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Giallofestival 2020: I migliori racconti gialli
Giallofestival 2020: I migliori racconti gialli
Giallofestival 2020: I migliori racconti gialli
E-book592 pagine8 ore

Giallofestival 2020: I migliori racconti gialli

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Info su questo ebook

Tutti i racconti finalisti della seconda edizione di GialloFestival 2020. Cinquanta racconti di altrettanti autori italiani.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2021
ISBN9788868104696
Giallofestival 2020: I migliori racconti gialli

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    Anteprima del libro

    Giallofestival 2020 - ANTOLOGIA AUTORI VARI

    cover.jpg

    A.VV.

    GIALLOFESTIVAL 2020

    I racconti finalisti

    Prima Edizione Ebook 2021 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104696

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave, 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    Negozio on line www.librisumisura.it

    img1.png

    GIALLOFESTIVAL 2020

    I migliori racconti

    Indice

    IL DEBITO

    GLI ULTIMI CINQUE SECONDI

    JET SET

    LA LINEA DEL CIPRESSO

    UCCIDERTI

    GIUSTIZIA PER UN IMPICCATO

    DIECIMILA LIRE  SONO ALLA BASE DI TUTTO

    UN COMPLEANNO INDIMENTICABILE

    LA FORMULA DELL’OVVIO

    COULROFOBIA

    TI MANGEREI DI BACI

    L’ANGOLO

    IL PANETTONE DI MARIETTA

    LA SERENATA DELLE ZANZARE

    CONCORRENZA SLEALE

    UNO SCARTO MINIMO

    L’ULTIMO FAVORE

    LA BAITA

    UN GIOCO DA RAGAZZI

    ACTA EST FABULA

    GIROTONDO DI SANGUE

    QUINDICI ORE

    STORIA DI UN ABUSO  TRA FINZIONE E REALTÀ

    UGO E LA ROSSA

    IL GIUDIZIO FINALE

    LE DEDUZIONI DEL SIGNOR ANSELMO

    LA CASA DEL MOSTRO

    IL MANDANTE

    L’ORSO

    GAY PRIDE

    L’INTOCCABILE

    LA TRAPPOLA DI JOLE

    MAB 38

    IL GATTO NERO

    PARASSITI

    FIORE DI ZAFFERANO

    ONORA IL PADRE E LA MADRE

    ANONIMO E LATERALE

    LA MORTE SULLE LABBRA

    SCACCO AL RE

    UNA SCIARPA DI TROPPO

    UNA VISTA MOZZAFIATO

    RECENSIONE PER UN MORTO

    NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

    LA NOTTE CHE TI È FREDDA

    IL MACININO DEL CAFFè e i tempi incerti del coronavirus

    CHRISTIAN BOLDI,  INVESTIGATORE PRIVATO

    MONDI PARALLELI

    LE BESTIE

    Biografie Autori

    CATALOGO I GIALLI DAMSTER

    Concorso

    IL DEBITO

    Marzia Accardo

    Appena uscito, il servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: Restituisci quello che devi!. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: Abbi pazienza con me e ti restituirò. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

    Parabola del servo spietato - Vangelo secondo Matteo 18,23-35

    Quello stronzo mi deve ancora un sacco di soldi. Non si fa vedere in giro da due settimane, ma ci penserò io a stanarlo.

    Ogni volta adduce le scuse più improbabili, tirando in ballo sempre i figli. I suoi bastardi. Ne ha addirittura tre, che mangiano, si vestono, vanno a scuola, insomma, sono una macchina aspira soldi. Non mi capacito di come certa gente non capisca che i figli vanno fatti solo se li si riesce a mantenere. In caso contrario esistono pur sempre i contraccettivi, ma parliamo di persone ignoranti che non ne conoscono nemmeno l’esistenza.

    Anche Chiara era rimasta incinta. Forse sperava che l’avrei sposata, che si sarebbe fatta una famiglia con me. Illusa.

    La mia risata risuona forte nel silenzio della notte, con un’eco sinistra. Sì, perché il solo pensiero mi fa ridere. Credeva che mi sarei rincoglionito mettendomi a gattoni per terra o facendo altre cose simili per giocare con dei mocciosi? Che avrei fatto il papà? Rido di nuovo, una risata sguaiata e fastidiosa che spaventa il gatto rimasto fermo sul ciglio della strada a studiare i miei movimenti, nel buio, prima di decidersi ad attraversare la strada. Scappa, correndo a più non posso, dileguandosi dietro l’angolo, inghiottito dalla notte.

    Non dimenticherò mai lo sguardo di Chiara, quel giorno. Sdraiata sulla barella, prima di essere portata in sala operatoria, i suoi occhi mi imploravano silenziosamente di aiutarla, di impedire quello strazio. Mi stringeva la mano, artigliandomela forte, come aggrappata a un’ultima, debole speranza. Io gliela lasciai. La guardai allontanarsi pian piano lungo il corridoio, mentre ancora voltata verso di me, aspettava. Attendeva un mio cenno.

    Quegli occhi me li sogno ancora la notte. Mi vengono a trovare ogni tanto, ricordandomi che ho un debito nei confronti della mia coscienza. Ma di questi debiti ne ho accumulati parecchi, ormai.

    Da quel giorno Chiara ha cominciato a guardarmi con occhi diversi: non erano più quelli della ragazza innamorata di un tempo, ma erano carichi di disgusto e rancore. In un qualche modo posso dire che quello sia stato il mio primo omicidio. A Chiara ho distrutto la vita e credo che se avesse la possibilità di farlo si vendicherebbe di me in qualsiasi momento, senza nessuna pietà.

