Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Cuore di mamma
Cuore di mamma
Cuore di mamma
E-book360 pagine5 ore

Cuore di mamma

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Ernesto Capuano nasce in uno dei quartieri degradati del ventre di Napoli. In tenera età si trova a vivere con il padre Mario, uomo violento e avido che non si preoccupa nemmeno di sfamarlo. Sa che la madre lo ha abbandonato lasciando la casa ed il marito e portando con sé la figlia di un anno. Ernesto si trova troppo presto a lottare in una realtà quotidiana fatta di botte e privazioni. I disagi continui alimentano nel ragazzo un odio viscerale nei confronti della mamma che si è liberata di lui lasciandolo in balia di una belva. Le sue condizioni di vita lo condurranno presto a varcare la soglia del carcere minorile di Nisida, dove Ernesto scoprirà il valore della cultura e un notevole interesse per l’arte. L’amore per la pittura riuscirà a donargli serenità e rigenerare la sua anima inquieta. A diciotto anni, libero e con un diploma di liceo artistico proverà a indirizzare la sua vita verso i binari di una tranquilla esistenza. Invece il destino lo sballotterà tra Napoli, Sulmona e Roma, costringendolo ad affrontare una serie di prove dal sapore spesso amaro che sembrano essere disposte a casaccio sulla sua strada e che invece, alla fine, lo porteranno a scoprire la verità su quel prematuro abbandono che tanto ha influito sulla sua vita.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2016
ISBN9788899906191
Cuore di mamma

Correlato a Cuore di mamma

Ebook correlati

Fumetti e graphic novel per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Cuore di mamma

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Cuore di mamma - Tammaro Mormile

    Edizioni

    Prefazione

    Ho letto con un senso di sconcerto per il loro linguaggio troppo colorito le prime pagine del libro scritto da Tammaro Mormile. Non mi è mai capitato nella mia varia e vasta esperienza letteraria di leggere documenti narrativi di tale realismo, presentati nella espressione linguistica propria di individui simili a rifiuti umani che vivono immersi nella melma nei quartieri di degrado di Napoli o della sua periferia. Sono stata sul punto di chiuderlo rinunciando a continuarne la lettura, ma poi sono stata così coinvolta nella narrazione che ho ripreso a leggere per seguire i percorsi dello sventurato protagonista. Ho cominciato a sentire una profonda tenerezza per lui e mi sono immersa nel mare tempestoso del suo vissuto. Sono stata partecipe delle sofferenze del piccolo Ernesto, magro come un grissino con due occhi sporgenti in un volto pallido e una massa di riccioli, senza una famiglia, senza una casa, trascinato in vicende drammatiche. Lo presento ai lettori.

