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Il calzolaio di Buenos Aires
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E-book489 pagine7 ore

Il calzolaio di Buenos Aires

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Info su questo ebook

Don Vincenzino, ancora ragazzino, ha scelto di fare il calzolaio dopo avere visto al porto di Buenos Aires, subito dopo lo sbarco con la sua famiglia, una lunga fila di immigrati italiani con le scarpe scalcagnate. Occorrono, come diceva suo zio, calzari buoni per camminare nella vita. Siciliano di nascita e argentino nel midollo, ora don Vincenzino, avanti negli anni, accoglie il nipote Fernando e la fidanzata americana Jennifer nella sua casa di Mistretta, in Sicilia, e si abbandona a un flusso di ricordi tra il suo paese natio e lo Stato sudamericano, ostaggio per diversi anni di una dittatura feroce. L’album della vita dello zapatero è ricco di aneddoti e segreti fino ad allora inconfessati, tra cui la sua fuga dall’Argentina per un amore proibito e il mistero intorno alla paternità del nipote. Il calzolaio di Buenos Aires è un romanzo corale, con personaggi tragici e comici al tempo stesso, un’opera che fa riflettere e divertire grazie a un linguaggio raffinato e colorito dalle espressioni del dialetto siciliano, capaci di restituire emozioni profonde e senza tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9791255370642
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    Anteprima del libro

    Il calzolaio di Buenos Aires - Alfonso Marchese

    I

    Testardo. Più della forma sulla quale batteva la tomaia. Tra fischiate di romanze e ventilazioni deretane per lo sforzo di menare il martello in allegria, Vincenzino Lipari, quel giorno, con il cielo bioccoluto come la lana che cardava la buonanima di zia Concetta, era però incupito. Il suo viso aveva il colore del peperoncino di Soverato. E non per colpa del vino. Che aveva ridotto a un bicchiere la mattina, uno a mezzogiorno e due alla sera. Per meglio conciliare il sonno davanti alla tv, diceva lui. La notte l’aveva passata in bianco. Non era riuscito a chiudere occhio. E dire che si era attaccato alla bottiglia per trovare pace sul cuscino maltrattato dall’insonnia. Niente. Non c’era stato verso di abbassare una palpebra. Tutte e due spalancate. Proprio come le piccole e sgangherate imposte della finestrella del sudicio bagno, dove scaricava anche i coloranti. La pupilla, confessò al nipote Fernando, aveva vagato nel buio. Alla ricerca di una risposta che non arrivava, nonostante le manate a palmo aperto sulla fronte aggrottata. Quasi avesse bisogno di essere scossa, casomai si fosse impigrita.

    Raccontò a Fernando che fin dal pomeriggio del giorno prima era tormentato da un dilemma: era opportuno o no rispondere a tutte le domande di quelli del censimento? La rilevazione statistica dei cittadini di Mistretta, pensava, era solo una premessa alla pianificazione tributaria. Il Comune aveva fame di denaro per affrontare una crisi finanziaria che lacerava il paese. Le entrate erano miserabili. Le tasse per anni avevano rappresentato un’opzione. Non un obbligo. Così non si poteva continuare. C’era gente che aveva la doppia residenza. A Mistretta dichiarava di risiedere in un altro Comune e in quest’ultimo veniva dichiarato di risiedere a Mistretta. Nessuno controllava quale delle due fosse quella reale. E se c’era qualche accertamento, si era compiacenti con l’interessato, non fosse altro perché sarebbe stato considerato un torto. Il contraccambio era tacito. Quindi la risoluzione di censire i reali abitanti era quanto mai opportuna.

    Narrando al nipote i motivi della sua insonnia, don Vincenzino sosteneva che l’accertamento demografico fosse uno strumento per stabilire le reali fonti di reddito e ampliare il prelievo tributario del Comune e quindi quello fiscale dello Stato. Era anche un modo per arginare un’evasione di proporzioni insostenibili. Ciò che lo angustiava era il sospetto di un obiettivo recondito: incastrare il povero artigiano e fargli pagare più tasse. Quel più era però di troppo per lui, facendo presumere che egli versasse già il suo piccolo tributo al fisco. Ma quando mai! Da sempre egli apparteneva alla categoria degli aventi bisogno. Di coloro che dovevano tirare la cinghia. Erano in tanti, guarda caso, a rivolgersi a lui per fare altri buchi nella bisunta striscia di cuoio con cui reggere pantaloni sempre più larghi e consunti dal tempo. Che batteva troppo in fretta perché quelle facce non si sciupassero precocemente, incavandone le guance e solcandone le fronti terrose.

    Erano anni difficili. Con espressione tenera il calzolaio ricordava la sua prima esperienza a Mistretta, commentando, col digrigno macchiato dalla nicotina, la situazione che si viveva in un Paese come l’Italia uscito malconcio dalla guerra. Mentre al Nord si ricostruiva un pezzo del Paese devastato dai bombardamenti, creando lavoro con la rimozione delle macerie e l’edificazione di case, palazzi e strade, al Sud noia e inattività inacidivano gli animi per la povertà che si mangiava vivi i siciliani.

