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La ragazza di Pozzallo
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E-book476 pagine6 ore

La ragazza di Pozzallo

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Info su questo ebook

La ragazza di Pozzallo è un romanzo che affonda le proprie radici nella tradizione letteraria, cultura e terra siciliane. Il mare blu e il sole cocente dell’isola fanno da sfondo alle indagini dell’Ispettore Capraro, qui alle prese con un delitto che indurrebbe chiunque a credere nel suicidio della vittima, attorno al quale va infittendosi una rete di fatti criminosi. Un poliziesco, dunque, ma non solo; l’incontro con due clandestini sopravvissuti a un naufragio porta l’Ispettore a scandagliare la realtà infame che sta dietro l’immigrazione e “l’accoglienza”, dove l’eterna necessità di fare sintesi tra chi vuole aiutare e chi non desidera lo straniero in patria produce una squallida burocrazia e, peggio ancora, offre il fianco alla cattiva società e alla speculazione. Oltre i fatti di sangue, attorno ai quali si sollevano lo sdegno e la morbosa curiosità dei media, esistono delitti taciuti, orribili, che vengono operati nei confronti di uomini, donne e bambini innocenti, i cui diritti, sogni e ambizioni vengono costantemente mortificati, repressi, negati. 
La scorrevolezza di queste pagine, vivacemente colorate dall’uso del dialetto, conquista il lettore, facendone parte attiva della storia, tra quesiti e dubbi che si sollevano; non mancano però le forti emozioni legate all’amicizia che si instaura tra l’Ispettore e i due immigrati, foriera di un’umanità nuova che in Sicilia trova terreno fertile per germogliare.

Alessandro Salvatore Ferrara è nato a Caltanissetta. Ha trascorso la sua vita tra la città d’origine, la capitale Palermo e l’area del ragusano, girando e imparando a conoscere in lungo e in largo il territorio siculo. È stato un Dirigente della Regione Siciliana per un trentennio, dopo una parentesi dedicata alla professione di architetto, concludendo la carriera in un ruolo amministrativo apicale. 
Attualmente in quiescenza, ha abbracciato la sua grande passione per la scrittura.
Ha pubblicato nel 2020 il suo primo libro, Good Morning Sicily, la prima e ultima Repubblica.
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830680142
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    Anteprima del libro

    La ragazza di Pozzallo - Alessandro Salvatore Ferrara

    Nuove Voci

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREFAZIONE

    ...Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile

    ambiguità psicologica e morale.

    Così come l’isola tutta è una mischia

    di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto,

    ivi è più flagrante la luce….

    G. Bufalino. L’isola plurale 1985

    Il nisseno Alessandro Salvatore Ferrara, architetto e viaggiatore nell’isola sicula, di cui è acuto osservatore e narratore, prosegue la sua creatività letteraria, già avviata con il romanzo d’esordio titolato Good Morning Sicily - La prima e ultima Repubblica (Edizioni Lussografica - Caltanissetta 2020) e ora materializzata nel geniale intreccio narrativo del romanzo poliziesco La ragazza di Pozzallo, creato dal rapporto tra la figura del protagonista, l’ispettore di polizia Michele Capraro, e l’immagine della Sicilia, costruita dal nostro autore attorno ai personaggi comprimari, nei densi e intensi capitoli, metafora dell’architettura identitaria arricchita da fluenti e singolari visioni di verità e di equità.

    In effetti le tematiche affrontate, attorno alle quali ruota tale romanzo, riguardano sia le luttuose odissee dei migranti nel Canale di Sicilia su cui s’affaccia la città di Pozzallo, sia i delitti che disvelano impensabili collusioni di poteri, piaceri e voluttà.

    È rispettata la presenza degli elementi che sono indispensabili per il romanzo poliziesco, cioè il delitto, l’investigatore, l’indagine e lo smascheramento del colpevole.

    Così nelle corpose pagine l’ardito narratore srotola vivaci e incisivi dialoghi tra l’ispettore Craparo e il suo Vice Tatiana Lo Grasso; fa ricorrere l’Ispettore, grazie anche ai suoi fidati agenti, ad astuti espedienti con gli interrogatori a possibili complici fino a recuperare il tassello mancante dell’ammazzatina dei due fratelli Paolo e Nunzio La Mantia, allevatori sparati nella stalla delle vacche e a provare che il suicidio di Luigi Calandra, gioielliere di Falconieri, era invece omicidio.

