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Fango: Distopia in pochi atti
Fango: Distopia in pochi atti
Fango: Distopia in pochi atti
E-book322 pagine4 ore

Fango: Distopia in pochi atti

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Info su questo ebook

Quella zona della città si era staccata da tutto il resto e ora avanzava inghiottendo i confini per poi gettarsi nel Mediterraneo e vagare verso il disastro. Come la zattera di pietra, solo che al posto della pietra c’era il fango.
Est di Roma, duemila e qualcosa. Piove da giorni, ma nessuno più si occupa di ripulire le strade, il fango sale. Squadre della polizia e di uomini col passamontagna sgomberano centri sociali, compiono retate, eliminano gli indesiderati della città, stranieri, barboni, tossici, compagni, disoccupati e movimenti di lotta. Sono al servizio di un Sindaco senza volto e del suo progetto distopico: il potere collettivo di Roma città stato.
Nello scenario apocalittico quanto quotidiano dei quartieri della periferia romana, si cercano vecchie vendette provando a sopravvivere e, se possibile, a resistere. Quanta di questa distopia è sotto i nostri occhi?
Il secondo romanzo di Luca Palumbo, autore di Un maledetto freddo cane.
Luca Palumbo è nato a Napoli nel 1976. Redattore di Laspro – rivista di Letteratura, Arti & Mestieri, ha pubblicato la raccolta di racconti Il pianista nano (0111 edizioni, 2009) e il romanzo Un maledetto freddo cane (Lorusso, 2012). Vive e lavora a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2016
ISBN9788894106923
Fango: Distopia in pochi atti

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    Anteprima del libro

    Fango - Luca Palumbo

    boato.

    Prima Parte

    1. Il matto del palazzo di fronte

    Il giallo e il rosso sono colori assurdi e incomprensibili per un appartamento, sebbene caldi. Pareti gialle e porte rosse, da bucare gli occhi, da far venire l’emicrania. Ma Nanà e Romero si erano abituati, vivevano da due anni in quell’appartamento in una stretta e soffocante via a due passi da largo Preneste. In affitto, in nero. Erano riusciti a pagare fino a che avevano potuto e ora attendevano quasi passivamente lo sfratto da un momento all’altro, soprattutto negli ultimi giorni, da quando il signor Castroni li aveva avvertiti che prima o poi si sarebbero trovati un esercito dentro casa a sbatterli fuori, questione di ore. I due giovani avevano reagito con un’alzata di spalle, intorpiditi da una bizzarra e rassegnata attesa.

    Era una nuova giornata senza sole, cielo gonfio di pioggia, umidità che frantumava le ossa. Nanà guardava assorta dalla finestra del salotto, i capelli lisci e rossi le cascavano sulle spalle morbidamente, braccia conserte e sguardo malinconico a fissare il matto del palazzo di fronte, un uomo di età indefinibile, perennemente immerso in una tuta di pile, una mano a grattarsi le natiche e l’altra a menare l’aria. Non accusava sbalzi di temperatura, indossava il pile estate e inverno. Nanà lo osservava e lo ascoltava mentre, affacciato sul suo balconcino, bestemmiava le madonne e mandava al diavolo nemici immaginari. Guardava sotto, indicava con una mano, urlava ma per strada non c’era nessuno. A volte il suo sfogo era rabbioso, altre disperato e piagnucolante, la voce roca si spezzava, i nemici immaginari lo braccavano e lui si sentiva perso e cominciava a minacciarli, prometteva loro che li avrebbe ammazzati come cani. Quel primo pomeriggio era in una condizione particolarmente sofferente, gridava ai nemici di stare lontano da lui, altrimenti li avrebbe scannati con le sue stesse mani. Era sul punto di piangere e la vecchia madre, ingobbita e vestita di stracci cadenti, lo implorava di rientrare in casa ma lui mandava a quel paese anche lei. Nanà scuoteva la chioma rossa, intristita da quello spettacolo pietoso, come spesso le accadeva. In tutti quegli anni, pensò Nanà, nessuno mai aveva rivolto una parola a quel matto, fosse anche solo per dirgli di smettere di sbraitare, soprattutto d’estate a notte fonda, quando le sue colorite bestemmie squarciavano l’afa.