    È in quell’occasione che ho capito di essere davvero cattivo, che il male divorava la mia anima. Mi piaceva veder soffrire il prossimo, e quale disgrazia peggiore si potrebbe augurare a una persona? Qualcosa che ti si insinua dentro come un tarlo, un martello pneumatico nella mente, che non ti fa dormire la notte in preda all’angoscia più profonda. La mancanza di salute, di lavoro? La solitudine, le pene d’amore?

    No. Questi sono tutti problemi risolvibili, con i soldi. Coi soldi compri gli amici, l’amore, ti puoi curare. E non devi necessariamente lavorare per procurarteli.

    Pensateci bene, non riuscite a rispondere? Allora ve lo dico io: i debiti. I debiti sono la cosa peggiore che si possa augurare a una persona.

    Ho capito presto quale fosse la mia strada, mi piaceva far soffrire la gente, guardarla affogare lentamente, piano piano, sempre più a debito d’ossigeno, strozzata dai suoi stessi problemi. Non era difficile individuare le mie vittime: il bar sotto casa ne era pieno. Bastava farci un salto la mattina, a colazione, per trovare qualche disperato. Chi ha bisogno di soldi ce l’ha scritto in fronte, come un marchio a fuoco. Persone che hanno fatto il passo più lungo della gamba, investendo in attività sbagliate, pensando di costruire le basi per il proprio futuro. Modesti operai e impiegati che si sono accollati mutui per comprare la casa dei loro sogni, che non riescono più a pagare perché sono rimasti senza lavoro. Uomini ricattati dalle amanti. Padri che devono mantenere una nuova bocca da sfamare, dall’arrivo non programmato. Credetemi, ho visto più situazioni limite io di un assistente sociale. Ormai sono un esperto.

    È facile individuare le mie vittime, le studio da lontano, seduto al bancone del bar, per un paio di giorni, poi passo alla fase dell’attacco: me le faccio amiche. Ci vediamo tutte le mattine, a colazione, e io le saluto con un sorriso. So essere molto affabile. Divento per loro una faccia conosciuta, un viso amico e, credetemi, nessuno più di una persona disperata ha bisogno di parlare, di venire ascoltata da qualcuno. Io raccolgo le loro confessioni, mi rammarico per i loro problemi e cerco di dare loro una soluzione, indirizzandoli gradualmente, giorno dopo giorno, verso la loro unica via d’uscita. Sì, perché sotto sotto lo sanno che c’è solo una strada percorribile, facile e veloce; bisogna solo convincerli ad ammetterlo. Attenzione, questo è fondamentale: devono arrivarci da soli. Io non mi propongo mai. Quando ormai si fidano di me, il gioco è fatto.

    Ancora non avete capito che mestiere faccio? Su, avanti! O avete gli occhi foderati di prosciutto, oppure siete troppo ingenui. Sono uno strozzino, uno strozzino di professione. E non ditemi che questo non è un lavoro, lo è eccome. Nel mio campo, io sono un professionista. Mi sono fatto da solo e ho un bagaglio d’esperienza pluriennale sulle spalle. Modestamente.

    Sono ossessionato dai debiti, o meglio, dal farli pagare. Nessuno si è mai sottratto dal restituirmi fino all’ultimo centesimo. E non è un modo di dire, mi faccio dare anche quelli. E che diamine, i soldi sono sempre soldi! Non esiste persona che non mi abbia pagato, nel senso letterale della parola. Voglio dire che quelli che non hanno onorato il debito nei miei confronti ora non esistono più. Non su questa terra.

    E adesso toglietevi dalla faccia quell’espressione inorridita, gli affari sono affari. E comunque, per la cronaca, sono davvero poche le volte in cui sono stato costretto a sporcarmi le mani. Sì, perché lavoro in proprio io, e faccio tutto da solo: dalla direzione dell’azienda alla bassa manovalanza.

    Non ho bisogno di nessuno, basto a me stesso. Non ho moglie, né figli, né amici. Vivo nell’appartamento di un condominio della periferia di Padova, in zona Arcella. Se ho bisogno di compagnia mi rivolgo alle vicine del primo piano: prezzi modici, pulizia e discrezione. Spesso non si fanno nemmeno pagare e ogni tanto presto loro un po’ di soldi: uno scambio di favori. Nel quartiere sono diventato un’istituzione ormai, sono temuto e riverito. Spesso mi chiedono consigli e faccio anche da mediatore con soggetti scomodi.

    Non vedo i miei da anni. Non sono mai andato a trovare i miei genitori, e non ho mai fatto loro una telefonata. Mio fratello Giancarlo era il cocco di mamma e papà, il loro figlio preferito, sempre pronto a dar loro manforte e, negli ultimi tempi, ad accorrere in loro aiuto. Un povero illuso, non particolarmente scaltro. Ha messo incinta la fidanzata a venticinque anni e l’ha sposata, riducendosi a spaccarsi la schiena come operaio per mantenere la famiglia. Di sicuro, un uomo senza spina dorsale e senza grandi ambizioni. Sono quasi certo che i miei genitori abbiano continuato a finanziarlo in tutti questi anni.

    L’ultima volta che ci siamo visti è stato al funerale di mio padre. Un infarto secco. La vita sa essere davvero crudele. Ho fatto il mio dovere di bravo figlio, partecipando alla cerimonia, con finta espressione affranta, per poi non rivederli mai più.

    Dell’eredità non mi fregava un cazzo. Ho fatto più soldi io in pochi anni che i miei genitori in una vita di lavoro. All’appuntamento dal notaio non mi sono presentato, che si tenesse pure tutto mio fratello. Per me sarebbero stati solo spiccioli.