    Fernando era sempre stato l’orgoglio del nonno. Quando aveva appena un anno, era stato preso in custodia dagli zii dopo la morte del padre, ucciso a Buenos Aires da un commando di rivoluzionari o rapinatori che fossero. La madre Gesualda, dopo un mese dalla morte del marito, si era accompagnata a un cileno ossigenato, che fin dalla sua prima apparizione non era piaciuto a tutta la famiglia. Genitori e zii avevano cercato di dissuaderla. Nulla da fare. Per farla breve si era trasferita col suo compagno, biondo e blando, a Naucalpan de Juárez in Messico, lasciando il piccolo Fernando alle cure degli zii. Aveva lasciato scritto in una lettera al fratello più grande Sebastiano di affidare la custodia del piccolo ai loro genitori e cioè ai nonni del neonato. Il modo per farglielo recapitare prima o poi sarebbe stato trovato. E qui entra in ballo suor Scolastica, che lo prese per portarlo a Mistretta. Il nome della suora, incluso l’indirizzo, era stato fornito da don Pippo della parrocchia di San Giovanni.

    «Non frequentavo la chiesa come mia moglie. Una volta don Pippo me lo rinfacciò. Ed io gli dissi che non sopportavo la puzza di cera. E lui, buttandola sullo scherzoso, risponnette che ci vuole vientu nelle chiese, ma senza spegnere le candele e portarsi via pure l’altare» ricordava don Vincenzino. «Però con don Pippo c’era rispetto. Gli raccontai un giorno il rospo che mi tenevo dentro e che mi mordeva l’anima per quell’innocente rimasto senza padre né madre, abbandonato, e preso in casa dagli zii, con un capezzolo in affitto per allattarlo. Gli dissi anche che era miegghiu che vinisse crisciuto da noi nonni. Don Pippo rimanette colpito da questa storia. Sapeva di suor Scolastica, che era andata in Argentina per visitare i suoi parenti stritti, emigrati come tante altre famiglie. Insomma, combinò tutto don Pippo. Fernando aveva ormai tre anni. Non sapeva, povero picciriddu, cosa fussi la minna di una madre da cui sucari latte».

    Il bambino venne consegnato alla religiosa come un pacco. A suor Scolastica però fu impedito di prendere l’aereo col piccolo che le era stato affidato, nonostante avesse con sé tutti i documenti per uscire dall’Argentina con il bambino. Fu costretta a riconsegnarlo al mittente e cioè allo zio Sebastiano. Occorrevano accertamenti per l’espatrio di quell’esserino che non era ancora evaso dall’infanzia. Troppi piccoli innocenti erano scomparsi. Un sistema malavitoso di fare commercio di bambini era già in competizione col regime, che affidava a famiglie compiacenti col governo i figli di genitori uccisi perché ritenuti nemici del sistema. La richiesta di adozioni, da parte di coppie senza figli, era alta. E il giro d’affari enorme. «Era come una vigna a malo terreno. E fare traffici con degli innocenti era una sporchezza. Prima e dopo la dittatura» fu il commento del calzolaio. L’espediente di indossare abiti religiosi era fin troppo sperimentato per non diffidare. La polizia aveva l’ordine di vigilare sulle situazioni equivoche. «C’erano ufficiali e sottufficiali che s’inchiappavano sull’attenti, stringendo le natiche per essere più dritti, di fronte a generali incordonati d’oro sui cappelli, sulle spalline, e pieni di medaglie come Tommasino, che si appendeva sul petto pure la medaglietta della prima comunione, chiudendo un occhio, se non tutti e due, pur di raspare qualcosa. Quando penso a queste cose, sono sempre più sbalorduto» disse don Vincenzino storpiando involontariamente certi verbi che non riusciva a coniugare, mutuandoli dal dialetto siculo e italianizzandoli. Arrivati a questo punto la sua faccia, incendiata dalla rabbia, era di fiamma.

    C’era ancora la dittatura di Videla, quando Fernando approdò a Mistretta. Era al secondo anno delle superiori. E su insistenza del nonno, che gli aveva pagato il biglietto aereo di andata e anche di ritorno per non destare sospetti, era volato in Sicilia per vivere con i nonni e concludere gli studi. Per l’ammissione alla scuola italiana, Fernando aveva dovuto superare un esame integrativo. Venne ammesso al primo liceo classico di Mistretta. La frequenza della scuola non fu tutta rose e fiori. C’erano spine in quantità. Venne rimandato a settembre in latino e greco.

    «Al liceo c’era una professoressa che disse a mio nipote che era meglio che imparasse cose di terra. Il latino e il greco non erano fatti per iddu». La tensione dei nervi a Fernando scivolò per il corpo e tra scoppi di risa e pianto raccontò al nonno quello che gli era accaduto. «Inselvaggito da quel racconto, mi armai di buona e santa volontà e andai a parlare con la professoressa. Dissi a lei, che mi aveva ricevuto con un sorriso largo largo, che la sua preparazione e la mia non appattavano». E dopo avere ammesso che il suo e il livello culturale dell’insegnante non combaciavano e cioè di non essere don Vincenzino alla sua altezza, il calzolaio aggiunse che "la vita è assai trafficosa". «Poi di botto, come una schioppettata, chiedei perché Fernando doveva imparare cose di terra, come lei aveva detto. Con sorrisetti pieni di malignità mi disse che mio nipote Fernando era troppo disturbato. Svogliato. L’intelligenza c’era, ma non si applicava. A questo punto feci la voce grossa, mandandogli di traverso quei sorrisetti maliziusi. Gli dissi che mio nipote veniva dall’Argentina, che era orfano di padre che era stato ammazzato da un gruppo di guerriglieri o di rapinatori, e non poteva essere mortificato. Aggiungetti che era un cagnuolo cchiù sensibbile delle ali d’una farfalla, che appena t’avvicini le sbatte e vola via. Aveva studiato sotto la dittatura di Videla, che faceva tacere le voci stonate, come lei sa. E lei mi risponnette che non si occupava di politica, slabbrando il suo sorriso che irritava puru u’ culu. Gli diedi una guardatura che scottava come un tizzuni».