    Romero era seduto sul divano rosso intento a mettere delle corde nuove a una chitarra acustica. Era un’operazione che non amava particolarmente, richiedeva sempre troppa concentrazione e aveva paura di spezzare una corda o di bucarsi un occhio con l’acciaio. Anch’egli stava bestemmiando sebbene attraverso sussurri impercettibili. Odiava in maniera singolare infilare il Mi cantino nel passante della chiavetta. Il Mi cantino rischiava sempre di spezzargli l’equilibrio, di mandarlo in bestia qualora incontrasse la benché minima difficoltà. Per quella delicata operazione aveva indossato degli occhiali da sole molto grossi e si era coperto la testa rasata con il cappuccio della felpa. Ogni tanto smetteva per bere un sorso della sua birra lasciata su un lungo e basso tavolo nero piazzato davanti al divano, buono soprattutto per appoggiare i piedi. Il computer portatile acceso, sistemato su una minuscola scrivania traballante, suonava un disco di Beth Gibbons e Rustin Man, Out of season. Era un disco che Romero metteva su spesso quando era intento a svolgere operazioni che potevano facilmente irritarlo, mentre per Nanà era l’ideale per pomeriggi uggiosi e malinconici come quello.

    «È incredibile come quel matto sia una delle poche persone di questo quartiere a ignorare tutto quello che sta accadendo. È surreale, in mezzo a questo caos, il fatto che lui se ne stia quasi tutti i giorni su quel balcone a combattere i suoi nemici immaginari e non vedere la realtà. Lo trovo angosciante» disse Nanà.

    «Non pensi invece che forse in questo momento storico lui sia più fortunato di noi? Chissà, forse ora come ora essere pazzi è una salvezza» sentenziò Romero sudando sul Mi cantino e sulla chitarra.

    «Vorresti essere pazzo? Vorresti essere come quel poveretto di fronte?»

    «Forse, non saprei. Lui ha nemici di fantasia, i nostri sono fottutamente reali, anche se non sappiamo chi sono. Non so cosa sia peggio».

    «Parli senza riflettere, Romero. Noi possiamo sempre difenderci, resistere, lui non può fare niente, sbraita e grida contro il nulla dalla mattina alla sera».

    «Almeno i suoi mostri non possono toccarlo, i nostri invece possono annientarci fisicamente».

    Nanà si voltò finalmente e guardò il compagno seduto sul divano. Lo trovò con la fronte corrugata, concentrato al massimo a mettere al posto giusto il Mi cantino alla chitarra.

    «Cosa cazzo c’entra questo? Perché parli tanto per parlare, a volte? Non è con i poveri matti che riusciremo a difenderci, vuoi che diventiamo tutti cerebrolesi per evitare il peggio? Guai a te se mi rispondi di sì».

    Gli puntò contro un dito. Romero interruppe la faticosa operazione e sollevò il capo per guardare la ragazza. Sbuffò, sfilandosi il cappuccio della felpa dalla testa.

    «Ascolta piccola, sono solo stanco e confuso da tutto quello che ci sta succedendo attorno, senza capirci un cazzo, quindi sì, quasi mi verrebbe voglia di essere come il matto di fronte, almeno non mi troverei così, ad attendere che ci buttino fuori di casa mentre cerco di piazzare questa stronza di corda senza bucarmi un occhio. Fino a poche settimane fa sembrava tutto normale, ora c’è una banda di pochi pazzi guidata dal Sindaco che dichiara guerra a tutto quello che non gli garba per ripulire la città. Ma hai sentito che è successo all’ex Snia la scorsa notte? Distrutta dalle bombe, e stavolta non è stato un fascistello o qualcuno del centro sociale stesso, come dicono. Lo sappiamo bene chi è stato, anche se non ne conosciamo il volto. Ecco, questo è quello che faccio fatica a comprendere. Mi fa meno fatica capire i mostri immaginari di quel mentecatto».

    «Non siamo preparati per questo delirio» disse Nanà tornando a voltarsi verso la finestra.