    Il nostro autore traccia un originale e immersivo viaggio nell’isola mediterranea catturando gesti, parole di siculo idioma e gli indicibili naufragi della vita negata, richiamando pure a sostegno della sua ispirazione narratori e saggisti del Novecento siciliano quali, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Andrea Camilleri, autentici pionieri della ricerca della verità sull’isola plurale, contrassegnata dagli eccidi malavitosi e ancora per dirla con L’arte della fuga di Vincenzo Consolo "infelici che, approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo... Da ogni Est e da ogni Sud del mondo, da Afriche dal cuore sempre più di tenebra, da Sud Americhe di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi".

    In effetti lo stesso autore si sofferma, prima osservando "che magia per Michele il mare, quell’andirivieni continuo delle onde; poi scrivendo che lo addolorava tutto quanto succedeva attorno agli sbarchi continui in Sicilia e nella Pozzallo proprio di La Pira, con tutte le cattiverie sputate da politici vili e razzisti che avrebbero voluto lasciare a mare i poveri profughi, bambini, donne e uomini; infine annotando il pensiero del poliziotto Capraro, il quale si chiese se stava commettendo un crimine: aiutare due poveri disgraziati, approdati chissà grazie a quale prodigio in terra sicula, accogliendoli senza lasciarli morire d’inedia, invece che correre a denunciarne lo sbarco". Ma è l’accoglienza fraterna a liberare i dubbi dell’ispettore, celestiale salvatore nel buio della spiaggia di Falconieri della coppia eritrea Jonas ed Ella, coppia ospitata a casa dello stesso ispettore per facilitare la nascita del figlio portato in grembo. Agile e coinvolgente lettura sussegue la nascita della famiglia allargata cui ambisce Michele Capraro, scapolo e senza parenti, che ascolta il lungo e doloroso tragitto affrontato dai due migranti con le torture corporee subite.

    Vorrei azzardare l’ipotesi ricercata secondo me dal narratore sulla struttura del romanzo poliziesco, rivisitato mirabilmente dalle connessioni tra i delittuosi crimini degli immigrati, vittime pure del nero caporalato, e gli assassini registrati a Falconieri in Sicilia che rivelano interessi pecuniari e carnali relazioni. All’ampia letteratura sui flussi migratori e sul romanzo poliziesco l’autore connette la scelta della discorsività e della fluidezza linguistica e una forte presenza del dialetto.

    Ancora una volta la letteratura siciliana con l’innovativo contributo di Alessandro Salvatore Ferrara suggerisce l’invito alla lettura adottando in modo personale un genere narrativo carico di anni e di eminenti scrittori siciliani, che sono protagonisti indiscussi della letteratura nazionale.

