Sangue Amaro
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Info su questo ebook
Antonio vive a Scampia, un quartiere dimenticato da Dio e dallo Stato. Sulle sue spalle grava la responsabilità di crescere il fratellino Gabriele, inserito in un programma di recupero per minori a rischio.
Ci sono persone che combattono e non si arrendono al senso di impotenza.
Greta è una psicologa. La sua vita non l’aveva preparata al degrado delle Vele, alla silenziosa battaglia ingaggiata da un ragazzo cresciuto troppo in fretta e da un bambino che fatica a riconoscersi nei suoi coetanei.
Ci sono legami che nascono a dispetto delle barriere innalzate dai pregiudizi e dalla società.
Antonio, Greta e Gabriele sono tre figli di una terra amara. Le loro esistenze si intrecciano, si scontrano e si completano sullo sfondo di una realtà difficile e pericolosa, che li minaccia e sembra precludere loro ogni possibilità di avere un futuro.
Sangue Amaro. Una storia di fiducia, di amore, di speranza.
I proventi della vendita del formato cartaceo di Sangue Amaro saranno devoluti alla Onlus SalvaBimbi, operante sul territorio di Scampia.
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Anteprima del libro
Sangue Amaro - Angela D'Angelo
NOTA AUTRICE
Sangue Amaro nasce come un racconto a puntate. Due mesi fa non avrei mai immaginato potesse diventare di più. Ma è accaduto, e di questo devo ringraziare i lettori che mi hanno seguita settimana dopo settimana. La loro stima e i loro incoraggiamenti mi hanno permesso di rendere questo lavoro un mezzo per poter fare qualcosa di importante. Ecco perché, oltre all'ebook GRATUITO che avevo promesso, Sangue Amaro verrà anche stampato. Badate bene, l'intero ricavato della vendita del cartaceo sarà devoluto alla Onlus SalvaBimbi, operante sul territorio di Scampia.
A Secondigliano, così come in qualsiasi altro piccolo o grande centro italiano, c'è anche questo: la solidarietà, l'assistenza, la bontà.
Oggi lo so, più di ieri.
Sangue Amaro, infatti, mi ha permesso di scomporre, sezionare e analizzare la mia terra, mi ha aiutata ad andare oltre a ciò che i miei occhi vedono tutti i giorni e scovare bellezze celate parimenti a una miseria che non si può raccontare: si comprende solo vivendola.
Pensavo di aver accumulato abbastanza esperienza da non essere toccata dalle immagini che creavo, ma non è stato così.
Ho rivissuto i coprifuochi durante le guerre fra clan, quando ero troppo piccola per capire, ma già sapevo che dopo le 18.00 non c’era più possibilità di uscire di casa. Ho rivisto la mia e le famiglie dei miei compagni di classe scortarci a scuola anche se distava cinquanta metri dalle nostre abitazioni. Ho ricordato le manifestazioni di protesta, quelle a cui molti non partecipavano per paura di essere riconosciuti.
Infine, Sangue Amaro mi ha sussurrato all’orecchio i nomi di persone che non dimenticherò mai.
Antonio, il mio protagonista, ha una lista scritta sulla pelle.
A Scampia, a Casavatore e a Casal di Principe i nomi, oltre che sulla pelle, si incidono nel cuore.
In cima alla mia lista c’è un uomo che è stato sacrificato la notte di Natale in quelle che da noi si chiamano vendette trasversali
.
Per lui non c’è stata speranza. Voglio credere che per la figlia che non ha accompagnato all’altare, per i figli che non hanno fatto in tempo a imparare a pronunciare la parola papà
e per i nipoti che non avranno mai la possibilità di conoscere il nonno quella speranza ci sia.
La speranza, nella mia storia, è rappresentata da Antonio, Greta e Gabriele.
Ognuno di loro è un simbolo.
Antonio è l’uomo che pone la sua dignità e la sua famiglia al di sopra di tutto, che soffre e ama senza risparmiarsi, pur conoscendo le conseguenze delle sue scelte di onestà.
Greta rappresenta la bellezza della mia terra, che sa anche amare i suoi figli, che li coccola e li protegge tutti, senza distinzione. Lei racchiude il sentire delle famiglie in cui dove mangiano quattro, mangiano anche cinque
e per cui le associazioni si battono ogni giorno.
Gabriele è il futuro.
Che parola preziosa... FUTURO!
Il presente è circoscritto, il passato è archiviato, ma il futuro è una pagina bianca.
Io voglio scriverla usando come inchiostro i valori a cui mi sono ispirata.
Voglio riempirla d’amore.
Spero che questo viaggio vi piacerà, che Napoli possa catturare un pezzo del vostro cuore.
Mi dispiace se invece per qualcuno aumenterà l’avversione per questa terra amara.
Il mio proposito era raccontarvi un po’ di me, un po’ della mia città e un po’ di personaggi a me cari obbedendo a un unico principio: NON MENTIRVI MAI.