    Ho accumulato un bel gruzzolo, potrei comprarmi quello che mi pare, vivere nel lusso bevendo champagne e facendo il bagno in una Jacuzzi. Invece sono ancora qui, in questo appartamento fetido di un immobile fatiscente, in uno dei quartieri più malfamati di Padova, ma questo è il mio mondo. Qui mi sento vivo, questa è la mia dimensione. Qui respiro cattiveria, odio, guai, illegalità. Povertà e disperazione. Tutto questo è linfa per il mio animo oscuro. Qui trovo le basi per i miei affari, le mie vittime da raggirare, i miei agganci, i nascondigli segreti per i miei crimini.

    Mi basta far pagare i debiti, i debiti…

    Arrivo sotto casa del Paccagnella, in via Aspetti, dopo aver camminato per un paio di centinaia di metri. È una villetta a due piani un po’ vecchiotta, ma con un bel giardino, che il mio debitore non può più permettersi. Voglio godermi con calma questo momento, non ho nessuna fretta. Questa è la parte più divertente del mio lavoro. Mi accendo una sigaretta, inspirando l’aria fresca della notte. So che la mia vittima è da sola in casa con i figli, la moglie stasera ha il turno di notte.

    Mi decido a suonare il campanello, spingo il pulsante a fondo e lo tengo premuto a lungo, volutamente. Voglio essere molesto, svegliare i bambini.

    Guardo il mio orologio da polso Tissot Heritage 1973, unico lusso che mi sono concesso in tanti anni di lavoro: sono le ventitré e trentasei, un buon orario per riscuotere un debito in un giorno feriale. Rompi i coglioni, spaventi le persone, le cogli di sorpresa. Nessuno aspetta ospiti a quest’ora.

    Noto che il cancellino d’entrata è guasto e rimane aperto, quindi entro senza aspettare che il padrone di casa risponda al citofono. In poche falcate raggiungo il portone di legno logorato dalle intemperie. Anche quello sarebbe da cambiare in questa casa. Busso energicamente, quattro colpi secchi che risuonano nel silenzio che avvolge il giardino scarsamente illuminato.

    — Chi è? — sento chiedere dall’interno da una voce maschile, con tono infastidito. Non rispondo. Voglio fargli una sorpresa, una bella sorpresa.

    Comincio a spazientirmi. Mi guardo intorno, osservo il terreno secco coperto da rade chiazze d’erba e le poche piante che presentano segni evidenti di trascuratezza. Una semplice rete metallica funge da recinzione alla casa, dalla facciata rovinata e l’intonaco che cade a pezzi. Quest’immobile deve aver visto tempi migliori. Chissà quanto ci potrei ricavare, vendendolo. Sì, perché questo povero cristo non avrà altro da darmi.

    Dopo qualche secondo, qualcuno viene ad aprire la porta, lasciandola socchiusa e sbirciando dalla fessura. Una lama di luce illumina il buio del giardino. Infilo la mano nella tasca destra, stringendo il tirapugni che porto sempre con me per qualsiasi evenienza, anche se sono sicuro che col Paccagnella non mi servirà.

    — Che cosa vuoi a quest’ora? I bimbi dormono! — l’uomo cerca di usare un tono autoritario, ma la voce incrinata mette a nudo il suo stato d’animo. Paura, ecco cosa prova in questo momento. Con un gesto fulmineo infilo un piede nella fessura tra il muro e la porta e spingo l’uomo in avanti con forza, riuscendo a entrare. Paccagnella ha gli occhi sbarrati e il suo volto è una maschera di terrore. Tutti nel quartiere mi conoscono e chiunque sa che non si sfugge al pagamento di un debito nei confronti di Claudio Schiavon, con le buone o con le cattive. Lo sa bene anche lui, glielo leggo nello sguardo: è in preda al panico. Indietreggia di qualche passo, la fronte imperlata di sudore. Ne approfitto per avanzare verso di lui, rincarando la dose per intimorirlo ulteriormente. — Hai un debito da pagare — gli ricordo con tono minaccioso e aria di sfida.

    È palesemente in difficoltà, paralizzato dalla paura. Si guarda intorno come per cercare un appiglio, i suoi occhi saettano da una parte all’altra della stanza. L’ho spinto in un angolo, con le mani appoggiate al piano della cucina, adesso non ha più scampo.

    Deglutisce. — Io a-adesso… non ce li ho i soldi — balbetta continuando a sudare.

    Sospiro rumorosamente, poi incrocio le braccia, stringendo il mento tra il pollice e l’indice e guardando in alto, pensieroso. — Antonio, Antonio, Antonio… dimmi, cosa devo fare ancora con te?

    Lui non ha nemmeno la forza di rispondermi.

    Avanzo di un altro passo.

    — Non lo sai che i debiti vanno pagati? Mamma e papà non te l’hanno insegnato?

    Paccagnella chiude gli occhi, stringendo le palpebre. — Claudio, ti prego… — comincia a supplicarmi con voce tremante.

    — No — lo fermo bruscamente, — non pregarmi. Lo sai quello che succede a chi non mi ripaga il debito?

    Non ho bisogno di continuare. Lo sa. Lo sa benissimo. Lo capisco dalle sue mani tremanti, dalle gocce di sudore che gli imperlano impietosamente la fronte, gocciolando a terra.

    — Dunque, che vogliamo fare? — gli chiedo spazientito.

    È questione di un secondo: Paccagnella afferra un centrotavola in cristallo pieno di caramelle, che fino a un attimo fa non avevo neppure notato, e con tutta la forza che possiede me lo scaglia sul capo. Sento il rumore dei dolci caduti a terra e il fruscio dell’incarto a contatto con il pavimento, poi un dolore acuto mi attanaglia la testa e mi fa quasi perdere i sensi. Mi accascio a terra, supino, sangue caldo mi sgorga da un punto della testa che non riesco a individuare. Lo fisso dritto negli occhi, ancora stupito. Mi guarda immobile, incapace di muovere un muscolo, incredulo per ciò che ha appena fatto. La sua coscienza e la sua fedina penale rimarranno macchiate per tutta la vita.