    Grazia Dormiente

    Professoressa emerita, poetessa, studiosa e saggista

    INTRODUZIONE

    La ragazza di Pozzallo è il titolo del romanzo libro del nisseno Alessandro Salvatore Ferrara. Il genere è fondamentalmente poliziesco. L’Autore si cimenta con le intricate indagini dell’Ispettore Michele Capraro, coadiuvato dalla sua vice Tatiana Lo Grasso e dagli Agenti del Commissariato di Falconieri in provincia di Rakkusa, città immaginarie ma chiaramente siciliane e anche di facile identificazione. L’amata Sicilia, con le sue bellezze naturali e architettoniche e i suoi atavici problemi, è ancora il terreno fertile su cui Ferrara può scatenare la sua fervida fantasia. Terra di grandi contraddizioni, l’Isola per l’Autore rappresenta lo scenario ideale per costruirvi storie. Storie di miseria ma anche di grandi gesta umane e altamente nobili, di malvagità ma anche di slanci eroici, laddove paradossalmente compiere il proprio dovere quotidiano di tutore dell’ordine deve trasformarsi in atto di eroismo. In questo poliziesco la tranquillità del paese di Falconieri viene improvvisamente sconvolta dal suicidio del gioielliere Luigi Calandra, figura losca e poco amata, e dall’omicidio dei fratelli Paolo e Nunzio La Mantia, due poveri allevatori di vacche uccisi a colpi di pallettoni nella loro stalla in contrada Lannari. A partire da questi ingredienti e col suo stile scorrevole e sempre colto, contraddistinto da frequenti citazioni letterarie e di riferimenti culinari, Ferrara imbastisce gli elementi di una trama avvincente, che inizia con l’incontro casuale dell’Ispettore Michele Capraro con una coppia di immigrati clandestini eritrei scampati al naufragio del loro barcone: Yonas ed Ella, incinta e prossima al parto. L’incontro accade mentre passeggia una sera sulla battigia e da lì, via via narrando e discorrendo, gli eventi si sviluppano e avviluppano trascinando il lettore in un’avventura ricca di afflato e accattivante. È una storia realistica, di quelle che possono capitare tutti i giorni. Gli ingredienti, infatti, ci sono tutti per sviluppare importanti temi di attualità che assillano non solo la Sicilia ma anche l’intera Nazione, quali l’immigrazione clandestina e i vari centri di accoglienza stracolmi di esseri umani, con i loro svariati, burocratici e asettici acronimi, il caporalato e la delinquenza comune, la mafia e la corruzione. L’Ispettore Capraro e la sua squadra devono mettere in campo parecchie risorse di intuito, di creatività e di intelligenza investigativa per venire a capo di un giallo che inizia nel periodo di Ferragosto e finisce verso la fine di settembre, nella settimana dei festeggiamenti del Santo Patrono di Calatariali (Caltanissetta), San Michele. Le sequenze narrative vengono scandite con matematica precisione dalla voce narrante, quasi con ossessione, riportando sempre data e giorno della settimana per ogni accadimento. Così come altamente scientifiche, direi alla Edgar Allan Poe, sono quelle meticolose misurazioni, quei centimetri o ancora l’accuratezza di quelle date proprio perché fondamentali per formulare e convalidare realisticamente un’ipotesi investigativa. Vero è che i nostri indagatori ogni tanto si avvalgono anche della buona sorte, quando le indagini improvvisamente si arenano nella vana ricerca di un indizio, di una prova per confermare un’intuizione o una logica dei fatti. Insomma, per risolvere il giallo occorre l’apporto di tutti: anche da parte del lettore se vuole anticipare gli avvenimenti o la soluzione del giallo, all’interno di quel gioco leale che lo deve legare pagina dopo pagina all’Autore. Ne La ragazza di Pozzallo questo rapporto è mantenuto sempre su buoni livelli. Il testo di Ferrara potrebbe prestarsi agevolmente per una rappresentazione cinematografica, con la riconoscibilità dei personaggi, ben caratterizzati e veritieri, con la bellezza e l’incanto dei luoghi e paesaggi descritti e le atmosfere evocate.

    Angelo Lo Verme

    Scrittore, poeta e saggista

    1 – L’AMORE E IL MARE

    Il rumore del silenzio inondò la modesta camera, pur nel soffiare discreto del condizionatore.

    Appena il cigolio delle molle ebbe termine, il paziente vicinato apprezzò la riconquistata pace.

    Quando Michele Capraro ebbe esalato l’ultimo gemito di piacere, si mise supino.

    Godette di quell’attimo di soddisfazione guardando il soffitto, di quelli con il finto tavolato e le finte travi, di quelli che suscitano squallore.

    Veramente, quando sono stati esauditi i soli bisogni carnali, senza alcun sentimento, il senso di squallido aleggia su tutto, principalmente dentro l’anima.

    E Capraro credeva che la sua anima non fosse poi così tanto linda.

    Francesca Verderame era rimasta anch’essa a pancia in su e a gambe larghe.

    A occhi aperti disse: «Michè, ma perché non mi sposi? Non ti farò mancare niente, la casa pulita, le camicie stirate, il mangiare pronto, tutto quello che un uomo può desiderare da una moglie. E poi, non mi dovresti pagare più: potresti fare l’amore con me quando vuoi e gratis».

    Quel 16 di agosto si presentava sorprendente: una dichiarazione di matrimonio!

    «Non pagarti sarebbe già un buon motivo, con quello che mi costi. Ma mi domandavo: tutti accussì assai pagano cu tia? E se è questo che ti guadagni nella vita, cu tu fa fare a maritariti? Guadagni più di n’ambasciatore e senza pagari i tassi. Certo, un’altra vita… hai provato mai a cercartela?».

    «Sì, certo, quanto può durare questa vita? E quando sarò vecchia, chi penserà a me?» disse Francesca, in un italiano perfetto, sebbene fortemente intriso del suo accento rumeno.

