuggire sul retro del palazzo, il lato che dava verso l’acqua. Non sarebbe corso diritto verso le postazioni della polizia, ma avrebbe cercato invece di mescolarsi alle persone che passeggiavano lungo il canale. Era uno squilibrato, ma non era stupido.
Giunse infine al palazzone e diede un’occhiata al civico. Nessun movimento su questo lato del palazzo. Tirò uno dei portoni, al numero 67. Chiuso.
«Devo fare il giro» ansimò fra sé, e corse lungo il lato dell’edificio. «Dall’altra parte!».
Quando si fermò dopo questo sprint, vide l’acqua della baia direttamente davanti a sé. Fra lei e la riva si trovavano solo un piccolo parco giochi e un parcheggio. C’era una donna con una carrozzina che parlava al telefono. Un uomo che aveva appena parcheggiato uscì dalla sua auto, chiudendola con cura. Dove sei?
Un jogger era fermo a fare stretching appoggiandosi a un lampione. Una coppia di anziani passeggiava lentamente sull’erba, ciascuno con una borsa della spesa in mano, dirigendosi verso la campana per il vetro da riciclare. Dove sei?
Assorbì tutto ciò che vedeva e tentò di elaborare mentre le pulsavano le tempie per lo sforzo improvviso.
«Chiamiamo rinforzi? Passo» udì nell’auricolare. «Dove sei, Hannah? Passo».
«Il sospetto è nei paraggi dei palazzoni di Tanto. Passo e chiudo».
Hannah non aveva l’energia per curarsi di loro. Avevano avuto la loro possibilità e l’avevano sprecata. Potevano decidere da soli quello che volevano fare. Lasciò correre lo sguardo nuovamente sui dintorni. Era ancora all’interno dell’edificio? La respirazione cominciava a calmarsi dopo il breve scatto. Non vedeva nulla di particolarmente sospetto, ma avrebbe dovuto chiedere ai passanti. Che cosa avevano visto? Sarebbe dovuto passare per forza di lì. A meno che non fosse rimasto nel palazzo e fosse tornato a nascondersi nuovamente. Si guardò ancora attorno e si soffermò sul jogger, mandandogli un richiamo.
«Salve!».
Lui non rispose subito. Aveva della musica nelle orecchie?
«Salve!» chiamò di nuovo dirigendosi verso di lui. «Polizia!».
Lui mollò il palo e riprese la sua corsa leggera, ma allontanandosi da lei, in direzione dell’ospedale e, oltre quello, verso il centro natatorio di Eriksdalsbadet e Skanstull.
«Alt!» gridò mentre lo vedeva accelerare il passo. «Polizia!».
Poi capì. Era lui. Godeva a esserle vicino. Toccò la pistola, tentando allo stesso tempo di valutare la situazione. Non avrebbe esitato a sparargli se avesse avuto una visuale sgombra. Ma lui si stava allontanando rapidamente.
Hannah abbandonò quindi i pensieri confusi e si mise in moto. Doveva catturarlo. Ora o mai più. Sperava che le forze speciali avrebbero chiamato rinforzi per tentare di intercettare il terrorista. Inoltre avrebbero potuto utilizzare il drone. Ora l’uomo si trovava circa duecento metri davanti a lei, ma il divario cresceva. Correva veloce con passi leggeri, e a lei sembrava di non riuscire a guadagnare nulla su di lui, anzi. Il vialetto si snodava lungo la riva della baia ed era pieno di gente. Ogni tanto, Hannah urtava qualcuno e perdeva velocità.
«Polizia! Fate largo!» gridava a intervalli regolari.
La via pedonale continuava a pochi metri dall’acqua. Di quando in quando riusciva a scorgere la figura dai passi leggeri che fuggiva, più avanti, fra le persone che passeggiavano in uno spazio più aperto. Poi lo perdeva di nuovo quando il sentiero faceva una curva. Sperava nei rinforzi, ma il drone ancora non si scorgeva. Quanto poteva essere difficile? Cominciò a perdere velocità. Il corpo le cominciava a dolere e ora dentro di lei si stava accumulando l’acido lattico. Era stata depressa tutta l’estate e non aveva avuto la forza di tenersi in forma. Adesso ne provava le conseguenze.
Stava rallentando poco alla volta e per di più era continuamente costretta a schivare persone, a frenare e a evitare di andare a sbattere contro i bambini o le carrozzine che affollavano il vialetto. Alla sua sinistra, in cima alla collina, si ergeva l’ospedale. Ora aveva perso il contatto visivo con l’uomo e sapeva che sarebbe riuscito a filarsela se non fosse caduto o se non fosse stato trattenuto da qualche cittadino con presenza di spirito. Come no, c’era da starne sicuri!
La folla continuava a infittirsi, e nel giro di pochi minuti si sarebbero trovati al centro di Eriksdalsbadet. Lì sarebbe potuto scomparire tranquillamente fra gli abitanti di Stoccolma in cerca di refrigerio alle piscine. Sentiva il proprio respiro affannoso martellarle in testa. Cazzo, pensò. Cazzo! Proseguì ancora, anche se a un ritmo più tranquillo. La corsa di velocità era finita. Lui aveva vinto. Di nuovo.
Ma già prima che alcuni degli incursori, in ottima forma, l’avessero raggiunta e prima che si avviasse una più ampia mobilitazione e il drone prendesse a sorvolare i badanti di Eriksdalsbadet, lei aveva capito di aver trovato un antidoto alla depressione che l’aveva afflitta durante l’estate oscurando il sole: una scintilla. La caccia era l’antidoto. Quello che l’avrebbe tenuta in vita. Quello che le avrebbe tenuto la testa fuori dall’acqua. Sorrise. L’avrebbe inseguito fino in capo al mondo, se ce ne fosse stato bisogno.