    Ernesto Capuano è un bambino segnato terribilmente dalla malasorte. Vive in una borgata di Napoli sporca e malfamata, in un ambiente saturo di miseria e di delinquenza con un padre depravato e volgare che lo picchia in modo bestiale per un nonnulla, infastidito dal fatto che ha sempre fame. Sa che la madre lo ha abbandonato fuggendo da casa con la figlia più piccola, stanca dei maltrattamenti del padre e la odia. È affidato ad un Istituto Misericordioso dove rimane alcuni anni e lì dai compagni viene istruito sui pericoli che corrono i bambini indifesi a contatto con preti cattivi e con orchi in agguato nelle strade. Ritornato a casa riprendono le vessazioni del padre e il ragazzo nelle sofferenze quotidiane si accende sempre di più di un odio implacabile per la madre che l’ha condannato ad un’agonia continua lasciandolo nelle mani di un mostro che lo tratta non come un figlio, ma come uno scarafaggio, tenendolo sempre affamato e costringendolo a dormire in un letto più stretto e scomodo di una cuccia per cani. Il ragazzo è obbligato a trovarsi un lavoro per procurarsi i mezzi di vita, ma il padre pretende che gli dia tutto il danaro guadagnato altrimenti è picchiato selvaggiamente. Una sera brutalmente malmenato dal padre fugge da casa e si trova nella strada senza un tetto e senza tutto, esposto a pericoli di ogni specie. Nella sua desolata condizione incontra una persona buona ed umana: don Antonio il barista di Corso Umberto, che ha per lui un atteggiamento paterno; gli offre lavoro e un rifugio nel retro del bar. Questa provvidenziale ancora di salvezza diventa causa di altre sventure imprevedibili per Ernesto che sperimenta la durezza del Carcere minorile di Nisida. Sembra che la scalogna più completa lo abbia colpito, ma proprio da questa terribile esperienza comincia il processo di maturazione spirituale del ragazzo che realizza la sua formazione umana, impara ad adeguarsi alle regole della vita civile, pur avendo in sé una carica di violenza, che scaturisce dalla sua interiorità aggressiva non essendo stato allevato con amore in una famiglia normale e non avendo ricevuto un’educazione a comportamenti corretti da genitori presenti e responsabili del loro ruolo. A Nisida, attraverso il contatto con la cultura, Ernesto conosce se stesso e scopre il suo spiccato interesse per l’arte; da questa naturale prerogativa prenderà impulso la sua catarsi e gli si apriranno gli orizzonti giusti per il suo avvenire. Più volte sfiora tragedie e sta per essere risucchiato da vortici pericolosi, ma sulla sua strada accidentata incontra pure degli angeli custodi che lo salvano quando sta per piombare nell’abisso; incorre in vicende spiacevoli che daranno poi alla sua vita una svolta positiva oltre ogni previsione. Complessa è la trama del romanzo ed è sempre interessante per i continui imprevisti. L’autore presenta una libera successione di scene di tonalità variabili. Le varie scene sono collegate da un intricato gioco di richiami narrativi con personaggi che appaiono e scompaiono per comparire molto più tardi sempre circondati da un’atmosfera fosca e ripugnante come l’imprenditore Parolisi conosciuto a Roma come un appassionato di pittura e ritrovato a Grumo Nevano come un trafficante di armi e di carne umana in un giro di prostituzione del livello più immondo ed inumano. Il narratore presenta il protagonista Ernesto nel suo aspetto fisico, ma con i suoi particolari ritocchi pare che gli faccia un’accurata introspezione affinché lo conoscessimo anche nella sua interiorità, che rimane sempre sana anche se egli si trova immerso fino al collo in un mondo che è fuori di ogni legalità.

    Tammaro Mormile osserva situazioni e personaggi con occhio acuto e si sofferma di più dove gli sembra più opportuno. Rappresenta a tutto tondo figure umane che risentono la sua simpatia per il ruolo che svolgono nella vita di Ernesto: don Antonio Iervolino, presente in ogni importante circostanza, il dottore Carmine De Riso sempre disponibile per quello che può, Alessia giovane intelligente e senza pregiudizi, hanno un’incidenza determinante nello svolgersi di vicende di grande importanza per il protagonista e sembrano fotografati nel compimento delle loro azioni. Così l’autore dipinge in tutta la sua spregevole essenza fisica e morale Mario Capuano, individuo peggiore di una belva immonda. Nel tessuto delle scene e nella rappresentazione dei personaggi in esse inquadrati sembra che Tammaro Mormile si sia servito del pennello invece che della penna: riproduce una realtà che rende ancora più attraente facendo parlare ogni personaggio con il frasario tipico del suo mondo, con un colorito mimetismo linguistico. Inoltre l’autore nel seguire il protagonista nelle sue avventure non descrive luoghi di un mondo astratto e fuori tempo; ci conduce in un mondo che esiste e che egli conosce bene. I personaggi del romanzo, perlopiù Napoletani di bassa lega, si esprimono alla maniera della gente di Forcella, dei Quartieri Spagnoli ecc. e lo scrittore ha il coraggio di presentare al lettore un mondo che non hanno descritto neppure i Veristi di fine Ottocento e inizio Novecento, pur rivolgendo il loro interesse al ventre di Napoli. Nessuno ha affidato alle carte una realtà così abietta per i livelli di vita. Infatti F. Mastriani, R. Fucini, S. Di Giacomo hanno presentato la Napoli dei fondali dei vicoli di ripugnante sporcizia in cui si muove una gente che ha sempre una carica umana. Gli umili di S. Di Giacomo anche quando impugnano un coltello per colpire a morte ’u malamente, l’infame, hanno impeti di collera giustificati dall’onore offeso, seguono i moti della loro anima genuina per impeto passionale. Ma nel romanzo di Tammaro Mormile prevalgono quelli che sono disposti ad operare il male nella forma peggiore, compaiono criminali che uccidono con fredda ferocia, con spietata determinazione come Mario Capuano e i suoi compari più sciagurati di lui. Poco più che adolescenti Ciro e Nicola hanno già fatto il loro battesimo di fuoco, hanno imparato a stroncare vite umane proprio come i baby boss di cui parlano quotidianamente i giornali, senza alcun turbamento, anzi con l’orgoglio di chi svolge un lavoro con merito ed efficienza. Per loro fare i killer non è un’attività criminosa; è importante fare bene il proprio lavoro. Chi è pagato da un potente è sotto la sua protezione, ma deve operare al suo servizio in tutto, deve far rispettare le leggi imposte dall’organizzazione e chi non le rispetta deve essere eliminato. Nell’associazione di artisti e trafficanti di stupefacenti dell’Ardeatina a Roma il più forte è Saporito, ma Parolisi intende allargare il campo dei traffici con la complicità di Mario Capuano e viene meno nel suo ruolo. Così l’attività criminosa viene scoperta; gli artisti finiscono in galera, il socio infedele scompare con un colpo in testa e sepolto sotto una montagna di rifiuti. Saporito il politico potente è salvo e riprenderà altrove la sua attività di mercante d’arte con l’intento di continuare in modo più oculato il traffico di cocaina fra Napoli e Roma.