    Si chiamava Francesca, Francesca Popa ed era un fiore incantevole.

    «Francesca mia, sai quanto ti voglio bene e ti sono fedele, nonostante il mestiere che fai. Ma iu un m’aio voluto ammugliare cu autri fimmini, di casa e ricche. E m’avissi a spusare cu tia?! Si beddra, sulu Dio sapi quanno. E puru tu onesta, a modo tuo. Ma fino a quannu mi fa trasiri preferisciu accussì, Francè. Non so se mi capisci?».

    «La porta per te è sempre aperta, se non sono occupata. È che a volte si desidera un’altra vita, appunto, e tu mi sembri un uomo diverso dagli altri. Sei gentile, rispettoso, non sei raccapricciante come certuni. E poi sei l’unico che non faccio mai pagare prima, quando entra qua. Ho piena fiducia in te, sei come un amico-amante».

    «Minchia, vero è. Scusami Francesca, ecco qua i piccioli. Lo avevo scordato. Ma ora minn’aiu a ghiri. Spero di telefonarti presto, anche se per ora devo fare economia. Un s’arrinesce a campari cchiù, buttana di li guai. Senza volere offendere a nessuno, s’intende». Così salutò Michele che, da quando era tornato in Sicilia, non aveva conosciuto altra donna che Francesca Verderame.

    Lei era di un paese della Romania che Michele non ricordava mai esattamente quale fosse… di Surda o Turda, boh? Francesca era il suo vero nome. Il cognome era facilissimo, ma Michele le aveva affibbiato quel Verderame per via di quel ciuffo che civettuolamente si era tingiuto di un verde che sembrava quello del rame che cangia cu tempo e cu l’acqua. Era proprio na brava carusa. Era anche bella e ci sapeva fare. Quando le aveva domandato perché faceva quel mestieraccio, la risposta era stata sempre la stessa: Scelte di vita.

    Eppure, Michele avrebbe voluto fargliela cambiare, quella vita.

    Chissà cu erano l’autri amanti di Francesca? Era curiusu, ma un lu vuliva sapiri. Per discrezione, forse, oppure picchì c’era na punta di gelosia a pensare ca faceva i stessi cosi con autri omini. Se gli chiedevano se aveva una donna, lui rispondeva di sì.

    Per fortuna l’appartamento di Francesca era raffrescato, così non si era accorto du cavudu bestiale ca faciva fora: minchia, t’avivatu a cercare l’umbra per catamiariti, sinnò ristavatu sticcutu. Bisognava camminare sotto gli alberi e adagio.

    Michele Capraro pinsò, sperando che succedesse, ca se quarcunu avissi voluto sposarisi a Francesca, che era attraente assai, avissiru dovuto canciari città o addirittura regione, picchì in Sicilia, cu è buttana resta buttana, cu è curnutu resta curnutu, cu è professore resta professore, cu è parrino resta parrino e cu è sbirro resta sbirro.

    Comu a iddru ca, anche se anzianuliddru, era sempre chiamato u sbirro.

    Era sicuro che sarebbe rimasto u sbirro pure da pensionato, per ingiuria.

    Certo, da ragazzo ci aviva passato in testa di fare il sacerdote, di avere la vocazione. Ma durò picca. Anche se cu i parrina, pinsò, aviva na cosa in comune: il celibato. E forse, qualche sacerdote aviva n’antra cosa in comune cu iddru: che se ne andava a puttane.

    Forse era giusto che nessuna donna fosse costretta a fare quel mestiere.

    Cu sapi quannu ci nni su di chiddri ca pregano a Dio e futtunu u prossimo.

    Quella era una società infestata dall’ipocrisia: Fa chiddru ca un parrino ti dici, ma no chiddru ca u parrino fa! era il proverbio.

    Ma questo valeva pi tutti: quanti cosidetti cristiani si livavano a coppola pi trasiri in chiesa e si confessavano? Poi, quannu niscevano, si facivano vasare la mano.

    L’avissi sbattutu tutti in galera, si avissi potuto.

    Ma lui lo sbirro l’aveva fatto al nord, al confine con la Svizzera, in mezzo ai polentoni che lo trattavano con la puzza sotto il naso, anche se con rispetto.

    Alla fine della carriera, il Ministero gli aveva concesso di andare a travagliare nel paese natio, dove pochi si ricordavano di Michele Capraro.