    Don Vincenzino non era un litterato, come lui stesso ammetteva. La povertà di vocabolario, nonostante tutte le mattine leggesse l’Unità, lo portava ad arrotolare vocaboli ed espressioni siciliane in un italiano che erano come le cartine col trinciato. Però si faceva capire. «È questa la cosa importante» diceva. La professoressa del liceo aveva capito, facendo un sorriso stanco, che scivolò all’angolo sinistro della bocca. «Ci capimmu. E per farla breve, Fernando fu promosso».

    Pochi mesi prima che Fernando si diplomasse al liceo classico Alessandro Manzoni, a Mistretta, Videla era stato destituito. In Argentina si respirava un’aria che non era quella della perpetua cospirazione. La diffidenza tra cittadini o vicini di casa, le lettere anonime alla polizia per vendette personali, la paura di essere continuamente spiati, erano stati spazzati dall’impetuoso vento della libertà.

    Fernando in seguito prese la laurea in Economia a Palermo. Avrebbe dovuto frequentare il master in Scienze bancarie all’estero. Secondo don Vincenzino, quale migliore occasione per tornare a Buenos Aires e seguire i corsi di specializzazione nella locale Università? Quello della capitale argentina era un ateneo coi fiocchi, fu il suo insistente consiglio. E poi lì c’erano gli zii e i cugini. Ormai il popolo argentino aveva versato troppo sangue e gli erano rimaste poche lacrime.

    «Viviamo troppo poco da vivi e troppo tempo assai da morti. Sentire il sapore di essere liberi è una cosa troppo bella che non hanno potuto assapurari i morti. Mischini!» rifletté a voce alta don Vincenzino.

    L’avvento di Menem al governo, dopo quello di Raúl Alfonsín, faceva ben sperare in una ripresa economica dell’Argentina. Finalmente, diceva don Vincenzino al nipote, la sorte serviva buone carte. Con Menem al governo le occasioni di lavoro sarebbero cresciute come erba rampicante.

    «Se ti sfornicii a sturiari, avrai il fucile ingrillato per sparare a tutte le quaglie che vuoi» diceva il nonno al nipote, che solo se si applicava a studiare avrebbe avuto modo di tenere il dito sul grilletto e sparare a tutte le quaglie che desiderava. Le quaglie erano metafore, che stavano a significare le opportunità di lavoro. Che avrebbe fatto in Italia dove le raccomandazioni si contendevano i posti in palio? «Quannu la spiga non è ingranata, c’è poco frumientu e quindi poco pane». Don Vincenzino esprimeva i suoi concetti per immagini: quando la spiga ha pochi chicchi, c’è meno frumento e di conseguenza il pane scarseggia. La spiga rappresentava il lavoro e i grani di frumento le occasioni. E poi c’era di mezzo l’orgoglio di don Vincenzino, comunistaccio di provincia, che si faceva sentire ogni qualvolta prendeva in considerazione l’ipotesi di rivolgersi a qualche tirapiedi del paese per trovare un posto al nipote. Per Fernando si sarebbe pure umiliato. Ma era inutile perdere la faccia davanti ai compagni di partito e ai paesani. Che avrebbe detto l’avvocato Antoci, riconosciuto capo carismatico dei comunisti mistrettesi? Don Vincenzino non aveva pacchi di voti da offrire. E meno male, diceva a sé stesso. Un ipotetico baratto sarebbe stato un torto alla sua coscienza. Inoltre, sostare per ore nella sala d’attesa della segreteria di un onorevole era tempo sprecato. Le promesse erano assicurate. Ma sarebbero rimaste promesse.

    «Mi sentivo mordere l’anima al solo pensiero di parlare a tu per tu con un democristiano. All’epoca, la Dc era un partito infarettapopolo per il potere che aveva in mano» commentava a distanza di anni don Vincenzino, che coniava aggettivi dispregiativi come quello di mettere la gonna alla gente e menarla per il naso. Così come la moglie faceva con il marito in gonnella, delegittimandolo agli occhi dei compaesani, la cui ferocia nei giudizi non era dissimile da quella della savana.

    L’Argentina, invece, garantiva di farcela. Senza puntelli di raccomandazioni alle spalle. Era inutile umiliarsi, fare un inutile atto di contrizione ideologica. Disprezzando sé stesso e suscitando disistima nell’altro. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare. Questo lo sapeva don Vincenzino. E poi Fernando, pensò don Vincenzino, aveva dalla sua parte la gioventù e quando si è giovani il giorno è molto lungo. Se non era oggi, sarebbe stato domani lo sbocco lavorativo.

    La delusione di Menem ridusse in cenere l’ottimismo di don Vincenzino. Le parole incoraggianti soffiate come bolle di sapone si dissolsero a contatto con l’aria rovente delle contestazioni. I poderosi tagli alla spesa pubblica, le privatizzazioni e il forte indebitamento con l’estero erano i contrappunti di una politica che si sarebbe rivelata alquanto dissennata. La produzione ristagnava. E nelle acque morte dell’industria e dell’agricoltura era cresciuto il limo della disoccupazione. Che aveva ammorbato persino le prospettive di chi un lavoro ce l’aveva ancora. Il futuro non ammiccava benevolo. L’ottimismo era diventato siccagno. Rachitico.