    Tammaro Mormile distende il suo sguardo anche su di un mondo sano e fervido di operosità dove emergono personaggi che si dedicano ad attività dignitose e produttive, svolgono lavoro professionale con competenza ed entusiasmo, collaborano con le Istituzioni civili per promuovere lo sviluppo del paese nel campo economico e nel campo culturale ed artistico.

    Giudicato nel suo insieme, cioè nel suo contenuto avventuroso, nella forma stilistica e nelle caratteristiche del linguaggio, si potrebbe dire che il romanzo di Tammaro Mormile si accosti ai criteri innovatori e rivoluzionari di alcuni esponenti del Neorealismo letterario diffusosi nel dopoguerra, cioè dalla metà del secolo XX, i quali hanno fatto ricorso a costrutti, sintassi e lessico di gergo, ed espressioni dialettali napoletane e romanesche per raggiungere una maggiore immediatezza espressiva ed una più efficace incisività. Il Neorealismo, attraverso la Letteratura e il Cinema di forte impegno intendeva ristabilire nella nostra società quei valori che la terribile guerra aveva distrutto, penso perciò che Tammaro Mormile si proponga di essere un emittente che vuole attirare l’attenzione degli Organi della società civile mediante il canale della comunicazione e destare l’interesse delle Istituzioni perché siano risanati i bassifondi delle grandi città togliendo dalla strada ragazzi, adolescenti che sono fluxi et molles (volubili e strumentalizzabili) davanti al male - non ferrigni come Ernesto Capuano, che insieme al male nella sua vita ebbe pure una buona dose di fortuna - stimolandoli a qualsiasi attività pure artigianale attraverso l’impegno di Istituti ad hoc nei quali apprendano le regole della vita civile e imparino un mestiere per vivere secondo la dignità umana.

    Lucia De Cristofaro

    Scrittrice, giornalista

    I Parte

    Capitolo 1

    << Passami il sale >> ringhiò il padre, assumendo la solita espressione disgustata. Ernesto osservò il grassone seduto di fronte a lui. Si imbottiva di sale. Magari fosse servito a farlo schiattare. Forse sperava in quel modo di preservare le sue carni marce. Il ragazzo sbuffò. << Eccolo >> esclamò, tirando la saliera al padre.

    L’uomo colpito in pieno sul naso emise un urlo bestiale e si avventò sul figlio con l’intenzione di spaccarlo in due. Ernesto fu lesto ad alzarsi e scappare via dalla cucina, inseguito dalle bestemmie del padre.

    Era già nel cortile quando alzò gli occhi per vedere ancora una volta il viso del genitore; gli occhi erano due lampi che lo sfidavano a tornare indietro.

    Non si fermò a godersi le ingiurie che il padre gli lanciava come saette. Ne aveva sentite troppe nella sua breve esistenza. I fulmini scagliati da quella sorta di divinità da quattro soldi non potevano più nuocergli. Attraversò il cortile ed uscì nella notte, lasciandosi alle spalle l’ennesima serata di merda.

