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Delirium tremens
Delirium tremens
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E-book193 pagine2 ore

Delirium tremens

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Info su questo ebook

La sesta opera di Luigi Elia può definirsi l’opera della completezza. Non solo la riconferma di un modo di scrivere originale, ma una continua evoluzione che arricchisce la trama abbellendola con della poesia. L’ormai progetto “Giallo Sporco” è divenuto realtà. Scorrevole ed avvincente, questo racconto riesce a trattare temi complicati con un linguaggio comprensibile a tutti. I continui colpi di scena riescono ad incollare il lettore dalla prima all’ultima pagina, rendendo la lettura mai pesante. In una Roma stupenda e cinica, un magistrato cercherà di venire a capo di un’indagine assai complicata. La riapertura di un caso abbandonato agli archivi: il ritrovamento di una prostituta di colore nel Tevere permetterà all’inquirente di far luce su delle connivenze ed un giro d’affari legato al mondo dell’immigrazione. La storia si arricchisce di personaggi e di vicende intrecciate tra loro e così non è solo il fatto di cronaca e la relativa indagine a creare curiosità, ma anche la storia di un vecchio poeta alcolizzato, che, tra molte difficoltà prova a scrivere una nuova opera. Infine, come la tecnica teatrale denominata quarta parete, l’autore interviene nella narrazione con stralci di un diario personale. Tante storie, ma un finale filosoficamente unico, nel quale l’umanità, quella reale e fragile, lontana dagli eroismi della letteratura si mostra in tutta la sua meravigliosa debolezza.
L’uomo e le sue dipendenze, le sue ossessioni, è questa la chiave di lettura per comprendere a pieno il viaggio che l’autore offre.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2019
ISBN9788869827419
Delirium tremens

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    Anteprima del libro

    Delirium tremens - Luigi Elia

    (AL)

    Premessa

    La sesta opera di Luigi Elia può definirsi l’opera della completezza. Non solo la riconferma di un modo di scrivere originale, ma una continua evoluzione che arricchisce la trama abbellendola con della poesia. L’ormai progetto Giallo Sporco è divenuto realtà. Scorrevole ed avvincente, questo racconto riesce a trattare temi complicati con un linguaggio comprensibile a tutti. I continui colpi di scena riescono ad incollare il lettore dalla prima all’ultima pagina, rendendo la lettura mai pesante. In una Roma stupenda e cinica, un magistrato cercherà di venire a capo di un’indagine assai complicata. La riapertura di un caso abbandonato agli archivi: il ritrovamento di una prostituta di colore nel Tevere permetterà all’inquirente di far luce su delle connivenze ed un giro d’affari legato al mondo dell’immigrazione. La storia si arricchisce di personaggi e di vicende intrecciate tra loro e così non è solo il fatto di cronaca e la relativa indagine a creare curiosità, ma anche la storia di un vecchio poeta alcolizzato, che, tra molte difficoltà prova a scrivere una nuova opera. Infine, come la tecnica teatrale denominata quarta parete, l’autore interviene nella narrazione con stralci di un diario personale. Tante storie, ma un finale filosoficamente unico, nel quale l’umanità, quella reale e fragile, lontana dagli eroismi della letteratura si mostra in tutta la sua meravigliosa debolezza.

    L’uomo e le sue dipendenze, le sue ossessioni, è questa la chiave di lettura per comprendere a pieno il viaggio che l’autore offre.

    CAPITOLO I

    Moleskine

    E c’è chi ha la sua maledizione. Essere un nomade, un vagabondo, un randagio, non avere una dimora e sognarne una. Condannato a paradisi artificiali da cui, dopo un breve riposo, scappare. Vagare, rincorrere una meta che non si sa dove sia, una sosta che forse non si farà mai. Ci saranno porte che resteranno sempre chiuse, lasciando lo sventurato al gelo, altre si apriranno solo per una notte, elemosinandogli un po’ di calore, per poi chiudersi ancora. Altre ancora saranno aperte, solo se ci si ripulisce. L’unica certezza di un vagabondo è la strada. Lunga, infinita, nella quale i passi non si contano nemmeno più. La strada è il senso d’eternità. L’unica certezza  che un nomade può permettersi. Essere un nomade è rincorrere un sogno, significa essere solo. Essere nomade è la mia maledizione.