    Mi ha preso alla sprovvista. Non me l’aspettavo, lo ammetto. Ero convinto fosse un’acqua cheta, una persona onesta, perbene, che non farebbe male a una mosca. Mi sono fidato della sua faccia da bravo ragazzo, da classico buon padre di famiglia, che non farebbe mai passi falsi di questo tipo perché pensa solo al bene dei suoi cari. Questa definizione, quella di buon padre di famiglia, mi richiama alla mente gli anni di studi di giurisprudenza – peraltro mai conclusi – con il Codice Civile sempre alla mano.

    Ho sbagliato, ho commesso un errore fatale. Un padre farebbe di tutto per difendere i propri figli, si tratta di un istinto primordiale, come quello dei lupi per i loro cuccioli. Ma questa è una cosa che io non posso capire.

    Rimetti a noi i nostri debiti…

    Da quanto tempo non entro in una Chiesa? Forse dal giorno del funerale di mio padre.

    La vista mi si annebbia, ma posso vedere chiaramente gli occhi di Chiara puntati su di me. Mi guardano fisso, severi e vuoti. Uno sguardo freddo, glaciale, insensibile. Le sue labbra sono serrate, immobili, in un ghigno di soddisfazione, ma odo chiaramente la sua voce, che risuona dentro la mia testa.

    Il karma, Claudio, il karma.

    Sento le tempie pulsare, ma non provo più dolore ora che anche l’ultimo debito è stato pagato: il mio.

    GLI ULTIMI CINQUE SECONDI

    Giuseppe Aiassa

    La folla. La gara. Lo scatto…

    Se fosse riuscito a concentrarsi su quegli elementi, o su uno di essi, ce l’avrebbe fatta.

    Avrebbe dimenticato quegli scherzi di pessimo gusto che da una settimana gli logoravano i nervi, mettendo a dura prova la sua salute fisica e psichica. Ma perché non si era confidato con nessuno, nemmeno con il suo allenatore? E adesso non c’era più tempo, adesso si trattava di correre e di vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Vento tese i muscoli e scattò in piedi, nervoso come un puledro ribelle ma consapevole della perfezione raggiunta dal suo corpo snello: era asciutto senza essere magro, con muscoli sodi e turgidi. Non dava l’impressione, come per la maggior parte dei suoi rivali, di essere stato costruito in laboratorio. Il viso dagli zigomi leggermente sporgenti si adombrava soltanto nei pochi minuti precedenti la competizione, altrimenti appariva sorridente e fiero. Alcuni giornalisti sportivi, che vantavano studi umanistici, lo avevano paragonato agli atleti greci delle antiche Olimpiadi e gli avevano appiccicato addosso quel nomignolo come una seconda pelle, tanto che egli stesso lo preferiva al suo nome, un più prosaico Luca. Anche adesso, mentre riscaldava i muscoli, eseguendo un bizzarro balletto ai lati della pista, sapeva che tutti gli applausi e gli sguardi del pubblico erano per lui.

    Concentrati sulla folla, maledizione! No, no, la gara, la competizione…

    Per la prima volta nella sua vita, Vento dovette ammettere a se stesso di essere impotente nei confronti di quella sensazione del tutto nuova e totalmente aliena per lui: la paura. Come qualcosa di viscido e ripugnante, era strisciata a poco a poco dentro il suo corpo e ora gli faceva battere il cuore all’impazzata, alterandogli quell’armonico ritmo biologico faticosamente raggiunto. Non doveva e non voleva assolutamente lasciarsi vincere dal panico: lui era Vento, colui che stava per essere consacrato l’uomo più veloce del mondo, non un pivellino qualsiasi. Ma restava sempre un uomo minacciato di morte e se la parte logica della sua mente rifiutava una simile eventualità, quella irrazionale non poteva fare a meno di prenderla in considerazione. C’erano stati i biglietti, atroci e assurdi nella loro semplicità e la voce roca durante le telefonate notturne?

    Vento fece una piroetta, ricadendo sui talloni e riprendendo fiato; la folla sulle gradinate che stava scandendo il suo soprannome sembrava la corolla variopinta di un enorme fiore esotico sbocciato durante la notte come per incanto. Era la sua gente, che stava per tributargli onori degni di un dio, e non intendeva deluderla. L’atleta non aveva mai condiviso il parere degli psicologi sull’anonimità delle folle dei tifosi perché poteva sentire il battito del cuore di ogni persona ritmare all’unisono col suo? almeno, fino a poco tempo prima. Perché adesso, anche se rifiutava di ammetterlo, avvertiva soltanto l’ansito sordo, ripetuto, anomalo del proprio cuore? E quelle goccioline simili a perle fredde che gli bagnavano la fronte? Possibile che stesse sudando freddo, con il sole che ardeva spietato sulla sua testa?

    Smettila di torturarti. Non accadrà niente, proprio niente. La fortuna

    Non si era accorto di aver parlato ad alta voce: già, la fortuna era sempre stata la suo fianco, a cominciare da quel tragico incidente automobilistico che aveva minacciato di troncare la sua brillante carriera definitivamente. Vento chiuse gli occhi, consentendo al passato di rifluire nel presente, allo scopo di esorcizzarlo, come gli aveva insegnato lo psichiatra. Si rivide alla guida della Ferrari, i finestrini abbassati, il vento primaverile che accarezzava i suoi capelli e quelli di Davide, che canticchiava spensierato al suo fianco. La vita sorrideva loro promettendo donne, fama e ricchezza: erano o non erano i prediletti degli dei, due campioni sportivi seppure in discipline diverse? Vento e l’Angelo dei tuffi, uniti dalla giovinezza e dalla voglia di vivere, più potente che mai a vent’anni. Nessuno pensa di morire a vent’anni, se non qualche poeta balordo; a vent’anni la vita ti urla dentro e non pensi di schiantarti contro un palo. Invece la vita improvvisamente ti tradisce e tu rimani illeso per miracolo. Davide, invece?