E là, in capo al mondo, lo avrebbe ucciso.
Capitolo 1.
Il giorno precedente la drammatica caccia ad Aslan Basayev lungo le acque della baia di Årsta, Hannah Kaufman era seduta in una poltrona della centrale della polizia, guardava fisso davanti a sé e si sentiva svuotata.
«E come ti sei sentita, poi?» chiese la donna che aveva di fronte. «Puoi descriverlo?».
Hannah si guardò attorno nella stanza. Così asettica e tremendamente priva di colore. Come se si fossero davvero sforzati di creare un ambiente insignificante e privo d’ispirazione. La donna in leggero sovrappeso con abiti larghi indosso la guardò con empatia. Con gli occhi pregava Hannah di risponderle velocemente, perché il tempo a disposizione era poco e stava passando.
«Ovviamente mi sono sentita molto triste e vuota. Depressa» rispose Hannah infine, senza troppo coinvolgimento. «Stanca morta».
La donna annuì comprensiva. «Hai visto morire un bambino e la cosa ti fa fatto stare molto male. E come pensi che ciò possa essere collegato al fatto che tu non hai figli? Questo migliora o peggiora la sensazione?».
La stanza le si ripresentò con la sua anonimità ripugnante. Che cazzo ne so
voleva gridare. Che cazzo di domanda è?
.
«Non saprei» disse. Era troppo ben educata per fare una scenata. Per di più, non le sarebbe servito a nulla. «Come si fa a sapere una cosa del genere?» domandò per tutta risposta. «Dopo tutto abbiamo una sola vita, che per di più dobbiamo cercare di vivere nel miglior modo possibile».
Sentiva la bocca secca.
«Pensavo avessi dei pensieri in proposito, Hannah. Capisci che non è davvero mia intenzione cercare di guidarti. È importante che riusciamo, insieme, a sbloccare i tuoi sentimenti. Hai un sostegno adeguato da tuo marito?».
Quale marito?
voleva dire, e invece si morse di nuovo la lingua e guardò di sottecchi l’orologio alla parete. Ancora mezz’ora di terapia e l’aria della stanza era densa come albume, gelatinosa. Mezz’ora che sarebbe sembrata un’eternità. Voleva uscire.
«Non sono stata me stessa dall’attentato» disse infine. Era un’espressione anemica, al limite della banalità, ma si era sentita costretta a dire qualcosa. «È come se non riuscissi a ritrovare la strada per tornare quella che ero prima. Mi ha rotto qualcosa dentro».
«Chi?».
«Lui, il capo dei terroristi. Aslan Basayev».
La stanza la stava soffocando.
«Ti rendi conto che la guerra è finita, Hannah?».
Lei trasalì. «Cosa intendi dire?». Era la prima frase carica di significato che avesse sentito da quando aveva iniziato le sedute con la psicologa. La prima che l’avesse fatta addirittura trasalire.
«Mi stavo chiedendo se per te la guerra è finita».
«Di che guerra parli?».
«Quella che hai combattuto contro i terroristi? Quella che in effetti hai vinto».
«Cosa vuoi dire? Certo che è finita. L’ospedale è stato liberato». Era deficiente o cosa?
La terapeuta la guardò di nuovo. «Lasciami spiegare. C’è chi sostiene che la sindrome da stress post-traumatico consista nel non riuscire a continuare a vivere lasciandosi dietro, in modo funzionale, quello che è successo. Questo permane all’interno dell’individuo affetto e continua a fare danni da dentro, come una specie di virus, anche nella sfera emotiva. Nella psiche».
«Che cosa c’entra questo con la guerra, se posso chiedere?».
«Scusami, era un modo di dire. Una specie di metafora. Un’immagine. Quando i veterani della Guerra del Vietnam sono tornati a casa non sono riusciti a riadeguarsi alla vita che facevano prima di partire. Sono scappati nei boschi. Alla fine, gli psicologi hanno compreso che c’era un’unica frase che poteva fare breccia negli ex soldati».
Hannah la guardò. «E quale?».
«La guerra è finita. The war is over
. Era l’unico messaggio che davvero arrivasse all’obiettivo. Significa che erano rimasti in guerra. Non erano riusciti ad andare oltre».
«Come si va oltre qualcosa di terribile, allora?».
«Per esempio, parlandone con me» suggerì la donna sorridendo. Hannah restituì il sorriso, ma restò dubbiosa al riguardo.
Ci voleva una medicina più forte di quella.
L’estate infernale
, questo era il nome che Hannah aveva dato a quella stagione ripensando ai fatti. Per questa volta la sessione di terapia si era conclusa, e lei lasciò la centrale con passi appesantiti. Sui giardini di Kronoberg splendeva il sole. A metà aprile, Hannah aveva condotto le operazioni di liberazione degli ostaggi all’Ospedale Pediatrico di Stoccolma Sud. Poi era arrivato maggio, e dopo, giugno, ma il sole si rifiutava cocciutamente di penetrare la coltre di nubi. Era come se lei vivesse in un film in bianco e nero.
L’ospedale e la vicenda le erano valsi medaglie ed encomi dalle alte istanze della società, ma nessun senso di appagamento. Al contrario. Le immagini di quel giorno la tormentavano tuttora, soprattutto quelle del corpo senza vita di Martin Jacobsson avvolto in un lenzuolo bianco. Era stata lei a trasportare quel corpicino giù dalla collina dell’ospedale. Le immagini la tormentavano sia da sveglia che nel sonno. La perseguitavano giorno e notte e facevano sì che sogno e realtà si confondessero fino a mescolarsi fra di loro. Le istituzioni avevano funzionato, il sistema aveva funzionato, ma gli individui, quelli