    «Che viene a fare Fernando qui?» aveva detto Sebastiano a don Vincenzino, che voleva informarsi direttamente sulla situazione argentina. Don Vincenzino aveva chiamato al telefono il fratello, dilungandosi nella conversazione, che sarebbe durata chissà quanto se Sebastiano non gli avesse fatto notare che il costo di ogni scatto era proporzionale alla distanza. «Minchia, che sfrontatura! Ogni parola costa quantu un cuoppu di pasta» replicò don Vincenzino, equivalendo il valore di ogni parola a una confezione di pasta.

    La politica neoliberista di Menem, docile e attento esecutore delle direttive impartitegli dal Fondo Monetario Internazionale, aveva fatto ben sperare. Non a caso si parlava dell’Argentina come della tigre dell’America Latina. Il suo neoliberismo aveva attratto capitali esteri. Ma a che prezzo? Nuovi macchinari di produzione avevano espulso forza lavoro. La competizione sul mercato delle assunzioni aveva abbassato i salari. Il carovita era cresciuto a dismisura. Si erano create nuove povertà. Era l’effetto domino: una tessera che cadeva avrebbe fatto crollare le altre. La classe media resisteva, persino con rattoppi ai capi d’abbigliamento spesso fonte di vergogna. In tribunale, l’avvocato Octavio Perek, che passava per il più elegante tra i legulei, aveva trovato un espediente con cui aggirare la crisi economica che toccava pure la foggia. Indossava cravatte dai colori che strillavano, al fine di distrarre l’attenzione dal resto. Questo capo, a poco prezzo, serviva più a nascondere che a rivelare. «Mi dicono gli amici che le mie cravatte sono troppo sgargianti. Meglio il chiasso che il silenzio. Il primo distrae, il secondo invita a riflettere. L’uno distoglie l’attenzione, l’altro la mette a fuoco» diceva Perek a quelli con cui aveva più confidenza.

    I resoconti di inviati sulla grande stampa non invogliavano certo a trasferirsi in Argentina in quel momento. In un reportage de l’Unità, che don Vincenzino leggeva come la Bibbia, si parlava di uomini spauriti che con stomaci vuoti e bruciati dall’aguardiente si aggiravano a tutte le ore per le strade di Buenos Aires. Sui marciapiedi scorreva un’umanità maleodorante, che non arrossiva nel tendere la mano a coppa quando la bottiglia era vuota. I più giovani erano anche violenti. L’avvilimento, a volte, non ammetteva che si potesse negare il raccatto d’un aiuto, commentava il giornalista. Il numero di accoltellamenti e rapine cresceva di giorno in giorno. Il campionario umano, che vagava senza meta, comprendeva soggetti di tutti gli strati sociali. Dall’obrero all’empleado, entrambi senza più fabbrica e scrivania. E operai e impiegati, espropriati del loro lavoro, erano maggioranza nella torma di disoccupati che affollavano vie e piazze. Non era raro trovare in quella massa cenciosa qualche patron, che incautamente si era spogliato dei propri beni nell’illusione di salvare la sua azienda. Tante donne si erano accorciate le gonne per fare bottega del proprio corpo. Il quotidiano ospitava anche il servizio a firma di Luis Sarabia del Clarin. L’inviato argentino, a questo proposito, riportava un’intervista a una donna di popolo. Era emblematica, scriveva, la storia di Rosy Soares. La donna aveva cinquant’anni e si era sposata tardi con il messicano Pedro Fuentes, che faceva il manovale ed era più giovane di lei di una decina d’anni. Rosy, davanti al taccuino del giornalista del Clarin e del fotografo, protestava ad alta voce, mentre un coro di donne ne condivideva le parole muovendo ritmicamente la testa per dire sì-sì. Finché Rosy aveva sbottato con queste parole, riportate pari pari dall’inviato: «Non posso mettermi neanche a fare marchette a questa età. Sono ormai un pezzo d’antiquariato» diceva, mostrando ginocchioni che sembravano teste di neonati e dimenando i fianchi che erano due paracarri, scriveva Luis Sarabia. Il marito disoccupato, che doveva portare il pigiama con una sola riga per quanto era magro e che stava a fianco di Rosy, fumando un mozzicone di sigaretta che stringeva con due dita, dava voce, a basso volume, a una risposta istrionica: «Qualche amatore di cose vecchie lo trovi sempre». Le bocche degli astanti, che facevano ressa attorno al giornalista che intervistava Rosy, si aprirono per liberare risate screanzate. E lei di rimando, guadagnandosi l’applauso delle donne: «Ti farebbe comodo avere una moglie puttana...».

    Questi episodi, di volgere situazioni drammatiche in commedie, accadevano in ogni angolo del Paese. Giusto per dare sfogo alla rabbia di non avere i mezzi per sfamare figli che pigolavano attaccati alla gonna della madre; i più grandi, invece, si arrangiavano da sé. O con lavoretti malpagati o con i furti, se la generosità di chi possedeva abbastanza era stata scarsa, annotava l’inviato del Clarin. Che, dopo avere riposto il taccuino nella borsetta a tracolla, disse che non sapeva neanche lui se l’indomani avrebbe trovato il suo posto in redazione. Più che altro se n’era uscito sulla precarietà del lavoro, che riguardava anche lui, per un atto di solidarietà. L’aveva detto ma non scritto.