    Nemmeno lui era morto, però era rimasto sfigurato e sciancato: niente donne, gloria e ricchezza per lui. Vento era andato a fargli visita alcune volte all’ospedale, poi aveva diradato le visite? era stato un vigliacco, e che dire quando la ragazza di Davide si era fatta viva con lui e non aveva saputo resistere al suo fascino? Come aveva potuto essere così insensibile e sleale nei confronti del suo miglior amico? Elena era entrata prepotentemente nella sua vita portando con sé l’ebbrezza di un sentimento nuovo mai conosciuto prima: era il soffio vitale delle stagioni, l’incanto del cielo trapuntato di stelle, il respiro perpetuo del mare. Era l’amore cantato dai poeti, che in precedenza lui aveva deriso e disprezzato. In quel momento Elena era sugli spalti, intenta a sussurrare il suo nome, con tenerezza e languore?

    — Qualcosa non va?

    Davanti a lui si era materializzato il suo allenatore, lo sguardo arcigno appena mitigato da un debole sorriso: non gli sfuggiva proprio nulla, con quel volto da falco che si ritrovava! Massiccio, inconfondibile, maleducato – l’uomo bestemmiava come un turco anche quando tutto andava a gonfie vele – lo stava scrutando imperiosamente. Vento si affrettò a rassicurarlo:

    — Non è niente, boss, davvero.

    Il boss grugnì un’imprecazione nuova, da far arrossire il papa in persona, poi agitò il testone ed esclamò con la sua caratteristica voce nasale:

    — Fa’ attenzione al francese, tienilo d’occhio, mi raccomando. Il russo te lo mangi a colazione, non è un problema, ma quello ti darà del filo da torcere.

    — Jacques?

    — Sì, Jacques, maledizione! — Un’altra impronunciabile bestemmia. – È in ottima forma, mentre tu… hai dormito stanotte?

    — Come un ghiro — mentì lui, sfoderando un ampio sorriso. Come sapeva mentire bene, anche con se stesso! Era sempre stata la sua specialità, la menzogna, fin da piccolo, e ora quell’abitudine tornava a suo vantaggio.

    — Mmm… non hai una bella cera, Vento. Mi preoccupi.

    — Sono in perfetta forma, boss. Gareggerò e vincerò.

    — Bene. Tra cinque minuti, allora. Fa’ vedere a questi rammolliti chi sei.

    Già, chi sono? si domandò Luca e si rispose senza indorarsi la pillola. Sono un gran bastardo, ecco chi sono. Poi diede un’occhiata ai suoi rivali e si soffermò su Jacques, fisico da cicogna ma un centometrista da sorvegliare attentamente. Come sempre, il boss aveva ragione: il francese ambiva a tagliare il traguardo per primo, con quella sua voce roca e profonda, in netto contrasto con la sua corporatura filiforme. Era mai possibile che la voce udita al telefono la notte precedente nell’avveniristico villaggio olimpico dove alloggiavano tutti gli atleti fosse la sua? Lo squillo imperioso del telefono, una voce cavernosa accompagnata da una risatina chioccia, due raggelanti parole:

    — Ti ucciderò.

    Uno scherzo macabro, crudele, con l’unico scopo di intimorirlo e di fargli cedere i nervi. Intanto però la minaccia aveva sortito il suo effetto e lui non era riuscito a chiudere occhio? Non poteva essere stato quel buontempone dell’atleta russo, che gli aveva quasi stritolato la mano pochi minuti fa. L’americano, forse? No, quello non sapeva dire nemmeno ciao in italiano e il giapponese era la quintessenza della signorilità perché quando si incrociavano il suo rivale si sprofondava in un grazioso inchino. Eppure qualcuno aveva pronunciato quelle incredibili parole seguite da un’orribile risata. In camera sua c’era la brochure con l’elenco di tutte le persone presenti nel villaggio olimpico: lui l’aveva scorso distrattamente, ma adesso si ripromise di sfogliarlo con più attenzione, quel pomeriggio stesso, una volta vinta la medaglia d’oro. Tutta Roma, anzi la nuova Roma, come era stata definita la città dai giornali, l’avrebbe acclamato e lui avrebbe esultato con Elena al suo fianco, invidiato dagli uomini e dagli dei.

    Vento alzò un braccio per salutare la folla osannante e un boato assordante si riverberò nell’arena, penetrando in ogni sua cellula e andando dritto fino al suo cuore. I presenti si erano alzati in piedi e applaudivano scandendo il suo nome:

    — Vento, Vento, Vento…

    E lui avrebbe spiccato il volo e avrebbe tagliato il traguardo correndo proprio sulle ali del vento…

    — Ti ucciderò.

    Irragionevolmente il suo cervello non ubbidì alla sua volontà, ritornò avvitandosi a spirale alla telefonata notturna che lo aveva spaventato, gli fece risentire la minaccia e la risatina chioccia. Vento si accorse che le gambe gli tremavano e temette addirittura di svenire davanti a ventimila spettatori; fortunatamente l’ondata di panico cessò così come era venuta, lasciandolo però esausto. Intorno a lui, le altre gare si stavano svolgendo regolarmente, senza intoppi: Vento strinse i pugni e guardò come trasognato il grande tabellone che segnava l’inizio delle varie gare. Ancora due minuti e poi toccava a lui.