    La madre se n’era andata una notte di agosto come le stelle cadenti. Stufa di prendere botte da quel mostro di marito, panzone ubriaco e puzzolente ed occuparsi di un marmocchietto che probabilmente da grande sarebbe stato uguale a quello stronzo del padre. Aveva riempito un borsone ed era sparita nel buio con il maiale affondato nel letto, coperto solo da sudice mutande ed una patina di unto e birra. La sua sorellina se l’era portata via con sé. Sua madre era scomparsa con quella palletta frignante e lui era stato lasciato con quello stronzo grassone. Si era portata quella piccola rompiscatole che piangeva sempre. Lui che stava sempre zitto per non dare fastidio alla mamma era stato scartato. Aveva passato ore e ore a giocare con la piccolina per darle un po’ di tregua e per evitare che il grassone si mettesse ad urlare. E la mamma l’aveva lasciato in compagnia dell’orco, facendo perdere le sue tracce.

    Non aveva saputo più nulla di lei. Era stato lasciato come un vuoto a perdere in quella schifosa stamberga che adesso stava abbandonando con il pepe nelle chiappe.

    Odiava la madre per quello che gli aveva fatto o almeno odiava quell’immagine che si era creata nel tempo, arricchita mano a mano da pennellate livorose, vomitate fuori dalla sua testa nelle notti in cui le mancava, quando la disperazione era benzina che andava ad alimentare il fuoco del suo odio.

    La figura di quella madre maledetta si era evoluta col suo crescere.

    Da piccolo la immaginava spesso in una grande casa, in cucina a sfornare cannelloni e crostate di amarene per la sorella, cicciona e stronza come il padre, mentre il suo stomaco urlava per tutta la fame accumulata nella lunga giornata, passata per strada con Tonino e Pasquale. Erano frequenti le sere in cui il padre non si faceva vedere e lui andava a letto sperando di sopprimere con il sonno i desideri della carne che per lui erano disperatamente legati alla necessità di riempire il ventre.

    Fu fortunato a non capire che i desideri degli altri potevano venire incontro ai suoi. Il nonno di Tonino cercava sempre di portarselo nel suo laboratorio di imbalsamatore, per fargli vedere gli animali che preparava. Gli sguardi impauriti che gli lanciava il suo amico di sventura erano sempre stati più che sufficienti a farlo desistere.

    Lui aveva sempre associato il terrore di Tonino alla visione di tutti quegli animali con la vita sospesa, all’odore dolciastro che emanava suo nonno. Non sarebbe mai entrato in quel laboratorio. Pensava che gli animali, prima o poi, si sarebbero liberati da quello stato di immobilità forzata ed avrebbero aggredito il carnefice che li aveva costretti in quella sorta di prigionia. Un giorno gli uccelli ed i piccoli mammiferi avrebbero ripreso vita e si sarebbero staccati dai pezzi di legno su cui erano inchiodati. Si sarebbero lanciati sul nonno di Tonino e lo avrebbero dilaniato con becchi e artigli. Non aveva nessuna intenzione di trovarsi là dentro quando sarebbe successo.

    A volte a scuola immaginava la madre come una maestrina crudele che davanti alla classe lo bocciava come figlio oltre che come studente e lui subiva lo scherno della sorella, mentre la donna leggeva alla classe i temi sconclusionati in cui lui la pregava di tornare.

    Le privazioni cui il padre lo costringeva generarono col tempo un odio sempre più profondo verso la donna che lo aveva gettato in quel baratro. Nei momenti di disperazione aveva sperato di incontrarla per strada intenta a trascinarsi, come una vecchia carcassa, nei vicoli sporchi dietro il cinema Mignon alla stazione centrale.

    Il deturparla in un modo così viscerale acquietava le ondate di odio cristallino che gli facevano ribollire lo stomaco. E ancora immaginava di incontrarla dimessa, afflosciata con le sue carni su una cassetta di birra, presentarsi a lei e vedere un raggio di doloroso rimpianto negli occhi vacui di quel relitto umano.