    «La stampa, caro Fernando, attacca l’asino dove vuole il padrone. Altro che libertà di penna! È sempre stato accussì. Sono pochi i giornali che vanno controcorrente. Il giornalista è alla manera della giovanotta che dice: Mamma Cicco mi tocca, toccami Cicco che la mamma non c’è. La critichezza è un fumalizzo per impressionare la ggente». Insomma, al giornalista piace di essere corteggiato dal potere, criticandolo in apparenza. «Sono pochi i scassaminchia, che fanno girare i cugghiuna a quelli assittati nelle poltrone e che parlano di libertà, fumando beatamente o mangiando gelato col cucchiaino d’argento. Libertà di che, per la povera ggente? Di mòriri di fame? Iddi si ni stanno spaparanzati al bar di fuori, quando è estate, e gudìrisi la loro libertà. I scassaminchia sono gente di coraggio, che scrivono le cose come stanno. Ma sono comu le mosche bianche» disse don Vincenzino.

    Tutte le notizie sugli scioperi e la disoccupazione dilagante in Argentina non erano affatto gonfiate dalla Tv e dai giornali, gli aveva detto Sebastiano, che gestiva un ristorante di lusso e per questo al riparo dalla crisi, in un’altra conversazione telefonica meno lunga della prima. «I ricchi, infatti, sono diventati più ricchi» aveva aggiunto il fratello.

    Le cacerolazos, le manifestazioni al suono del pentolame, erano all’ordine del giorno e diffuse dalle tv di tutto il mondo. Sembrava che ciascuno si fosse portato la batteria da cucina appresso. Plaza de Majo risuonava a tutte le ore dei forsennati battiti di cucchiai e forchette su padelle e casseruole che, se erano inservibili per i fornelli, erano buoni come surrogati di una protesta via via a corto di fiato. I polmoni si erano sfibrati a furia di espellere, con rabbiosa veemenza, aria piena di acredine. E così i cittadini avevano eletto le suppellettili a rincalzo delle voci senza più energia.

    La pressione sociale montava di ora in ora. La turbolenza si era inevitabilmente abbattuta anche sui tanti emigrati italiani, ritrovatisi senza un’occupazione dalla sera alla mattina. Era più la delusione che la scarsità di cibo a rinsecchire quella ramaglia umana ammassata ai bordi di un’economia che in passato aveva ricompensato l’intraprendenza di nonni e genitori. Per cui tanti, con le mani inutili ficcate nelle tasche, passavano ogni giorno a fare la fila all’ufficio di collocamento. Non che sperassero di trovare lavoro. Più che altro lo facevano per darsi un itinerario. Erano tempi in cui le pattumiere erano vuote, non essendoci nelle famiglie tanti scarti con cui riempirle. «Tutto mi sarei immaginato, tranni che la poveraglia cercasse nella spazzatura qualcosa da addentare. È proprio vero che la vita fa di noi quello che gli va. A capriccio suo» filosofeggiò alla fine il calzolaio.

    Don Vincenzino, col morale sotto le scarpe, si convinse a malincuore che era meglio per il nipote partire per gli Stati Uniti d’America. Che il calzolaio odiava per avere asservito e sfruttato l’America Latina, il cui solo torto era quello di avere un sottosuolo ricco: miniere d’argento, d’oro, di rame, che avevano ingolosito i grandi capitali per cinque secoli. A Potosì donna Mercedes e donna Teresita avevano fatto a gara nel tenere banchetti sontuosi, buttando dalle finestre la stoviglieria d’argento a fine festa. Questo avveniva in tempi lontani. Tre secoli fa o giù di lì. Don Vincenzino lo aveva letto in un libro di Eduardo Galeano, un compagno nato nel maltrattato Paraguay. Il volumetto, scritto in spagnolo, glielo aveva regalato l’avvocato Antoci che non conosceva la lingua castigliana e sapeva che don Vincenzino la padroneggiava invece. Infatti, don Vincenzino leggeva correntemente lo spagnolo, ma lo parlava incespicando per mancanza di esercizio.

    Ora negli anni Novanta, del Millenovecento, non c’erano più indigeni o neri che preferivano scappare nella foresta, i djuka, o suicidarsi pur di non lavorare nelle miniere, che li uccidevano lentamente per fame o per avvelenamento del mercurio impiegato nelle vene d’argento della montagna. La musica, per don Vincenzino, era la stessa nonostante il tempo trascorso. Il marchese di Pombal, riferito sempre dal compagno Galeano nel libro regalatogli dall’avvocato Antoci, lo diceva a proposito della guerra. Che non si combatteva più con la cavalleria e i cannoni. L’arma di offesa era la finanza. E portava l’esempio dell’Inghilterra che con le sue banche aveva conquistato il Portogallo, nella colonia portoghese del Brasile, senza avere combattuto una sola battaglia. Questo avveniva molti anni fa. Gli Stati Uniti ora la imitavano, attraverso il Fondo Monetario Internazionale. «Senza picciuli non si canta messa. Figurarsi con la guerra» osservava il calzolaio sullo strapotere dei soldi. «Ma come si fa a mettere sullo stesso piano il pesos e il dollaro? Bisogna essere dei pazzi scatenati soltanto a pensarlo» diceva don Vincenzino al nipote. «Ci voli mirudda, mirudda ci voli», ci vuole cervello, cervello ci vuole, aggiungeva in siciliano stretto. Aveva fatto ricorso a una forma di imperativo categorico, che scaturiva dalla ripetizione della frase e che cambiava solo nella sistemazione del verbo di volontà. Prima all’inizio e poi alla fine della frase. Per bilanciare l’equilibrio sia nell’espressione dialettale sia nel suo significato: riflettere prima di operare. La delusione cedeva il posto alla rabbia. Per poi chetarsi in apparente rassegnazione. Era un’ecolalia.