    «Sono d’accordo» commentò Romero riprendendo l’operazione della corda.

    «Pensi che voglia buttarci tutti fuori dalla città? Credi che voglia riconquistarsi con la forza tutto ciò che era stato liberato?»

    «Chi, il Sindaco? Sicuro, per lui noi siamo il male estremo, siamo coloro che hanno immerso la città nella crisi più nera rendendola invivibile, fantasma di se stessa. Noi siamo la causa, in realtà poi di che cosa non importa. Vuole semplicemente un’altra città. Una città stato».

    «È già una città stato, anche se molti ancora non lo sanno».

    Finalmente Romero aveva piazzato il Mi cantino senza spiacevoli inconvenienti. Ora doveva semplicemente accordare la chitarra e suonarla un po’ per tendere a dovere le corde nuove.

    «Guarda il Pigneto, in poche settimane si sta svuotando, sono rimasti pochi spacciatori arabi impazziti senza più roba e qualche ex studente depresso e morto di fame. L’isola pedonale tornerà presto un luogo desolato. Prima hanno permesso di devastare l’area più sopravvalutata del quartiere con la stronzata della gentrificazione, adesso la stanno desertificando, stazione della metro compresa. È in corso un cambiamento clamoroso. E noi non siamo assolutamente contemplati in questo cambiamento. Per fortuna, direi».

    Nanà non ascoltò le ultime parole. Una bestemmia particolarmente fragorosa del matto di fronte aveva catturato la sua attenzione. Vedeva il mentecatto sporgersi dalla ringhiera del balcone tendendo un braccio verso il basso. Urlava disperato, con suoni gutturali, bestemmiando ma anche insultando qualcosa o qualcuno, come se fosse preda di un pericolo imminente. La vecchia madre cercava di calmarlo afferrandolo per la vita con l’intento di ricondurlo in casa, senza successo. Il poveretto sembrava partito del tutto e questa volta Nanà poté vedere altra gente affacciarsi alle finestre e osservare preoccupata ciò che stava accadendo. Abbassò anch’ella i propri grandi occhi verdi. Tre auto della polizia, nove uomini in tenuta antisommossa che parlavano tra loro in maniera concitata. Nanà li osservò atterrita. Uno dei poliziotti alzò lo sguardo, non per guardare il matto che li insultava, ma per dare un’occhiata profonda al sesto piano del palazzo dove abitavano i due giovani.

    «Cos’è questo casino? Ha riconosciuto finalmente uno dei suoi nemici, il matto?» domandò Romero in tutta serenità suonando un accordo indecifrabile alla chitarra.

    «Merda, sono arrivati, prima di quanto pensassimo. Il matto ci sta avvisando in qualche modo» disse Nanà freddamente.

    «Che cosa dici? Ci sta avvisando di cosa?»

    «Gli sbirri, sono qui sotto. Sono venuti a buttarci fuori di casa. È arrivato il momento».

    Nanà non distoglieva lo sguardo dalla strada sottostante. I poliziotti erano ancora indecisi sul da farsi mentre attorno a loro si era formato un gruppetto di curiosi, soprattutto vecchie della zona. Romero aveva gettato la chitarra sul divano ed era scattato in piedi.

    «Quel bastardo di Castroni, ci ha sorpresi con un’infamata delle sue» disse rivolto a Nanà. La ragazza si voltò di nuovo verso di lui.

    «Dobbiamo lasciare l’appartamento, ora».

    «Non mi aspettavo che accadesse proprio oggi».

    «Cosa cambia, lo sapevamo e siamo preparati. Non c’è tempo da perdere. Non ho alcuna intenzione di avere a che fare con loro, non possiamo opporre alcuna resistenza e rischieremmo addirittura l’arresto».

    Romero si portò le mani sulla testa rasata, sospirando rumorosamente.

    «Sì, dobbiamo smammare, subito. Castroni è un sadico di merda, non si accontenta mica di buttarci fuori».