    Nei sogni invece non riusciva a farle del male. Il suo livore non riusciva a superare l’incoscienza in cui cadeva nel sonno. Quella era per la madre una zona franca. Nonostante tutto il rancore che avesse potuto accumulare, in quel limbo la madre era sempre un angelo. E poi quando la sognava, il mattino dopo si sentiva rinfrancato da quell’esperienza notturna. Purtroppo non ricordava quasi nulla del sogno che la sua mente aveva appena sfornato. Al risveglio aveva solo la certezza che fosse stato bello. Si era sentito amato e quella sensazione lo faceva andare avanti per giorni. Ricordava bene solo uno dei più ricorrenti. Il sogno era sempre lo stesso. Lui era morto e la madre veniva sulla sua tomba a piangere disperata per averlo abbandonato. Quando si svegliava provava un senso di soddisfazione immenso nel ricordare la donna così afflitta e pentita davanti al suo mausoleo. Anche la sua tomba era sempre uguale. Era un vero e proprio monumento funebre, degno di un principe: un piccolo riquadro di verde pieno di fiori, chiuso da una bassa cancellata di ferro. In mezzo c’era il sepolcro: una bara di marmo bianco portata a spalla da quattro angeli piangenti della stessa pietra. Il complesso marmoreo era illuminato dal sole e la madre era sempre inginocchiata davanti alla cancellata, le mani poggiate sul freddo metallo per sostenersi, schiacciata dal peso del rimpianto e della vergogna.

    La sua vita aveva subito un miglioramento quando il padre, stanco di quella specie di insetto sempre affamato, lo aveva affidato ad un istituto misericordioso che gli aveva assicurato, per alcuni anni, una vita decorosa. Poi era tornato a casa e qui aveva tirato avanti grazie alla compassione dei vicini di casa. Aveva preso anche la licenza elementare nonostante il padre si occupasse di lui solo per ammazzarlo di botte quando ne aveva voglia. Il genitore lo trattava sempre più come un parassita che non riusciva a debellare ed allora nella vita di Ernesto si alternavano giorni in cui il padre provava a schiacciarlo ad altri in cui era completamente ignorato.

    Quelli erano i momenti più brutti. Allora si chiedeva inutilmente perché fosse stato destinato a quella vita di scarafaggio e in lui avvampava l’odio per la madre come quando un piromane getta liquido infiammabile sugli alberi secchi di un bosco. L’aveva lasciato in pegno a quel pezzo di merda, condannandolo a quella agonia continua.

    Mangiava e si vestiva grazie ai vicini di casa oppure quelle rare volte che il padre portava a casa qualche zoccola che si impietosiva a vedere quello scarafaggio secco e tutto occhi.

    Quando aveva iniziato a lavorare come garzone in un bar di giorno e di sera in una pizzeria, quel cornuto del padre lo aveva visto come risorsa e le botte stavolta erano arrivate quando il ragazzo non voleva mollare le lire sudate.

    Almeno aveva iniziato a mangiare con regolarità e si vestiva come un buono guaglione.

    Ma quella domenica, mentre cenavano, si era proprio rotto le palle di sentire i risucchi di quel chiattone di merda che si fotteva i soldi suoi e tutta la sua vita e non era stato nemmeno capace di mantenersi la moglie.

    Capitolo 2

    Trovò rifugio a porta Nolana. Le battone della zona lo conoscevano e lo coccolavano. C’era una stanzetta troppo sporca e malmessa per essere usata per le marchette. Ernesto vi si era già fermato a dormire quando il padre era troppo ubriaco da sopportare.

    Riprese la solita vita: il giorno tra caffè e pizze e la sera in quella sorta di pollaio, dormendo su un materasso fetente, finché una notte nella stanzetta trovò due belle persone ad attenderlo.

    Aveva messo in conto di trovare un giorno l’amato padre ad aspettarlo per riempirlo di mazzate, e forse sarebbe stato meglio.

    I due tipi grossi e allampanati, a grugniti gli fecero capire che volevano l’affitto per quello schifo di posto. Però lui poteva restare se entrava nel giro delle marchette. Alla fine gli cambiarono la faccia a pugni, ma si limitarono solo a quello. Certo aveva dovuto lasciare l’idilliaco rifugio, ma era libero di andarsene per quella città, senza debiti e senza riconoscenza per nessuno.