Questa è la mia realtà, la mia visione.
Sono onorata condividerla con voi.
SALVARE UN BAMBINO FACILE COME UN RESPIRO
L'associazione SalvaBimbi è una Onlus che combatte il NON SAPERE.
La missione dei volontari è, infatti, azzerare le troppe e drammatiche morti dei bambini vittime del NON SAPERE, delle difficoltà delle famiglie a cui non è concessa la possibilità di pagare per acquisire competenze salvavita.
SalvaBimbi si impegna ogni giorno a diffondere GRATUITAMENTE la conoscenza delle manovre atte a evitare il soffocamento dei bambini, insegnando ai genitori come aiutare i propri figli.
Le manovre di deostruzione e rianimazione BLSD/PBLSD si possono imparare e si devono imparare.
Perché ancora troppi bimbi muoiono per un boccone ingoiato male.
Perché saper aiutare i nostri figli, i figli di tutti, è un dovere etico e sociale.
L'impegno di Domenico Buonanno e dei suoi collaboratori è ammirevole; la loro esperienza di volontariato è pulita, accessibile a tutti e utile, come mostrano le numerosissime testimonianze di coloro che hanno restituito il respiro a chi rischiava di perderlo per sempre.
Ho assistito personalmente alle tragiche conseguenze di questo tipo di NON SAPERE, e questo è uno dei motivi per cui ho scelto di devolvere il ricavato delle copie cartacee di Sangue Amaro a SalvaBimbi.
Il loro sogno è anche il mio.
Grazie al loro lavoro quotidiano, ai servizi gratuiti offerti nelle scuole presenti sul territorio, tra cui la Virgilio 4 di Scampia, salvare un bambino può diventare per tutti noi... facile come un respiro!
Per avere maggiori informazioni sull'associazione potete consultare il sito ufficiale: http://www.salvabimbi.it/
CAPITOLO 1
Guardai l'orologio. Erano già le 18:00.
«Martina, posa i pennelli nell'armadietto» ordinai, mentre cercavo di non perdere di vista Gabriele.
«Greta, sono ancora bagnati!» protestò la bambina, mettendo il broncio.
Disturbo dell'attenzione. Affido esclusivo alla sorella del genitore di sesso femminile. Quattro cugini al primo grado di parentela.
Non dovevo stupirmi se il bisogno di ordine di Martina era così pressante.
Quante persone c'erano nella sua nuova casa? Sei, escluso lei, forse otto, forse venti.
Difficile stabilire con precisione i limiti di un nucleo familiare, quando la famiglia coincide con il condominio per necessità e per abitudini sociali.
E le Vele di Scampia¹ non erano un complesso residenziale normale.
Erano l'inferno in terra.
«Signurì, Gabriele si è pigliato il mio portapastelli.»
Strinsi leggermente gli occhi, una reazione istintiva che stavo cercando di moderare da quando lavoravo come educatrice per il programma di recupero dei minori a rischio dell’Istituto Montessoriano di Scampia². Gli errori grammaticali, l'uso del dialetto, l'incapacità di scegliere un registro linguistico consono erano naturali in soggetti così giovani in un contesto culturalmente marcato.
Eppure, ogni volta che i bambini mi appellavano con il titolo di Signurì
, avvertivo nelle orecchie lo stridio delle unghie che grattavano su una lavagna.
«Le mamme chiamavano così le insegnanti», aveva detto mia nonna. Non capitava da ormai mezzo secolo. Non capitava a Posillipo³, il quartiere della Napoli bene in cui ero cresciuta. Ma le periferie, della Napoli che conoscevo io, avevano solo il nome.
«Gabriele, restituisci il portapastelli a Salvatore.»
Usai un tono severo, anche se con Gabriele cercavo di andarci piano. È un uomo di sette anni, mi ripetei ancora una volta, sostenendo il suo sguardo contrariato. C'era una durezza nei suoi occhi scuri che mi turbava e mi aveva strappato qualche ora di sonno negli ultimi mesi.
Nessun bambino avrebbe dovuto avere quello sguardo.
Nessun bambino avrebbe dovuto lasciar trasparire quella rabbia.
Ma Gabriele Russo non era un bambino normale, come non lo erano Martina, Salvatore e i restanti sei bambini che dopo le lezioni ordinarie venivano affidati a me per le attività di recupero e i laboratori didattici.
Gabriele rovesciò il contenuto dell’astuccio sul banco, senza smettere di fissarmi. Poi lo chiuse e lo passò a Salvatore. Metodico, pacato, impassibile.
«Non mi hai detto di restituirgli quello che c’era dentro.»
No, non ero stata specifica nella mia richiesta.
Il fiato mi si spezzò in gola e strinsi i pugni per non mostrarmi debole. I bambini, come gli adulti, riuscivano a fiutare la tensione e ad approfittarsene.