    Qualcuno ci dava di vossia, per anzianità, ma gli dava fastidio, lo faceva sentire vecchio.

    Ormai era del tutto solo, a parte qualche lontano parente.

    Ecco perché, ogni tanto, cercava compagnia: l’amore solitario lo rattristiva tanto, quello mercenario, in fondo, pure.

    Ma, chissà picchì, na fimmina pi maritarisi un l’aviva accanusciuta mai.

    Sempre difittuse erano pi iddru. O forse era iddru u difittusu.

    Fatto sta ca zitello era stato e zitello arristava.

    Cercava l’amore vero, ma dove?

    Pensava a tutte ste cose, Michele Capraro, e alla sua gioventù, alquanto scapestrata, e a quell’unica donna che avrebbe sposato, incinta di suo figlio. Ma l’abbandonò anche lei, perché lasciò la vita e quella del piccolo all’improvviso.

    Fu il buio, un momento molto duro della sua vita che non avrebbe mai dimenticato.

    Eppure, passati i sessant’anni, ancora teneva una gran capacità di camminare assai e, ogni sera, come quella, si faceva lunghe passeggiate in riva al mare.

    Che magia per Michele il mare, quell’andirivieni continuo delle onde, quel liquido che ora era lì e domani avrebbe bagnato chissà quale terra; e quell’orizzonte, che sembrava sempre uguale, ma non era mai lo stesso.

    Dal lungomare Pietrenere, a Pozzallo, si incamminò per la spiaggia di Santa Maria del Focallo, il mare più pulito e trasparente del sud Europa.

    Limpido e trasparente come Giorgio La Pira che proprio a Pozzallo aveva avuto i natali, il Sindaco buono, innovativo e santo, l’uomo del dialogo politico, che promosse la pace tra i popoli, l’ecumenismo, i colloqui mediterranei, la ricerca delle comuni radici culturali tra i popoli, la carità e il rispetto dell’umanità. Aveva scritto: Il Mediterraneo resta ciò che fu…un focolare vivente e universale dove gli uomini possono ricevere le luci della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità. Per questo a Firenze lo ricordavano sempre, come uomo e Sindaco.

    Lo addolorava tutto quanto succedeva attorno agli sbarchi continui in Sicilia e nella Pozzallo proprio di La Pira, con tutte le cattiverie sputate da politici vili e razzisti che avrebbero voluto lasciare a mare i poveri profughi, bambini, donne e uomini.

    La luna era coperta dalle nubi, ma quando compariva illuminava le onde e la sua fluorescenza saltava da una cresta all’altra, dando vita a uno spettacolo stupefacente.

    Mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare pensava agli immigrati e gli bombardava in testa Battiato, un cantante che amava ascoltare.

    Ricordò il viaggio che fece a Milo per andare a vedere la sua casa, e nel frattempo ammirò anche quella del grande Lucio Dalla che sull’Etna era nel suo buen retiro.

    … di farci del male, di farci annegare, com’è profondo il mare! ora cantava.

    Capraro amava il mare e voleva viverci tutta la vita, su una barca magari.

    E tra le barche si muoveva, quelle ormeggiate lungo la riva, quelle dei pescatori locali che, per fortuna, ogni santo giorno gli permettevano di mangiare pisci friscu friscu, altro ca chiddru congelato.

    Invece, un rumore di legno spezzato fici congelare a iddru.

    Cu c’era in mezzo ai varchi, ammucciato ni na notte senza luna?

    Scuru cu scuru un si vidiva, ma quattro occhi sperluccicanti, misi bassi darreri a na varca, ci ficiro arricanusciri a due immigrati che erano bagnati dalla testa ai piedi.

    Erano un mascolo e na fimmina, iddra cu na panza ca pariva che partoriva in capo a spiaggia, cu n’antro poco.

    E ci chiese: «Ma chi siete, da dove venite? Chi ci fate ddroco ammucciati?».

    Lui, un energumeno ca pariva Kunta Kinte, ma ancora più alto e più robusto, si alzò e cominciò a inveire contro Michele, come si fa cu i cani e l’armali pi farli scantari e farli scappari. Sbraitava nella sua lingua e non si capiva niente di chiddru ca diciva.

    Michele non si scantò e non perse la calma. Allura, che sbirro era!

    Aveva capito chi erano e ci faciva ssssssssssh!, con il dito sotto al naso.