    Passò da casa. Se era fortunato non avrebbe trovato suo padre. Voleva rimettersi a posto la faccia e portarsi via i pochi abiti che aveva comprato con i suoi risparmi. Non trovò il caro genitore. Non trovò nulla. L’appartamento era quasi vuoto, non c’era più nemmeno una sedia. Non erano rimaste tracce della sua esistenza in quel posto, nemmeno una maglia vecchia. C’erano già gli attrezzi del pittore che doveva dare una parvenza di pulito a quelle due stanze incrostate di rabbia e sporcizia.

    E lui che si era immaginato che il padre lo avrebbe cercato! Quel parassita invece era scomparso, forse senza nemmeno pagare l’affitto e forse per evitare altri fastidi legati a quella piaga del figlio ed ai problemi che comportava.

    Era riuscito a farsi scaricare anche dal padre. Era in procinto di gettarsi nell’autocommiserazione più cupa quando sentì bussare alla porta di casa. Non poteva essere di certo il suo caro genitore e nemmeno l’odiata madre che tornava a prenderlo. In quell’istante immaginò un dialogo surreale tra i due, con il padre che con il suo tono acido e astioso intimava alla moglie di riprenderselo.

    Era la vicina di casa, la madre di Tonino. Entrò con due buste della spesa in mano. I sacchetti contenevano i suoi pochi abiti ed i libri di scuola. Il suo illuminato genitore aveva gettato tutto nella spazzatura. La donna si era preoccupata di salvare il salvabile. In mezzo alle poche magliette che possedeva trovò anche la sua carta di identità. Il suo amorevole padre non aveva aspettato molto a gettare via tutto ciò che lo legava a lui. Aveva fatto lo stesso con la madre. Ernesto non era mai riuscito a trovare in casa una foto o un documento o un semplice pezzo di carta che gli ricordasse almeno come era fatta la donna che lo aveva gettato nel mondo.

    La mamma di Tonino gli chiese se avesse mangiato. Lui mentì. La donna aveva già fatto tanto per lui. Non voleva che il padre lo venisse a sapere e si vendicasse su di lei. Si ripulì la faccia in bagno e si aggirò per le stanze vuote con una triste sensazione, certo non legata ai cari ricordi, ma alla certezza che adesso era veramente solo lui e basta.

    Quella notte dormì nell’appartamento, rannicchiato in un angolo. Uscì all’alba con le buste della sua vita in mano, come un ladro che scappa furtivo per evitare la polizia. Uscì sul Corso Umberto e come un bravo soldatino andò al bar dove lavorava. Il proprietario, un altro chiattone, ma di quelli buoni, una specie di padre Pio senza barba, era già al lavoro. Lo salutò mentre disponeva cornetti e monachine nel banco. Lo guardò senza fare domande. Sapeva bene che suo padre era uno stronzo con la mano facile. La routine giornaliera e l’odore del caffè gli resero la giornata più umana. Quella sera poi, in pizzeria andò particolarmente bene. Con le mance che aveva preso, poteva andare a dormire anche all’albergo Terminus. Invece andò a rintanarsi in uno dei palazzi evacuati per il terremoto. Certo, se volevi un po’ di intimità, non era il posto giusto, e se non ti mordeva una pantegana c’era sempre il rischio che qualche ubriaco ti volesse usare per divertirsi un po’. E quella notte alle mazzate del giorno prima, aggiunse un altro paio di medaglie al valor verginale. Arrivò al bar tutto rotto in faccia, ma con il culo salvo e non fece caso agli sguardi allarmati del padrone. Don Antonio Iervolino, il suo datore di lavoro però lo prese in disparte e gli parlò: << Guagliò, io non ti posso mandare per strada così combinato>> gli disse preoccupato << Mi pari ‘o ciuccio ‘e fechella>> << E chi è? >> chiese Ernesto più per educazione che per reale interesse << Trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!>> gli disse ancora Don Antonio. Gli spiegò che spaventava i clienti conciato in quel modo.

    Quel giorno sarebbe stato a casa e sarebbe tornato al lavoro quando avrebbe avuto almeno l’aspetto di un ferito grave e non di un lebbroso. Gli promise che la sera stessa sarebbe andato a parlare con il padre per provare a calmare la sua frenesia manesca. Don Antonio era conosciuto nel quartiere perché dietro l’aspetto bonario era un gran figlio di zoccola quando si trattava di buttare le mani. Aveva fatto il pugile per un sacco di anni. Con il ricavato di una carriera più che dignitosa aveva acquistato quel bar su Corso Umberto.