    Chi era il nemico? Chi poteva odiarlo così tanto?

    I secondi passavano lentamente, scivolavano via come schegge impazzite: Vento raggiunse lentamente la sua postazione ai bordi della pista, dove i suoi avversari avevano già preso posizione. Ecco Jacques, il russo, l’americano, il giapponese? gli parve che tutti loro lo osservassero sorridendo in modo beffardo. Avevano forse ordito un complotto ai suoi danni? Sì, era possibile, perché no? I biglietti che aveva ricevuto con quelle grafie distorte, la telefonata minacciosa, le strette di mano falsamente amichevoli? un complotto ben studiato per annientarlo psicologicamente.

    Lo starter, un tipo alto come lui, era giunto zoppicando vicino alla sua postazione, pronto a dare il via alla gara.

    Cinque secondi.

    Lo starter sollevò la pistola nel rituale gesto lento, mentre gli atleti tendevano i muscoli fino allo spasimo, pronti a sfidarsi nella gara più importante di velocita delle Olimpiadi.

    Quattro secondi.

    Il cuore di Vento accelerò i battiti mentre alzava, senza sapere bene perché, lo sguardo.

    Tre secondi.

    Gli occhi di due uomini si incontrarono e per entrambi il tempo si fermò.

    Due secondi.

    Lo starter abbassò la pistola e prese la mira, mentre Vento fissava un volto sfigurato da orribili cicatrici.

    Un secondo.

    Davide!

    BANG!

    JET SET

    Graziano Aldrovandi

    "Lutto nel mondo della finanza: l’imprenditore Morini manca all’affetto dei suoi cari"

    Grave lutto: inaspettata morte di Giacomo Morini

    Questi i titoli di alcuni giornali sulla scrivania del commissario Masi. E i titoli preludevano la chiamata del questore che non avrebbe perso occasione per ricordargli quanto fosse delicata l’indagine, che il dipartimento non aveva bisogno di battitori liberi alla ricerca di sensazionalismi, come la faccia esposta fosse quella del questore e non quella del commissario e mille altre storie che si ripetevano ogni volta che c’era un caso appetitoso per i media, soprattutto perché l’indagine era stata chiesta direttamente dalla capitale.

    Erano solo le 9 del mattino e Masi era già al quinto caffè. Il solo pensiero del questore lo aveva messo di cattivo umore, situazione di cui si erano ampiamente resi conto i suoi collaboratori che non avevano ricevuto altro che grugniti e occhiatacce da quando aveva messo piede in commissariato.

    Quando squillò il telefono, buttò giù il caffè ancora bollente e fece un paio di respiri profondi per darsi una calmata, quindi sollevò la cornetta.

    — Masi — rispose scontrosamente.

    — Buongiorno anche a te! — disse la voce all’altro capo del telefono. — Non sei contento di sentirmi?

    — Dordoni! Non ci crederai, ma sono felice, anche se so che le tue chiamate portano solo rogne.

    Dordoni era il medico legale che, in caso di personaggi di un certo spessore, veniva interpellato per svolgere l’autopsia di persona e non delegarla a qualche collega non ancora degno della stessa considerazione da parte di burocrati e politici. E Dordoni, quando chiamava, non lo faceva mai per fare quattro chiacchiere…

    — Come immaginerai, già ieri pomeriggio avevo Morini nel mio ufficio. La causa della morte indicata dall’ospedale è corretta: insufficienza respiratoria.

    — Vuol dire che hai chiamato per darmi una buona notizia?

    — Aspetta. La causa della morte è corretta, come ci si è arrivati un po’ meno.

    — Sai, per un attimo ho sperato che volessi solo salutarmi.

    — Ma certo che voglio salutarti, sei sempre così simpatico! Ho trovato fibre di cotone nella gola del mio ospite, sai cosa significa? Che la crisi respiratoria è stata provocata da qualcosa che gli chiudeva la bocca. Significa anche che tu e il questore potrete passare tanto tempo assieme al telefono a sussurrarvi quanto mi piaci, mi manchi tanto, metti giù prima tu,...

    — Vaffanculo! Starà già scegliendo la cravatta da mettere in TV. Adesso metto giù, aspetto la sua telefonata e non ti auguro buona giornata perché hai appena peggiorato la mia. STRONZO! — e riattaccò.

    Sentendo l’urlo dall’ufficio di fronte, l’ispettore Carli si precipitò dal commissario per chiedere se avesse bisogno di aiuto.

    — Ha chiamato commissario?

    — Verrai tutte le volte che urlo stronzo a qualcuno, Carli? — rispose il superiore.

    Conoscendo le lune del commissario il povero Carli fece finta di niente e aspettò che l’altro gli dicesse cosa fare.

    — Vai alla clinica dove è morto Morini e parla con i dottori. Chiedi se era presente qualcuno quando è successo, chi era andato a trovarlo e perché era ricoverato.

    Carli, giovane ispettore con grandi capacità, aveva capito dal primo giorno con Masi che c’erano momenti in cui meno si parlava e meglio era, per cui uscì senza aggiungere nulla.

    Contemporaneamente il telefono squillò.

    — Masi.

    — Buongiorno commissario, sono Fresi del TG2, volevo chiederle se le va di dirci due parole nel TG delle 12 a proposito…

    — Buongiorno Fresi —, lo interruppe il commissario, — appena avremo novità su qualunque caso di cui vuole avere notizie, organizzeremo una conferenza stampa dove potrà chiedere quello che preferisce al questore in persona. Arrivederci! — e riattaccò.

    Lasciò passare qualche minuto, quindi fece l’interno della portineria:

    — Sì?