    E’ triste e così tremendamente comune lo sguardo di pena e di profondo disgusto, che le persone così dette per bene, lanciano quando si trovano dinanzi ad un tossico o un alcolizzato. In quegli occhi c’è tutto il peso dei luoghi comuni, dei pregiudizi, che scavano un solco, tracciano un confine netto tra la società ed i suoi scarti.

    Ipocriti borghesucci del cazzo. Non è la dipendenza che fa storcere il naso, ma la condizione sociale di chi ne è schiavo.

    Non siamo forse tutti sottomessi a qualcosa? Già, prigionieri consapevoli del moralmente corretto, civicamente accettabile, sudditi di dipendenze più o meno possibili.

    Ed eccolo lì, sfatto, ubriaco, sporco, sulla via di casa, in cerca di dare un senso ad un misto di pensieri e ricordi.

    Questi ultimi decenni non hanno visto un solo, e dico un solo poeta cazzuto… Questa città è proprio una merda… Anch’io sono un poeta del cazzo… Mia moglie, no ex moglie, diciamo le cose come stanno, pace all’anima sua, si vergognava di me, mi ha fottuto tutto. Si è presa la parte migliore della mia vita quella cagna! … Questo vino fa schifo, quasi quanto questa insulsa città. Almeno lui, però, fa il suo dovere… Quanto è dolce Matilde! Chissà se mi sta aspettando sveglia. Sarei dovuto tornare a casa prima… Lo so che si concede ad altri, ma che cazzo ho da pretendere… Aspettano la mia morte per consacrarmi. Adesso mi schifano e mi giudicano, ma prima che io tiri le cuoia, un altro po’ di merda devono mangiarla …. L’ispirazione, quella mi servirebbe, l’ispirazione che prima avevo pure mentre pisciavo e che, come una gran troia, mi ha abbandonato, andando a fottersi chissà quale altra anima… Dovrei sposarla Matilde o lasciarle la casa con un testamento, ma non ho i soldi per un fottuto notaio…

    Così, barcollando e borbottando, si trascinava per le strade di Roma Ferdinando Altodomi.

    Un settantaseienne calvo, con folte sopracciglia ingrigite che davano risalto al nero dei suoi grandi occhi. Di media statura, esile, viso scarno sul quale erano evidenti i segni del tempo.

    Era stato poeta di successo, era finito poi nel dimenticatoio, costretto a vivere in un piccolo loft, accudito da una donna che poteva essergli figlia.

    Lei era una giovane laureata in lettere.  Era rimasta in città dopo gli studi per inseguire il sogno di diventare giornalista. Intanto faceva la commessa part time e scriveva per svariate riviste on line, ovviamente senza un minimo di remunerazione.  In cambio di un tetto, che né la sua paga né le sue passione riuscivano a permetterle, si prendeva cura dell’anziano poeta. Per lei non era un peso dargli un po’ di calore, in quanto quel vecchio ubriacone era uno dei suoi miti letterari. Abitare poi, anche se in buco, nei pressi del Gianicolo la ripagava dei suoi sforzi.

    Genesi di un dolore, una raccolta di poesie sulla natura umana, aveva consacrato Altomodi poeta di successo e gli aveva procurato anche un ottimo impiego come opinionista su uno dei più importanti quotidiani nazionali. Ma l’alcol, l’alcol era il suo demone! Per puro piacere, in cerca di un’effimera sensazione, si era abbandonato ad esso. Cercava ispirazione per una nuova opera nell’ebbrezza del vino. Ne era uscito un alcolizzato, un reietto.  Perse il lavoro e la moglie lo abbandonò per rifarsi una vita, lasciandogli solo quel buco di casa.

    Il fascino di ogni decadenza è ammaliante, ha però il suo prezzo, e di sconti non ce n’ è per nessuno.

    Era una notte di fine autunno e Roma si concedeva qualche altro sprazzo di vita, prima che l’inverno, ormai alle porte, la rendesse una fredda, ma pur sempre meravigliosa, landa desolata.  Ombre poco raccomandabili, sostavano, quasi sorvegliano, angoli di strade presso cui le automobili sembravano giocare a rincorrersi. Fornai, ladri, metronotte, locali affollati, perfino qualche coppietta che si godeva il lungotevere, apparivano come ultimi reduci di una battaglia ormai prossima e già persa.

    Tutti alla ricerca di un dolce nettare, che spesso non si trova e si finisce per comprarlo da mercanti di paradisi artificiali o da trafficanti d’amore a basso costo.