    «Statti mutu e carmo. Calmo, calmo. Amico sono. Do you speak english?» dumannò.

    «Yes, I speak something. Who are you?».

    Cu sugnu io? Iddru aaddumanna a mia cu sugnu io pensò Michele.

    «I’m a friend. And you need help. You trust me» disse chiedendogli di fidarsi, visto che erano loro ad aver bisogno di aiuto.

    L’omo niuro si inginocchiò di lato e, talianno a so mugliere, ci disse: «We are alive by miracle and all wet. She is pregnant» indicando il pancione di lei.

    Michele, poi, non è che capiva accussì bene un’nglisi. Ma na cosa era evidente: non solo era incinta, ma stava partorennu ed erano scampati a un naufragio pi miracolo.

    Si avvicinò, si livò la giacca e la misi supra a la fimmina, che tremava pu friddu.

    Kunta Kinte ci stringì le spalle e ci disse: «Thank you. Help us, please».

    «Help us? È na parola. Venite appresso a mia» ci disse facendo segno con la mano verso la direzione da prendere, mentre aggiustava la propria giacca sulle spalle della donna, esausta e infreddolita.

    Kunya Kinte, che poi si chiamava Yonas Alazar ed era eritreo, come avrebbe scoperto dai documenti, fradici, in possesso dell’uomo, prese la moglie sottobraccio e l’accompagnò dolcemente dietro a Michele.

    Ella era il suo nome ed era di una bellezza straordinaria.

    Michele avrebbe poi scoperto che quello che, in fondo, non era un cognome ma come un nome aggiunto, era Tewolde, che in Eritrea doveva essere quello del padre.

    Percorsero poco più di trecento metri e salirono tutt’e tre sulla Picasso color melanzana dello sbirro.

    Michele avrebbe chiesto dopo cosa era successo a quei due disgraziati, splendido prodotto della natura, prossimi a procreare chissà quale altra meraviglia umana.

    Quello era certamente il frutto di un amore, si capiva solo a guardarli.

    Da poliziotto si chiese se stesse commettendo un crimine: aiutare due poveri disgraziati, approdati chissà grazie a quale prodigio in terra sicula, accogliendoli senza lasciarli morire d’inedia, invece che correre a denunciarne lo sbarco.

    Ma quello era un delitto? Così la legge italiana considerava quel comportamento umanitario e altruistico? Ma che si facessero fottere gli uomini senza cuore!

    Guidò piano, attento a eventuali posti di blocco e a evitare le tante, troppe buche che stavano lungo il tragitto, da assai tempo abbandonato, che separava la spiaggia di Falconieri da casa sua, percorrendo al buio l’intramontabile suolo ibleo.

    Arrivarono alla sua villetta, datata ma accogliente, eredità dei suoi defunti genitori.

    Il telecomando, uno dei rari oggetti di modernità posseduto da Capraro, spalancò il cancello di contrada Belvedere.

    Il calore umano di quella casa fu una medicina naturale per i due naufraghi.

    2 – GLI IMMIGRATI

    Lo sbarco di chi cerca un altro mondo è una cosa che ti infonde il senso della gentilezza, che ti fa incrociare lo sguardo sperduto di chi fugge, di scoprire dai loro occhi la profondità del dolore che li attanaglia, che hanno bisogno del tuo aiuto.

    Ma dove le aveva lette quelle cose?

    Offrire accoglienza a quei disgraziati poteva essere come delinquere?

    Michele non si disarmò pensando all’ipotesi di reato, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anzi, sinni stava futtennu.

    Ama il prossimo tuo, ecco.

    Quello sì, ma farisi futtiri no: doveva stare attento.

    Arrivati a casa, Michele diede ai due eritrei abiti asciutti, chiaramente tutti maschili. A sò panza gli permetteva di avere pantaloni e pantaloncini larghi abbastanza per una donna incinta.

    Intanto, era tardu e avivano a dormiri.

    Perciò aprì il divano letto e offrì il suo alla coppia, già molto provata.

    L’indomani gli avrebbero raccontato ogni cosa, ma ora ci voleva riposo.

    Inutile dire che Yonas ed Ella si fecero una bella doccia calda e, non mancando di manifestare la loro riconoscenza, approfittarono del frigo di Michele per nutrirsi, dopo notti e giorni insonni e senza cibo.