Nessuna empatia verso i coetanei. Difficoltà a stabilire un dialogo con insegnanti e assistenti sociali.
Gabriele aveva analizzato la mia indicazione e ristabilito le posizioni in meno di un secondo.
Comandava lui, era stato questo il segnale lanciato ai compagni e a me.
Cercai i suoi occhi, contrariata, ma prima di poterlo rimproverare lui mi sorrise. Una leggera contrazione del labbro a sinistra.
Schivo. Alla ricerca di approvazione.
No, lui non voleva imporsi a me. Gabriele cercava di stupirmi, di dimostrami che lui era diverso. E lo era davvero.
«Consegna i pastelli. Tuo fratello ti starà aspettando fuori, non perdiamo altro tempo» gli dissi, ben sapendo che era un colpo basso. «Martina, chiudi l’armadietto, i pennelli non prenderanno il raffreddore» continuai.
Gabriele restituì a Salvatore gli oggetti sottratti e si mise in fila con i compagni, io aprii la porta e attesi che uscissero tutti.
Le altre colleghe già erano fuori dalle classi, il cicaleccio dei bambini riempiva i corridoi dell’edificio.
«A domani» urlai all’indirizzo delle ragazze, ricevendo in risposta sorrisi e saluti. Daniela mi ignorò. Sospirai.
Era l’unica collega con cui non ero in grado di stabilire un contatto.
Perché ero una psicologa.
Cosa ci facevo in quell’istituto? A differenza di ciò che pensava Daniela, non bastava un padre anestesista per trovare lavoro. Ero iscritta all’albo e avevo da poco terminato la scuola di specializzazione, ma l’unica occupazione che mi permettesse di avere un pizzico di indipendenza era stato quel posto da educatrice.
Non ero l’unica psicologa lì a lavorare al di sotto delle proprie competenze.
Gli educatori ci odiavano.
«Toni non ci sarà» mi avvisò Gabriele, mentre ci avvicinavamo all’uscita della scuola.
Non gli risposi subito. Aspettai che i miei bambini raggiungessero le famiglie e le suore.
Non tutti tornavano in una casa.
«Lo aspetterò con te» risposi, quando gli altri si furono allontanati. Solo allora mi permisi di toccarlo, posandogli una mano sulla spalla.
Gabriele sussultò, ma non si allontanò.
Il cuore mi si riempì di tenerezza. Di pena.
«Doveva fare lo straordinario» mi comunicò.
Odiai il suo tono. Era sulla difensiva. Non l’avrei forzato, decisi, anche se l’assistente sociale sosteneva che ero l’unica con cui riusciva a stabilire uno scambio, pur pretendendone uno alla pari.
«Lo so, Gabriele» lo rassicurai, evitando di lasciar trapelare una nota frustrata dalla mia voce.
Antonio Russo era un eroe per suo fratello. A ventisette anni faceva al piccolo da padre e madre, oltre ad ammazzarsi di lavoro per mantenere la loro famiglia disfunzionale.
Mantenni il contatto con la sua spalla e con l’altra mano azzardai una carezza, ben sapendo di osare troppo.
Be’, non c’erano esami all’università che insegnavano a essere distanti, freddi, imperturbabili. Mi accontentai, anche se avrei voluto abbracciarlo e respirare il suo profumo di innocenza e Calvin Klein.
Ero sicura che lo usasse per imitare il fratello.
Gabriele si allontanò da me solo per frugare nello zaino alla ricerca del cellulare. I suoi gesti erano concitati. Aveva dimenticato di accenderlo.
«C’è traffico» borbottò tra sé e sé, dopo aver letto un messaggio.
Mi morsi l’interno delle guance per non ridere. Durante il mio primo giorno di lavoro avevo dovuto sequestrare gli smartphone dei bimbi e il cellulare economico di Gabriele. Era andata avanti così per qualche settimana, ora non avevo bisogno più di metterli in borsa. Li spegnevano non appena entravo in aula.
«Ti dispiace aspettare tuo fratello con me?» scherzai, per fargli capire che per me non era un problema, ormai avevo smesso di contare sui servizi pubblici per arrivare alla metropolitana. Troppo incostanti, soprattutto dopo le sei del pomeriggio.
Gabriele sollevò gli occhi su di me e mi scrutò a lungo. In un uomo, quello sguardo mi avrebbe messa in difficoltà. Era profondo, riflessivo, intenso.
«Toni dice che tu sei pazza» mi informò.
Toni dice
, Toni fa
, Secondo Toni
… Era difficile che il bambino iniziasse una frase senza nominare il fratello.
«Probabile» risposi. Dentro di me il disappunto si scontrava con la curiosità di saperne di più, ma non toccava a me stabilire i tempi della conversazione.
«Vi lasciano passare perché siete una maestra, ma Toni dice che è pericoloso andare a