    Poco lontano da dove si rincorreva ancora la vita, lì dove la già fioca luce dei lampioni stentava ad arrivare, una voce si rivolse allo spacciatore di zona.

    - Scusa, hai da accendere? -

    L’uomo si voltò alla richiesta, ma un pugno in pieno viso gli fece perdere l’equilibrio.

    Carlo Pergolotti, conosciuto anche come Fusajaro, ossia venditore di lupini, attività che l’uomo aveva svolto insieme al padre, prima di dedicarsi al commercio di stupefacenti, non ebbe il tempo di riprendersi che la fredda canna di una pistola, premuta sul suo capo chino, lo costrinse a tenere lo sguardo basso e ad allontanarsi da occhi indiscreti.

    - Sei morto! - minacciò il pusher cercando di tamponare l’emorragia al naso.

    Non un respiro, non una reazione.

    - Chi cazzo sei? - domandò,

    -  In questo momento per te Dio. - replicò dal buio, nel quale nascondeva i suoi tratti, l’altro.

    - Sei uno sbirro? Io non ci parlo con le merde come te! - ribatté Pergolotti.

    - Sono chi deicide se tu vivrai o meno. Tutto dipende da quanto mi sarai utile. - rispose quella misteriosa figura.

    - Vai a farti fottere! - ringhiò l’altro, sperando di intimidire il suo aggressore.

    Furono attimi di silenzio, interrotto improvvisamente dal leggero, quanto spaventoso, click della sicura, che viene tolta, alla pistola.

    . Il silenzio divenne paura, la paura sfociò in panico, il panico si tramutò in terrore; l’istinto di sopravvivenza fece il resto.

    - Aspetta amico! - gridò Carlo.

    - Siamo entrambi uomini d’affari. Chiedi. – aggiunse.

    - Chi è la donna di colore uccisa qualche anno fa? Perché è stata uccisa e da chi? - domandò l’altro.

    - E’ una puttana. Non so il suo vero nome. Nell’ambiente era conosciuta come Valery, batteva a Casal Palocco. - immediatamente confessò l’altro, credendo di uscire in fretta da quella situazione, ma...

    - Questo lo sapevo già. Dimmi cose che non so. - lo interruppe quel misterioso individuo.

    - Non so altro! Devi credermi! Te lo giuro! - si giustificò il Pergolotti, che però non convinse il suo interlocutore.

    Di nuovo la pistola, premuta sul suo capo, convinse Carlo a parlare.

    - Negli ultimi anni sono arrivate molte ragazze di colore. Posso solo dire che l’EUR è diventato il quartiere meno controllato di tutta Roma. Si mormora faccia gola a tutti. -

    - Spiegati meglio. - ordinò la voce nel buio.

    - Non c’è nulla di certo, ma si mormora che fosse venuta a conoscenza di un qualcosa che avrebbe compromesso il dominio sugli immigrati dell’EUR. Cosa sia non si sa. Quel quartiere fa gola a molti. - Ancora silenzio.

    -  Lì ci sono affari per tutti: cose pulite, cose sporche, cose da ripulire, cose da infangare. C’è da far soldi per i prossimi vent’anni. Non potete farci nulla, non accettano intromissioni da parte di nessuno. -

    Al Fusajaro vennero concessi trenta secondi per andar via, ma ne furono sufficienti meno della metà allo spacciatore per dileguarsi nel buio.

    Ci si dà delle regole, ci si impone delle restrizioni, ma l’ansia per l’imprevedibilità della vita ci assale ogni notte che si vive. Forse è per questo che l’animo di ognuno di noi, al calare del sole, è ossessionato dalle proprie fobie e brama e sogna di cambiare un destino che di giorno sembra fin troppo scontato.

    Anche il Pergolotti tentava goffamente di sottrarsi al proprio inferno, percorrendo la strada più semplice che avesse trovato.

    Moleskine

    Sono sempre qua, nel bel mezzo del fottutissimo nulla, dove si aspetta il giorno dopo, sapendo che non sarà diverso da quello passato ed identico a quello che si sta vivendo. Cerco la mia direzione, forse la mia identità. Non c’è possibilità di fuga. A volte nemmeno quella di aspettare quel domani che sarà uguale all’oggi. Mi ingegno e mi arrangio, cerco ancora la vita, quella vera. La scrivo, la bramo, la inseguo, ma è infame e bastarda come una chimera. La sfiori, ma non riesci mai ad afferrarla. Rido di me stesso e degli altri, bevo.  Oggi è finito, domani si ricomincia.