    Nanà annuì. Girò un’ultima volta la chioma rossa all’indietro per dare uno sguardo al matto ferocemente agitato. È stato lui ad avvertirci, senza saperlo. Non fosse stato per lui saremmo stati presi di sorpresa nell’appartamento, e ci avrebbero portati via come bestie, chissà dove, pensò.

    «Dovremo lasciare tutte le nostre cose qui, immagino» osservò Romero.

    «Certo».

    «Anche la chitarra».

    «Già, anche la chitarra. Sei pronto?».

    Nanà si avvicinò al compagno e gli prese un braccio. Il ragazzo annuì, lentamente.

    «Forza, dobbiamo scendere di corsa al terzo piano dal signor Pallotta come avevamo detto, ci terrà al sicuro per qualche ora. Poi lasceremo definitivamente il palazzo quando gli sbirri saranno andati via».

    «Dovremo lasciare il quartiere, forse» disse Romero quasi tra sé. Nanà annuì.

    Il matto continuava a sputare bestemmie e insulti indirizzati ai poliziotti. Le sue grida erano ormai insostenibili, non aveva mai urlato così. Segno che la polizia stava per entrare nel condominio, pensò Nanà.

    Aprirono la porta di casa con la massima allerta e cautela. Sul pianerottolo non c’era nessuno, nemmeno la vicina ficcanaso. Sgusciarono via.

    2. Nella birreria L’Assommoir

    Il minimalismo degli interni della birreria L’Assommoir nel cuore di Torpignattara rendeva opachi i volti degli avventori, inquieti e intenti a sorseggiare lentamente birre alla spina. Dalle ampie vetrate potevano languidamente seguire di tanto in tanto le grasse gocce di pioggia che cadevano fragorose. Nessuno per strada, solo auto parcheggiate e desolazione resa oscura dal cielo nero. I birrai Cico e Costantino, soci e compagni di vita, con i gomiti appoggiati al bancone e grattandosi le folte barbe, osservavano amici e clienti assorti in lugubre chiacchierate. Accanto a un frigo in cui erano in bella mostra bottiglie di birra artigianale c’erano due uomini seduti a un tavolo di legno riciclato. Parlavano a bassa voce e fittamente da una buona mezz’ora, gesticolando e scuotendo le teste. A un tratto uno dei due lanciò lo sguardo verso il bancone e sollevò una mano.

    «Ragazzi, altre due stout» ordinò. Cico annuì e si apprestò a riempire due nuovi bicchieri dallo spillatore. L’uomo che aveva ordinato riprese subito a parlare con il suo compagno. Si faceva chiamare Dago, un giovane magrissimo e pallido, dai lunghi capelli neri e lisci, indossava occhiali rossi e uno striminzito giubbetto blu che non riusciva a proteggerlo dall’umidità. Tremava.

    «Stiamo vivendo un brutto trip, Molise, non puoi darmi torto. Tutto sta cambiando così velocemente che non ci rendiamo conto di niente. Prendi quello che è successo l’altro ieri all’ex Snia. Decine di bombe lanciate da non si sa chi, ormai la polizia ha preso possesso dell’area e i compagni se ne sono andati a ritmi da record, senza nemmeno resistere. Non si era mai visto prima. Insomma, è preoccupante. Mi chiedo chi sia stato il mandante».

    Molise sorrise osservando il suo bicchiere vuoto e sporco. Aveva un po’ più di quarant’anni, di cui circa una decina spesi nei movimenti di lotta fino a pochi anni addietro, prima della crisi. Da vent’anni sembrava non essere cambiato nell’aspetto: testa rasata, indossava sempre felpe scure con stampe di sua creazione e jeans chiari strappati. Un ibrido di grunge e hardcore. Qualche pelo grigio nella barba rada, magro e asciutto. Parve riflettere alle parole dell’amico poi alzò finalmente i piccoli occhi chiari e decisi e li affondò in quelli neri e febbrili di Dago.

    «Non riesci a immaginarlo? Ormai l’obiettivo del Sindaco e della sua fantomatica amministrazione è chiaro, cioè toglierci tutto ciò che siamo riusciti a conquistare prima e durante la cosiddetta crisi» disse Molise con la sua voce roca da vecchio bluesman.