    Così Fernando era partito alla volta di New York per frequentare il master alla Columbia University. I profitti non tardarono ad arrivare. Il nipote si era applicato seriamente negli studi. Si era sfurniciatu, come era solito raccomandargli il nonno. E fu alla Columbia che aveva conosciuto Jennifer, studentessa in Lettere. Tra i due divampò la fiamma della passione, che cedette il passo all’amore. Fu Jennifer ad appassionarlo alla letteratura. Fielding, Sterne, Carlyle, London, Kipling, Melville, James, Joyce e soprattutto Mark Twain furono le prime letture in inglese. Jennifer era figlia del medico argentino don Carlos Mutis, emigrato negli Stati Uniti perché spinto da un suo collega con il quale aveva frequentato il corso di specializzazione in pediatria all’Università di Yale, e dell’insegnante di matematica Maria do’ Campos, che stava per Campisi, anche lei di Buenos Aires, il cui bisnonno era emigrato da Motta D’Affermo.

    Fernando per quattro anni era rimasto negli Stati Uniti d’America. E per tutto questo tempo non era più tornato a Mistretta. Il giorno del conferimento del master, don Vincenzino si fece sentire per telefono. Non era potuto andare per via delle articolazioni alle gambe. La cartilagine alle ginocchia aveva avuto una strappatura, disse. «Scusami nipote mio, ma ogni passo è una bestemmia. Ce l’hai fatta e sono contento per te. Questa è la cosa importante. Se avissi fattu la valiggia, che non ho, cosa avrei aggiunto al tuo traguardo? Avissi dovuto aggiungere un posto a tavola, questo sì. È giusto che oggi tu festeggi u’ mister o come minchia si chiama...» e prima di chiudere la telefonata: «Ubriacati di vinu e di sogni, che si avvereranno. Te lo dice tuo nonno che, anche se colpito da cataratta, ha la vista lunga».

    II

    Fernando aveva raccontato a Jennifer di quel nonno siciliano, emigrato giovanissimo in Argentina con la famiglia e costretto a diciotto anni a tornarsene al paesello per ragioni passionali. Jennifer si eccitò al racconto della storia del nonno calzolaio. Stava lavorando sul fenomeno dell’emigrazione in Argentina, collazionando le storie più singolari degli emigrati. Ne aveva intervistati una quindicina. Tutte le storie, però, si somigliavano più o meno: la povertà, il sogno del riscatto e il benessere. «Quella di tuo nonno mi sembra una storia incredibile. Anzi, stando a quel poco che mi hai raccontato, l’incredibile è superato dall’assurdo. Quando decidi di andarlo a trovare, vengo con te. Voglio conoscerlo e parlargli, magari intervistarlo per la mia ricerca».

    Fernando, che aveva trovato un posto nella Bank of America, durante le vacanze tornò a Mistretta. Era agosto e il nipote voleva fare un’improvvisata al nonno. Portò con sé Jennifer, come le aveva promesso.

    Quando la presentò a don Vincenzino, il volto del nonno si illuminò. «Aviri na’ biddizza accussì è na’ furtuna» disse il calzolaio al nipote. Che tradusse dal siciliano quello che aveva detto il nonno: avere una bellezza così era una fortuna. Lei rise, al punto da slogarsi la mascella. «Voi americani spalancate troppo la bocca quando ridete. Esagerati in tutto» fu il commento di don Vincenzino in spagnolo. Jennifer lo pregò di non farla ridere di più, perché la mascella le doleva.

    Ogni mattina, uscendo da casa, Fernando e Jennifer passavano dalla bottega del nonno per dargli il buon giorno. Poi Fernando insieme alla giovane fidanzata faceva i suoi giri, che consistevano nella colazione al bar, a base di granita al limone per lui e al caffè con panna per lei, oltre alle due brioches col tuppo, con la crocchia, nell’acquisto del Giornale di Sicilia e del Corriere della Sera, che di tanto in tanto leggeva pure in America per informarsi su quello che succedeva in Italia.

    La meta finale era la Villa Garibaldi, dove era sparita la terra battuta dei vialetti, sostituita da rettangolari mattonelle color cioccolato fondente, che ne alteravano la bellezza selvaggia di prima. Gli assessori civilizzati avevano ammattonato i vialetti perché non si sporcassero le scarpe col terriccio. Quando raccontò al nonno il cambiamento, che Fernando aveva appreso da un certo signor Dino Di Salvo, emigrato a Milano sempre per ragioni di lavoro e che si era seduto sulla stessa panchina in cui sostava il giovane nipote dello scarparo, don Vincenzino commentò: «Chi ha fatto questo, l’intelligenza deve uscirgli dalle orecchie. All’epoca noi comunisti ci mittimmo di traverso. Se le scarpe si sporcano, si puliscinu, dissi all’assessore a tu per tu. Anzi si devono spazzolare, con vernice e una passata di panno finale. Questi gran viddani, cafoni, con i calli alle mani per l’uso della zappa, non sanno che la spazzolatura fa bene alle scarpe. Ma che ne può sapere uno che indossa scarpi di pilu». Cheee? Scarpe di pilu? fu la domanda dell’incuriosita Jennifer. Al che don Vincenzino spiegò che si trattava di calzari ricavati di pezzi di copertoni di auto e trattenuti alle estremità da fil di ferro intrecciato per tenere accostate le due bande. Di solito erano i contadini poveri a calzarli. Ma non ce l’aveva con i contadini. Con un gioco di parole si sarebbe detto che ce l’aveva con quei personaggi che propendevano più per la coltura che per la cultura, che volevano far mostra di possedere. «Il contadino è franco, specchiato. Ammira l’uomo istruito e se ne fa un vanto di averlo conosciuto, ma non si azzarda ad appattare con lui. Nun avi questi pritisi...» disse don Vincenzino a scanso di equivoci.