    — CHI MI HA PASSATO IL GIORNALISTA? NON DEVE PIÙ SUCCEDERE! CHI MI CERCA HA IL NUMERO DIRETTO E PER GLI ALTRI NON CI SONO! — e buttò di nuovo giù, ma il telefono squillò immediatamente…

    — HO DETTO NESSUNO!

    — Masi, abbassi la voce e non si permetta di rispondere con quel tono.

    — Mi scusi signor questore, sto ricevendo continue telefonate di estranei.

    — Ma lei sa che risonanza avrà il caso Morini? E sa che se mi fa fare figure con il suo carattere di merda se la prenderanno con me? Invece di passare la giornata al telefono, pensi a concludere in fretta, tanto mi sembra evidente la soluzione. Non dovrebbe essere troppo complicato neanche per lei! Mi avvisi quando lo fa, così organizzerò una conferenza stampa a cui gradirei non partecipasse.

    — Per lei e il buon nome della Polizia, signor questore, questo e altro! A presto!

    Evitò di riferire quanto saputo da Dordoni per non dar modo al questore di impedirgli di lavorare. Era arrivato il momento di fare un salto a casa della vittima per parlare con i famigliari.

    Durante il viaggio chiamò Carli. Era appena uscito dalla clinica dove aveva saputo che la mattina precedente erano stati a trovare la vittima la moglie, i due figli e la cognata dandosi praticamente il cambio. Si erano fermati tutti per circa un’oretta. Il cadavere era stato trovato dall’infermiera appena dopo. E quasi immediatamente era arrivata la telefonata di un pezzo grosso della Polizia - chissà come lo aveva saputo? - per predisporre l’invio della salma all’ufficio del medico legale. Lo stesso funzionario aveva chiesto di chiudere a chiave la stanza per lasciarla a disposizione delle autorità.

    Ringraziò Carli, chiedendogli di essere raggiunto a casa della famiglia.

    La casa sembrava un castello: arazzi, pendole, affreschi e pavimenti in cotto. La famiglia era riunita in un salone enorme, tutti vestiti a lutto di tutto punto. Anche l’avvocato era presente.

    Dopo le condoglianze, senza rivolgersi a nessuno in particolare, iniziò:

    — Era molto malato?

    — Era entrato in clinica per i postumi di un’influenza su consiglio del medico, per alcuni esami e concedersi un periodo di riposo visti i suoi problemi respiratori — rispose la moglie — eravamo convinti che lo avrebbero dimesso in giornata.

    — Vi sembrava diverso negli ultimi tempi? Aveva dei nemici?

    — Ma che domande sono? — sbottò l’avvocato. — Il colloquio è terminato! Informerò il suo superiore di questa pagliacciata!

    — Faccia pure avvocato, è un suo diritto— rispose Masi — come è un mio diritto convocare i presenti in commissariato. Vi aspetto tutti domattina a partire dalle 8.30.

    Detto questo si avviò verso l’uscita, ma si fermò quasi subito.

    — Un’ultima cosa, avvocato. Se ha intenzione di rivolgersi alla stampa per provare a screditare il mio lavoro, si ricordi che sono due giorni che ricevo telefonate da giornalisti in cerca di notizie, quindi sappia che lo posso fare anch’io e le assicuro che qualunque cosa dirò risulterà molto più interessante di quanto farà lei. Mi saluti il questore!

    Appena saliti in auto, chiese a Carli:

    — Cosa ne pensi?

    — Se è vero che sono stati tutti in clinica la mattina, significa che è stato uno di loro.

    — Precisamente. Sta a noi trovare chi. L’avvocato farà di tutto per metterci i bastoni tra le ruote e il questore, appena lo saprà, farà altrettanto per paura di rimetterci il culo.

    La prima ad arrivare fu la moglie, che sembrava devastata dal dolore.

    — Signora, le farò domande anche spiacevoli in questo brutto momento, ma vista la situazione non posso fare altrimenti. In che rapporti era con suo marito?

    — Ottimi rapporti, stavamo aspettando che tornasse a casa per organizzare una vacanza. I dottori gli avevano chiesto di non esagerare con il lavoro ed erano un paio d’anni che partivamo ogni volta che ne avevamo la possibilità. Adoravamo viaggiare e lasciare tutto e tutti per un po’.

    — Suo marito aveva dei nemici?

    L’avvocato fece per intervenire, ma prima che riuscisse a dire una parola, Masi lo anticipò:

    — Prima che dica qualcosa, avvocato, voglio informarvi che il dott. Morini non è morto per insufficienza respiratoria, ma è stato soffocato deliberatamente. Gli unici ad averlo visto e a entrare nella sua stanza ieri mattina sono stati i suoi clienti, quindi si tenga la faccia indignata per le telecamere e mi lasci lavorare.

    Appena appresa la notizia, la moglie ebbe un sussulto e non riuscì a trattenere le lacrime. L’avvocato si rivolse al commissario:

    — Perché questa cosa non l’ha detta ieri?

    — Perché non me ne ha dato la possibilità. La prossima volta, anziché fare sceneggiate, ascolti cosa devo dire. — Quell’uomo gli era risultato antipatico da subito. — Signora, ancora una domanda: quando è uscita dall’ospedale ieri mattina?

    — Verso le 9.30, appena è arrivato Pietro, mio figlio maggiore.

    Masi salutò la signora e chiese di far entrare il figlio.

    Ripeté esattamente quanto comunicato alla madre e scoprì che l’impresa di famiglia sarebbe stata guidata, d’ora in avanti, proprio dal figlio maggiore. Aveva discussioni con il padre, normali in ambito lavorativo, ma andavano d’accordo. Anche lui si era fermato un’oretta e, verso le 10.30, aveva lasciato il posto alla moglie e al fratello, arrivati più tardi perché avevano partecipato assieme ad alcuni eventi. Quando era uscito, tenne a precisare, il padre era vivo e aspettava di sapere quando lo avrebbero dimesso.