    Si fece giorno. Il sole si affacciò svogliato sulla città che tentava di illuminare, ma non riusciva a riscaldare.

    Quella mattina, alla Città della Giustizia, Giorgio Altomodi, giovane magistrato, aspettava ansiosamente un’importante visita. Calvo e grassoccio, di media statura, il quarantaduenne alternava machiavelliche decisioni a filosofiche riflessioni. Aveva avuto un passato infelice. La madre lo aveva privato del rapporto con il padre naturale, sostituendolo con quello del suo nuovo compagno. La nuova famiglia lo aveva invogliato al successo innanzi tutto, al profitto, ma egli aveva recuperato in segreto il legame con il padre, che era dedito all’alcol. Viveva in sé il conflitto fra una visone pragmatica della vita ed una sognante. Era stato assegnato a casi difficili, ne aveva risolto molti, seguendo a volte le strade meno ortodosse. La giustizia era sicuramente per lui un valore importante, ma ai suoi occhi appariva anche il mezzo migliore per raggiungere le sue ambizioni e dar pace del suo conflitto interiore. Era diventato padre da tre anni, ma si era ripromesso di insegnare a suo figlio quei valori che spesso trascurato o sporcato.

    I minuti sembravano interminabili, in quel suo ufficio minuscolo, in cui entrava a stento  una sola scrivania e pochi scaffali da archivio, stipati di faldoni all’inverosimile.

    Improvvisamente la porta si aprì:

    - Buongiorno, signor magistrato. -

    - E’ così che tratta i suoi affari!?- ammonì Francesco stizzito, ma sollevato per visita dell’uomo.

    - E’ inutile affannarsi. Roma ha i suoi tempi e te li impone. - ribatté l’altro.

    - Ha quello che le ho chiesto? - provò a recuperare il tempo perso il togato.

    - Lei ha quello che le ho chiesto io? -  chiese l’altro.

    Altomodi tirò fuori da un cassetto della scrivania un foglio, lo mostrò al suo interlocutore.

    - Non immagina nemmeno quanto mi sia costato. Ho dovuto espormi e spremere tutte le mie conoscenze. Spero ne valga la pena -

    - Quello che sto per dirle, di certo darà una spinta alle sue possibilità di uscire da questo buco che le hanno dato come ufficio. Si, credo ne sia valsa la pena. - replicò con arroganza lo strano ospite.

    Daniele Vettori, era questo il nome della persona che si poneva con tanta irriverenza dinanzi al giudice. Era un investigatore privato, trentaquattrenne, ironico e diretto, antipatico, quasi odioso. Aveva capelli castani sempre spettinati, tratti duri, mitigati da una barba incolta, e piccoli, ma profondi, occhi marroni. Era una mente brillante, amava la letteratura e la musica. Era stato prima chitarra e voce di un piccolo gruppo di quartiere, scioltosi prima di raggiungere la notorietà giungesse. Orecchini, tatuaggi, anelli, collana, parka, cappellino di lana abbinato a guanti con dita mozzate e kefia davano al ragazzo un’immagine a dir poco originale.

    L’ ombra furtiva che la notte precedente aveva aggredito il Fusajaro, altri non era che lui, mandato lì ad estorcere informazioni in cambio di una licenza ventennale per la sua attività.

    Il giudice, dopo aver ascoltato con attenzione la storia, con tono seccato sbottò:

    -  Cosa dovrei farmene di una storiella del genere, raccontata da uno spacciatore per giunta? -

    -  Potrebbe arrestare chi ha ucciso la prostituta tanto per iniziare. Una piccola scossa potrebbe creare un terremoto. -

    Ci fu un attimo di silenzio.

    - Vuole fare il topo da archivio per quanto ancora? Non le piacerebbe che il procuratore le affidasse qualche altro incarico? - continuò.

    Altomodi stette lì a fantasticare per qualche istante su un’inchiesta che lo avrebbe reso un eroe, salvatore di una città intera.

    - Bene, ma dovrà aiutarmi a creare il terremoto. - poi domandò:

    - Per l’altra nostra questione, è tutto in regola? -

    - Ho pagato i conti di suo padre, evitandogli di svendersi per un bicchiere. rispose Vettori, sorridendo.

    Il magistrato aveva affidato al giovane come primo incarico quello di seguire il vecchio poeta, di pagare

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