    L’interesse mostrato dal padrone per la sua condizione di merda lo fece ridiventare ragazzino. Scoppiò a piangere e rivelò a Don Antonio che avrebbe fatto un viaggio a vuoto. Non c’era più nessuno da pigliare a schiaffi nel suo palazzo. Era solo e senza casa. L’uomo gli fece bere un po’ d’acqua e senza aspettare altro gli scrisse su un foglio l’indirizzo di un medico suo amico. << Vai da lui e digli che ti mando io >> gli disse << Ti metterà un po’ a posto la faccia >> lo rassicurò. << Si occupava delle mie ferite quando facevo il pugile e mi spaccavano il naso >>. << Quell’uomo faceva veramente miracoli, altro che San Gennaro >>.

    Il dottore sembrava la mummia di Abramo, ma ci sapeva veramente fare. Quando Ernesto tornò al bar, anche don Antonio, nonostante ne conoscesse la bravura, restò a bocca aperta. Ed anche al ragazzo entrarono le mosche nella bocca. Il padrone aveva allestito una brandina nel retro del locale, c’era pure il bagnetto di servizio. Per la seconda volta dopo tanti anni si aprirono le fontanelle. Non riusciva a fermarsi, se ne vergognava, anche se scoprì che pure don Antonio aveva gli occhi lucidi.

    Capitolo 3

    Andò avanti così per tutta l’estate. Anche quando il bar chiuse per quindici giorni di meritate ferie, Ernesto poté continuare a dormire nel bar. Per accedere usava una porticina che dava nel palazzo. Per ricambiare si occupò della pulizia del locale. Don Antonio era contento perché si sentiva il cuore più leggero e la tasca più pesante. Il bar non era mai stato così pulito e lucido, per non parlare del bagno, che da latrina fetente era stato promosso a toilette.

    Quando si avvicinò l’apertura della scuola, Ernesto si trovò davanti alla scelta che gli faceva contorcere l’intestino. La pancia gli consigliava di restare a lavorare nel bar, al caldo e al coperto. Il cervello lo esortava a tornare a scuola, con l’incognita di trovarsi di nuovo in mezzo alla strada. Fu ancora don Antonio che come uno dei re magi continuava a dispensargli regali. Un giorno, all’inizio di settembre gli disse perentorio << Erne’, tu devi andare a scuola >>. Il ragazzo restò di stucco. Il padrone prese il suo mutismo come una sorta di ribellione alla sua proposta << Ernesto tu non devi fare lo scemo >> gli ringhiò << La scuola è importante, mica vuoi finire come quella chiavica di tuo padre? >>. Non poteva crederci. Riuscì a tirar fuori una timida obiezione

    << Ma don Anto’ e voi come fate col bar? >> e poi quasi con disperazione << E io poi come faccio? Arò vaco? >>. Don Antonio lo guardò negli occhi. Se lui avesse avuto un padre vero avrebbe saputo che ricalcava fedelmente la definizione di sguardo paterno. L’uomo lo rassicurò: avrebbe continuato a dormire nel retro del bar fino a quando avesse voluto. Lo avrebbe aiutato fino all’orario di scuola ed eventualmente nel pomeriggio. Il grosso dei clienti del bar era concentrato nelle prime ore del mattino. << Se stai qua fino alle otto, basta e avanza>> gli disse don Antonio, poi aggiunse burbero << A lavorare in pizzeria non ci potrai andare però, altrimenti quando studi? >> Fu veramente difficile trattenersi, ma stavolta riuscì a non piangere, anche perché era contento. Era così contento che quel pomeriggio andò da Bergavi dietro la duchesca ed acquistò una scatola di pastelli da 24, una matita azzurra, come le maglie del Napoli ed un album di fogli da disegno.

    Quella sera, alla fioca luce di alcuni lumini che rendevano omaggio alle anime del purgatorio, tirò fuori i colori uno ad uno e passò un tempo infinitamente dolce ad annusarli. Si addormentò così, sereno, con ancora nella

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1