    Era il turno del secondo figlio:

    — In che rapporti era con suo padre?

    — Pessimi — rispose il figlio — glielo avranno sicuramente anticipato mia madre e quel fighetto di mio fratello. Sono la pecora nera della famiglia, commissario: vita mondana, donne, locali alla moda e quindi pubblicità negativa al buon nome dei Morini. Sono semplicemente me stesso e non ho mai fatto nulla per mettere in imbarazzo il vecchio. Mio padre non sopportava di vedermi sui giornali per la mia vita notturna, ma non ha mai minacciato di diseredarmi o cose simili come succede nei film. Semplicemente provava in ogni modo a farmi cambiare vita e questo ci faceva litigare. La settimana scorsa ha comunicato a tutti che voleva farmi entrare nel consiglio di amministrazione per vedere se, nonostante il mio modo di vivere, avevo capacità imprenditoriali sufficienti per poter partecipare all’attività di famiglia e guadagnarmi i soldi che spendevo. Durante la visita abbiamo parlato del più e del meno, ha fatto qualche battuta con mia cognata e dopo un po’ ce ne siamo andati.

    Anche in questo caso il commissario lo mise al corrente di quanto scoperto dal medico legale. A differenza degli altri il figlio non sembrò sorpreso, né dispiaciuto più di tanto.

    — Beh — disse — alla fine qualcuno che non si è limitato ad augurargli di morire lo ha trovato. Nonostante tutto, commissario, mio padre non mi stava così sulle scatole da ucciderlo. In fin dei conti posso fare la vita che faccio solo perché lui mi permette di usare i suoi soldi. Quando siamo usciti ci ha detto che intendeva fare un pisolino prima di pranzo.

    La cognata era la classica dama dell’alta società: completamente vestita di nero, dalle scarpe al cappello, guanti compresi. Sembrava volesse far notare a tutti la sua posizione privilegiata.

    — Adoravo mio suocero! Mi ha accolta come la figlia che non ha mai avuto e diceva che il mio arrivo aveva trasformato la vita di mio marito! In meglio ovviamente! Lo adoravamo tutti a eccezione di quel poco di buono di mio cognato Francesco.

    — Signora — la interruppe il commissario — devo purtroppo darle una brutta notizia: suo suocero non è morto di morte naturale, ma è stato ucciso.

    Alla notizia la donna sbiancò e sembrò sull’orlo dello svenimento. Il commissario le offrì un bicchiere d’acqua, quindi continuò:

    — Con suo cognato siete arrivati e ve ne siete andati assieme? Come mai non è arrivata con suo marito?

    — Sono andata con Francesco all’inaugurazione di un nuovo ufficio. Era la prima volta che mandava il figlio a un evento ufficiale come rappresentante della famiglia. Sembra si fosse messo in testa di farlo entrare in società nonostante i suoi comportamenti indecenti.

    — Non mi sembra che suo cognato le piaccia.

    — Non piace a nessuno: fa sempre parlare di sé per donne, locali e feste… mai che lo faccia per qualcosa di utile!

    — Mi dica signora, quando avete lasciato suo suocero siete andati immediatamente a casa?

    — Sì, Francesco è andato in bagno e quando è uscito siamo tornati. Dopo poco tempo ci ha chiamato la clinica per darci la notizia: l’infermiera che è entrata nella stanza pochi minuti dopo di noi lo ha trovato. Dovevamo essere appena partiti.

    — E mi dica, signora, lei ha aspettato che suo cognato uscisse dal bagno?

    — Sì, certo. E poi siamo usciti.

    Il commissario chiese a questo punto che tutti fossero richiamati nel suo ufficio.

    — Il signor Morini — disse — è stato soffocato con un cuscino che era nella sua stanza. A farlo, signori, è stato certamente uno di voi, ma non tutti ne avevano l’occasione: la signora, per esempio, non può essere stata perché il figlio ha confermato che il marito era vivo quando se ne è andata. Anche il signor Pietro non può averlo fatto perché sia il fratello che la cognata hanno affermato che quando sono arrivati il padre stava bene. Rimangono solo i due cognati. Sicuramente uno di voi due ha ucciso il dottore. Più precisamente, è stata lei signora — disse il commissario rivolgendosi alla giovane donna.

    — Ma come si permette? — urlò lei rivolgendosi all’avvocato che però, in questo caso, non fece nulla per intervenire. — Le ha detto Francesco che siamo arrivati e ripartiti assieme.

    — Siete sicuramente arrivati e tornati assieme, signora, ma è stata proprio lei a farmi capire: mi ha detto che ha aspettato suo cognato sino a quando è uscito dal bagno e quindi avete lasciato la clinica.

    — Certo! E glielo ripeto!

    — Vede, signora, raccontandomi il particolare del bagno, forse per rendere più credibile la sua storia, lei ha solo scagionato suo cognato perché non avrebbe potuto rientrare in camera di suo padre senza che lei lo vedesse, dal momento che lo ha aspettato fuori e poi ve ne siete andati. Può essere stata solo lei che, approfittando della sosta in bagno di Francesco, è rientrata nella stanza, ha soffocato suo suocero e poi è tornata ad aspettare che suo cognato uscisse. Il signor Morini stava meglio, ma aveva problemi respiratori, ci sarà voluto un attimo a soffocarlo mentre dormiva.

    La donna a quel punto si trasformò in una belva:

    — Il vecchio stupido voleva dare in mano la società a quello stronzo di Francesco senza accorgersi che mio marito lavorava per lui in modo impeccabile! Mai una volta lo ha messo in imbarazzo, mai

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