    «Vuoi dire che siamo noi i nemici del Sindaco? Ma non sappiamo nemmeno che cazzo di faccia abbia».

    «Non è necessario conoscere i volti, Dago, basta sentirle certe cose, vedere quello che accade sulle strade. Da quando si è inserita questa figura sconosciuta il cambiamento è stato repentino ed evidente. Com’è evidente che siamo noi per adesso nel suo mirino, vale a dire coloro che hanno ostacolato con tutte le forze qualsiasi tipo di speculazione e repressione sociale fino a un mese fa».

    Dago sospirò, abbandonandosi per un attimo sullo schienale della sedia. Si protese di nuovo verso Molise.

    «Ma che cazzo, possiamo sempre tornare all’ex Snia e tentare di riprendercela, non credi?» disse allargando le braccia a mezza altezza, con i gomiti sul legno del tavolo.

    «E come, secondo te, a mani nude contro mitra, bazooka e chissà quale altra cazzo di arma? C’è un esercito di sbirri lì dentro, li ho visti ieri, ci sono passato un attimo e hanno addirittura chiuso una parte della Prenestina al traffico per impedire qualsiasi infiltrazione».

    «Le ruspe, c’erano già?»

    «Sì, dirette al lago».

    Dago si portò le mani tra i capelli sottili.

    «Visto? Non abbiamo fatto in tempo a liberarlo che già se lo sono ripreso con la forza. Immagino che in tempi brevi ci costruiranno un villaggio vacanza avveniristico con tanto di piscina naturale. Per pochi, presumo. Ormai pure un immondezzaio come largo Preneste fa gola».

    «Già, per pochi, hai detto bene, perché ormai buona parte della gente del quartiere sta perdendo casa e lavoro, compresi i pochi risparmi che hanno in banca di cui non vedranno più un centesimo. Il Pigneto si sta svuotando, i locali stanno chiudendo, è chiaro che hanno in mente un progetto di cui noi non faremo parte».

    «Ci hanno dichiarato guerra. E temo che si tratti di una guerra che non si può più combattere politicamente. Pensavo ci avessero dimenticato, che ci considerassero nullità, merde senza valore» disse Dago apprestandosi a rollare in fretta una sigaretta. Molise tossì, prendendo la confezione di tabacco di Dago.

    «Nullità, certo, merde che comunque danno fastidio. Dago, noi ci siamo sempre opposti con qualsiasi mezzo a ogni tentativo di farci fuori dalla vita di questa città. Ci siamo scannati con loro per non mollare quartieri e beni comuni. Ci siamo ribellati, abbiamo lottato. E per questo siamo stati condannati. Siamo immondizia da smaltire senza alcun riguardo e in fretta».

    Dago si accese la sigaretta e fece un primo e abbondante tiro. Da qualche tempo Cico e Costantino lasciavano fumare nel locale, perché sempre meno frequentato ma soprattutto perché la clientela era costituita sempre dalle stesse persone, tutte fumatrici.

    «Possibile che non riusciamo a contrastarli ancora una volta? Magari tu che sai come si fa, potresti provare a rimettere insieme i pezzi, possiamo ricominciare a lottare. Insomma, sei un personaggio che ha ancora una buona influenza in certi ambienti, mi pare».

    Dago parlava sputando il fumo in faccia a Molise senza rendersene conto. Molise si accese anch’egli la sigaretta che aveva appena rollato. Mugugnò.

    «Dago, dove cazzo hai vissuto negli ultimi tempi, non ti sei accorto che sono mesi che i movimenti si sono sfaldati, che ognuno di noi è rimasto isolato? Quanto tempo è che siamo io e te da soli che non sappiamo cosa fare e dove andare? Lo abbiamo visto con i nostri occhi, dovunque ci siamo presentati ultimamente abbiamo trovato depressione e rassegnazione, apparentemente senza un motivo concreto. E poi, contro chi veramente dovremmo reagire, tu lo sai? Io so soltanto che siamo in balia di eventi che non siamo in grado di focalizzare. Ormai vaghiamo senza fare nulla, senza lavoro, prossimi allo sfratto, spendendo gli ultimi soldi in questo covo di vinti che si sbronzano per non vedere come stanno le cose».