    Comunque tornando alla villa comunale, che era stata dedicata all’eroe dei due mondi, cent’anni prima era stato il giardino di un monastero. I monaci del convento, per decenni, avevano avuto cura di ogni dettaglio: dalla potatura di alberi secolari, allo sfoltimento delle siepi, alla piantumazione di nuovi tipi arborei, alla disposizione di fiori su superfici scelte con raziocinio, in modo da disegnare geometriche composizioni con i colori dei petali. L’effetto era di grande impatto visivo. Era stata mantenuta la tradizione di come mantenere la villa, che prima era stata un semplice giardino. I frati francescani, per semplicità connaturata all’Ordine di appartenenza, lo chiamavano orto. Fernando, seduto su una delle panchine, poteva darsi alla lettura del giornale e scambiare qualche parola con l’occasionale vicino di panchina, mentre Jennifer curiosava qua e là con la sua Nikon a tracolla, scattando foto anche a chiodi arrugginiti su muri malmessi, oltre alla lussureggiante flora. Tra i tipi floreali non c’era che da scegliere. C’erano uccelli del paradiso, dalie, cuori sanguinanti, ninfee, gazazie, tulipani, rose rosse e rosa. Oltre alle comuni margherite, prese d’assalto da ignote coppiette e spelacchiate al ritmo m’ama-non m’mama. E se l’ultimo petalo disilludeva, ecco un’altra margherita da cogliere finché l’ultimo petalo confermasse il responso desiderato. C’era un guardiano, il fiorista don Paolo, i cui strilli si sentivano fino alla confinante piazza che prendeva nome dalla chiesa di San Francesco, se vedeva toccare un fiore. Altra cosa era fotografarli. Anzi, don Paolo ne traeva soddisfazione. Un giorno Jennifer gli chiese di fotografare lui. Don Paolo disse di aspettare: si doveva cambiare d’abito. «Un minuto, signorina, vado a casa e torno subito. Tanto abito qui vicino». Non ci fu verso di farlo posare con i suoi fiori, mentre zappettava vicino a un cuore sanguinante. Aspettò mezz’ora, un’ora, ma di don Paolo non c’era traccia. Arrivò dopo circa due ore. Sembrava un altro. Indossava un abito grigio, camicia bianca e cravatta nera. «Ma don Paul, non è un funerale». E lui: «Signorina, si riferisce alla cravatta nera? È che ho perso mio padre». Jennifer si crucciò di essere stata poco accorta con le parole. Con voce dolente chiese da quanti giorni avesse perso il suo papà. «Da dieci anni, signorina». Jennifer si trattenne dal ridere. Le guance gonfie e le labbra serrate, soprattutto la luce degli occhi, non sfuggirono a don Paolo. Che, con voce rugginosa e inclinata verso il basso, masticò la frase: «Ridi ‘sta minchia!».

    Jennifer fece crepitare la macchina fotografica. Don Paolo, appoggiato con un braccio a una mezza colonna decapitata del capitello, fu investito dalla grandinata di scatti. Che quando cessarono disse, chiedendo permesso, che si andava a cambiare perché il vestito doveva durargli per tutta la vita che gli rimaneva. «A Mistretta avete come ospite perenne la morte dentro casa. Le donne di mezza età sono tutte vestite di nero, gli uomini calzano coppole nere, per fortuna che ci sono i giovani. Le ragazze si vestono con colori sgargianti, i loro coetanei indossano jeans e camicie bianche o con tinte vivaci».

    «Che vita sarebbe senza la morte? Noi siciliani abbiamo questo vantaggio: sappiamo che cos’è vivere» rispose don Paolo. E continuò che erano condannati alla noia e che il funerale di qualcuno nel paese interrompeva l’ozio che avevano nelle ossa. Aggiungendo alla fine: «La gioventù: qui, da noi, è una trappola. Vivi d’illusioni. Quando vai avanti con gli anni, capisci che sei fatto di carne e puoi imputridire. Ci dicono quelli del Nord che non abbiamo voglia di arrotolarci le maniche e pensare. Ma come facciamo se non abbiamo camicia? Siamo rassegnati e aspettiamo la signora vestita di nero, con la quale facciamo due chiacchiere tutti i santi giorni».

    Fernando non era ancora sposato. E il nonno, in passato, posando la scarpa sul grembiule di cuoio spesso aveva dato voce alla sua fantasia: «Avrai accanto a te una regina» diceva di fronte all’immagine che vedeva solo lui nella sua testa. Parlava di regina perché era la figura che contava nelle carte napoletane, con cui aveva dimestichezza e frequenza. E anche perché, secondo lui, riassumeva tutte le virtù che si potessero conferire ad una donna: bella, ricca, fedele, appassionata, mamma premurosa. Questo pensava nella sua semplicità di persona col cervello a binario unico. Fatto sta che ogni qualvolta rivolgeva al nipote questo augurio, in lui c’era una resurrezione dei sentimenti. Dopo aver conosciuto Jennifer, don Vincenzino disse al nipote. «Ecco la carta di cui ti parlavo, tempo fa. Però non giocartela come una regina di coppe quando la briscola è a bastone...».