    Dago non ebbe il tempo di ribattere, Costantino il birraio portò loro le due pinte di stout. Le poggiò rumorosamente sul tavolo e rimase a fissare i due amici facendo oscillare la folta chioma bionda.

    «Sono giorni che vi sedete allo stesso tavolo e parlate per ore. Posso soltanto immaginare cosa vi diciate ma non state a scervellarvi troppo, la soluzione non la troviamo qui dentro a bere birra. Ancora per poco, aggiungerei, questo posto chiuderà a breve, non ci facciamo illusioni io e Cico. Quindi approfittate, le prossime birre ve le diamo a prezzi simbolici, da buoni compagni» disse Costantino attirando gli sguardi avviliti dei due amici.

    «Siamo preoccupati» sussurrò Dago quasi a se stesso.

    «Lo vedo, e lo siamo anche io e Cico. Immagino sappiate cos’ha in mente di fare la nuova amministrazione: ghettizzare la Marranella, rinchiuderci tutti i bangla e non consentirgli più di uscirne nemmeno per vendere rose e ombrelli».

    «Non starai dicendo una puttanata, vero?» domandò Molise spegnendo nervosamente la sigaretta. Costantino gli poggiò una mano su una spalla.

    «No, è tutto vero. In realtà è da qualche giorno che se ne parla in giro. Stamattina sono venuti due sbirri a farcelo presente. Cominceranno domani, un esercito di figli di puttana si riverserà nel quartiere e presidierà i confini».

    «E perché hanno pensato di venirvelo a dire?» chiese Molise.

    «Per avvertirci che da domani dovremo essere aperti soltanto un paio d’ore la sera e che a breve saremo costretti a chiudere, il Sindaco ci promette un indennizzo e la possibilità di aprire altrove».

    Dago sputò sul legno del tavolo il sorso di birra che aveva appena provato a buttare giù.

    «Mica ci credete, vero?».

    Costantino guardò Dago con un sospiro.

    «Certo che no, ce ne siamo accorti dai toni sprezzanti degli sbirri, tutte stronzate. Sta di fatto che per noi qui è finita, sia in birreria che nel quartiere stesso. È abbastanza chiaro che chi vive qui ha i giorni contati. Alla Marranella ci resteranno solo bangla rinchiusi come bestie, in attesa poi di essere buttati non si sa dove, forse saranno rimpatriati o comunque espulsi senza riguardo, che ne so. Infine anche Torpignattara, finalmente vuota, potrà essere oggetto di speculazione, delle fantasie più sfrenate di questi sciroccati. Mi sento male solo a pensare questo quartiere in mano loro».

    «E voi che ci vivete nel quartiere, cos’avete intenzione di fare?» domandò Molise prima di sorseggiare la sua birra.

    «Stiamo cercando un’altra soluzione, probabilmente riusciremo a trovare una sistemazione da vecchi amici lontano da Roma. Ce ne andremo».

    Molise e Dago annuirono gravemente, in silenzio.

    «Forse dovreste andarvene anche voi per un po’» aggiunse Costantino.

    «Per permettere così al Sindaco di prendersi i nostri quartieri? Noi ci viviamo, ci siamo cresciuti, li abbiamo cambiati, non possiamo arrenderci così» disse Molise senza troppa convinzione nel tono della voce, memore di quello che aveva detto poco prima all’amico Dago.

    «Molise, il Sindaco o chi per lui, sta trasformando Roma in una città stato, qualcosa di mostruoso, e noi siamo considerati nemici, ostacoli, perché abbiamo sempre rotto le palle. Ma io ormai ho paura, ho il timore di reagire. Quanti amici ultimamente sono scomparsi dalla circolazione? Sarò un vigliacco ma io per ora mi tolgo dai coglioni. Sono stanco di lottare, sono sconfitto, provo a salvarmi il culo prima che sia troppo tardi. Io non sono un guerriero come voi. Almeno, non più».

    Costantino, cupo, lasciò bruscamente i due amici e tornò al bancone.