    All’apparenza don Vincenzino non era un vecchio consumato dai ricordi e dai rimorsi. Almeno così aveva creduto Fernando, sino a qualche ora prima che l’incontrasse incupito e piegato più su sé stesso che sulla tomaia sulla quale stava lavorando distrattamente. Quel giorno Fernando era da solo. Jennifer si era svegliata con un forte mal di testa ed era rimasta a letto. Lo sboccio d’ansia e d’energia di don Vincenzino convinse Fernando che il nonno si trovava nel disanimo di chi è portato dalla ragione a rivelare qualcosa che il cuore invece sconsiglia. Percepiva che egli si dibattesse tra dire e non dire. Ma cosa? La marea linfatica e sanguigna, che ne infuocava i lobi, accese la curiosità di Fernando. Prevalse però il rispetto per ciò che tormentava il nonno. Si convinse che l’angustia del censimento era per il nonno un pretesto per nascondere la vera ragione della sua inquietudine. Che era troppo esagerata per un semplice censimento. Pertanto, salutò il nonno e si avviò per l’itinerario che gli era consueto.

    Il fratello Sebastiano quel giorno gli aveva telefonato che la figlia Gesualda era morta a San Paulo do Brazil, dove si era trasferita, per un tumore al seno. Era già stata operata. Dopo che i medici dell’ospedale dell’Assuncion le avevano asportato una mammella, il suo compagno l’aveva abbandonata.

    «Fitusu!» commentò don Vincenzino mentre il fratello Sebastiano gli stava raccontando gli ultimi anni di vita della figlia. Furono i sanitari a telefonare a Sebastiano, su istruzione della ricoverata, piena di metastasi e ormai consapevole che era giunta al capolinea. Don Vincenzino non voleva turbare il nipote e fargli provare dolori in cumulo. Pensò: dopotutto era la madre e voleva dirglielo. Era vero che con la morte si chiudevano le porte dell’odio, ma si aprivano quelle del rimorso. L’odio è il rovescio dell’amore, che è il dritto, e per il nipote sarebbe stato un ribollimento di rimpianti per quella mamma che non aveva conosciuto e che di tanto in tanto telefonava per sentire la sua voce, sempre negata dal figlio. Era quest’aspetto a consigliarli di non dirlo. Anche se Fernando si era augurato che la mamma fosse morta invece di abbandonarlo come una scarpa vecchia per rifarsi una vita, come aveva raccontato al nonno. Che si era tenuto per sé la triste notizia. Senza confessarlo neanche alla moglie, che era di lingua sciolta. Si portava il segreto e pativa col fegato. La ragione, come aveva intuito il nipote, gli consigliava di rivelare la morte della madre, il cuore però era di parere contrario, sussultando all’idea di intristirlo. Aveva inscenato la storia del censimento, che era reale, facendosene un maledetto cruccio. La parola è una preziosa malattia. A furia di sforzarsi di trovare le parole al pensiero, don Vincenzino credeva alla storia del censimento in corso e ai suoi sospetti. «Figghi di bbuttana nautra vota cu’ sta minchia di censimientu». E raccontò che don Fefè, prima che sposasse Gesualda, faceva parte della truppa di quelli che censivano i residenti. Volevano sapere quanti anni avesse. Se era sposato e con figli, che lavoro facesse. «Quanti cazzi!» era l’espressione infastidita dello scarparo, quando il discorso verteva sul censimento, che era argomento di violente discussioni.

    Don Vincenzino accolse con piacere il desiderio di Jennifer di raccontarle la sua storia. A puntate, però, aggiunse: troppo lunga per essere sintetizzata, disse. Jennifer gli fece osservare che avevano un mese di fronte a loro. Bastava solo disciplinare il tempo e cioè darsi un orario e rispettarlo. A meno che non ci fossero stati dei contrattempi. In quanto alla durata delle interviste non avevano posto limiti. A tre giorni dall’arrivo di Fernando e Jennifer, iniziarono le sedute. E in un momento in cui stavano da soli, don Vincenzino le disse col tono basso e i modi del cospiratore: «Ti racconterò la mia vita. Ma non mi chiedere di più. Sarebbe come abbronzare una camicia col ferro da stiro». Jennifer apprezzò la metafora e capì che c’erano cose che egli non poteva raccontare. Che facevano parte del segreto di famiglia. Quale famiglia non ne aveva? La giovane americana non fece domande sul perché di queste omissioni calcolate per ragioni che le sfuggivano, ma che dovevano avere a che fare con Fernando. Perché questa precisazione l’aveva fatto in assenza del nipote? Era stato un caso o una scelta deliberata? Rinunciò ad approfondire il problema insorto. Jennifer disse soltanto che era lui il padrone della storia e che non avrebbe fatto domande. Il che conquistò la fiducia di don Vincenzino.

    A distanza di anni, fatti e personaggi non avevano perso freschezza. Certo, don Vincenzino vi metteva molto del suo per riparare le smagliature prodotte dal tempo nei ricordi. Certi dettagli forse non stavano più neanche nella memoria degli stessi protagonisti che non avevano ancora stirato le gambe. Don Vincenzino era

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