    «Cosa gli abbiamo detto di male?» chiese Dago avvicinando il volto a quello di Molise. Questi si strinse nelle spalle.

    «Credo niente. Credo si sia semplicemente reso conto della propria debolezza. Penso sia arrabbiato con se stesso, non con noi. Andiamocene, Dago, sono stufo di stare qui. Vado a pagare».

    Molise si alzò pesantemente e si diresse al bancone. Anche Dago si alzò ma guadagnò direttamente la porta del locale. Vide Molise abbracciare Costantino, visibilmente afflitto, e stringere la mano a Cico. Si dissero qualche parola che Dago non riuscì a capire. Poi osservò gli altri avventori, sempre gli stessi, qualche vecchio amico che salutò con un cenno della mano, un paio di semplici conoscenti che non si accorsero di lui. Billie Holiday cantava Strange Fruit e per un attimo Dago si sentì rapito e straziato dalla voce graffiante. Si ridestò quando fu raggiunto da Molise. Uscirono. Il cielo era gonfio, aveva smesso di piovere ma in lontananza nuovi tuoni ovattati minacciavano l’ennesimo temporale. Sostarono appena fuori il locale.

    «Io me ne vado a casa, ho bisogno di dormire».

    Dago annuì a testa bassa, stringendosi e tremando nel misero giubbetto blu. La sua impressionante magrezza non gli permetteva mai di scaldarsi.

    «Sì, capisco. Ci vedremo domani sera qui?».

    Molise accennò un sorriso.

    «Certo. Continueremo a vederci qui fino a quando sarà possibile».

    Anche Dago sorrise. Offrì la mano all’amico. Molise gliela strinse, forte.

    «Molise?»

    «Sì».

    «Anch’io sarò sfrattato. Quel vecchio bastardo mi ha minacciato, chissà che gli ha promesso il Sindaco».

    «Quando sarà?»

    «Questione di un paio di settimane, credo, non di più».

    Sciolsero la stretta di mano e si guardarono a lungo.

    «Cosa pensi di fare?».

    Dago alzò le spalle.

    «Quello che prima diceva Costantino lo sento anch’io, non te lo nascondo».

    «Vuoi lasciare la città?»

    «Non so, non vorrei».

    «Hai paura?»

    «Ho paura di una rappresaglia se mi barricassi in casa come ho sempre fatto. Stavolta sento che sarà diverso, che non basterà. Mi sento isolato e debole, senza energie».

    «Quando sarà vieni a stare da me».

    «Tu sei al sicuro?».

    Molise chiuse la zip del proprio giubbotto nero fino al mento.

    «Non credo ma per il momento il proprietario non mi ha detto niente. Ora vai, stai tremando dal freddo. Va’ a riscaldarti».

    Dago annuì e senza dire altro voltò le spalle all’amico e s’incamminò lentamente, mani in tasca, verso la via Casilina. Molise restò a osservarlo per qualche secondo poi anch’egli decise di tornare verso casa, dalle parti del Pigneto. Mentre camminava guardava i muri dei palazzi, ormai quasi completamente privi di murales, recentemente cancellati da una banda di ragazzini assoldati dall’amministrazione per il decoro urbano. Scosse la testa. Brutto segno, pensò. Ricominciò a cadere qualche goccia di pioggia, di lì a poco si sarebbe scatenato un altro inferno e le strade si sarebbero alimentate del fango che ultimamente stava pian piano inondando la parte orientale della città. Aveva appena preso a camminare velocemente quando fu scosso da un violento accesso di tosse che gli mozzò il fiato e lo fece piegare in due. Appena si riprese si accorse di una motocicletta nera ferma a una cinquantina di metri da lui, di fronte. Il motore era acceso. Chi montava la moto sembrava fissarlo. Non c’era nessuno per strada a parte lui e quella motocicletta. Molise respirava affannosamente per riprendersi dall’attacco di tosse e guardava torvo quella moto. Pochi secondi dopo la moto scattò e gli passò al fianco, a gran velocità, in direzione opposta alla sua.

    3. Pioggia, sangue, sudore e curry

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