    Certo, la situazione era provvisoria, non poteva essere accussì pi sempre: ma quella notte doveva andare in quel modo: a domani avrebbe pensato Dio, si sperava.

    Michele dormì malissimo, per tanti motivi: primo, il divano letto, scomodissimo, cosa che sarebbe stata tale anche per i suoi ospiti, per quanto reduci dalle sdraiate sul fasciame della barca; secondo, perché il suo ultimo pensiero, prima del ritrovamento dei due eritrei, lo assillava, tanto da farlo sognare, per quel poco che riuscì a dormire, storie e avventure senza testa e senza coda.

    Si risvegliò nel sonno con una canzone di Vinicio Capossela in testa: Che cos’è l’amor… chiedilo al vento… che sferza il suo lamento sulla ghiaia del viale del tramonto….

    Il viale del tramonto… si incazzava al sol pensiero che qualcuno potesse immaginare che non ne aveva più o, peggio, che la sua scelta di solitudine fosse dipesa da questioni ormonali. Era l’amore quello che gli mancava.

    Non aveva ancora congegnato nulla sul da farsi l’indomani mattina: quei due sciagurati eritrei andavano messi in sicurezza e in condizioni ottimali, ma ora si doveva far quadrato su cosa fare per assicurare la loro libera sopravvivenza in terra sicula e la sua personale illibatezza professionale.

    E si riassopì, sognando ancora un incontro, assai piacevole, almeno per lui:

    «Se non è offensivo, posso dirle che Lei è una donna bellissima?» rivolgendosi a una ragazza conturbante.

    «La ringrazio. Solo che mi sembra un po’ troppo agèe per certe avance, anzianotto insomma, non trova?» rispose la signora.

    Michele Capraro si risvegliò di botto. Quel sogno era stato peggio di un incubo.

    Manco avesse sognato Belzebù in persona che gli lanciava lapilli di fuoco.

    Si alzò e corse allo specchio: Io vecchio? Cazzo, viero è!.

    Aveva la sua età e non era più arzillo come prima e non attraeva più nessuno.

    La bellezza femminile aveva sempre esercitato un grande fascino su di lui.

    Ed era anche stato ricambiato. Ma mai fino al punto da sentirsi strappare il cuore. Ma ora le cose non stavano più così.

    A volte credeva di sentire la necessità di non star solo e, come Ciccio Ingrassia sull’albero, in Amarcord, avrebbe voluto gridare: «Voglio una donnaaaaaaa!».

    Ma poi pensava ai vantaggi della solitudine.

    Vivere solo, a volte, lo rendeva triste, ma nello stesso tempo appagato.

    Spesso, pensava che fosse la sua giusta dimensione: poteva fare tutto ciò che gli passava per la testa. La vita di coppia gli era sempre sembrata una scelta perversa.

    Certo, non capiva mai se fosse libertà o solitudine.

    Eppure, Michele era un uomo di bell’aspetto, incuteva rispetto e timore, anche tra i colleghi, persino tra i superiori. C’era qualcosa di altezzoso in lui, certe volte sembrava persino superbo, ma in realtà era umile. Era il suo sentirsi onesto, sapere di non dovere temere nessuna accusa di compiacimento o, peggio, di complicità con un sistema che era conosciuto per essere infarcito di corrotti e sodali con le associazioni criminali.

    Compresa la mafia, schifosa creatura della perversione umana, quel sistema fatto da sanguisughe che credono di poter campare sulla pelle degli altri, vigliaccamente prepotenti verso i più deboli o, comunque, verso chi non ha né garanzie né protezione per reagire e tutelarsi: poveri e sfruttati.

    Grazie ai colletti bianchi, alla Chiesa ipocrita e finto commiserevole, alla politica degli affari o del malaffare, ai tanti pecoroni venduti per due soldi alle lusinghe dei disonesti, a quella società serenamente omertosa che nulla vedeva e nulla osava denunciare, collettività di vili, ciechi, muti e sordi rimuginava incazzato.

    Ma ora era il momento di dare un’accelerazione alle idee che servivano.

    Con l’età che aveva, sentiva la necessità di trovare soluzioni rapide per il futuro, per l’immediato futuro.

    Non certo il suo, almeno in quel momento: aveva due figlioli eritrei a cui badare e un nipotino in arrivo: quel pensiero, quasi quasi, lo emozionava, come se fosse veramente l’attesa di un erede e quella potesse essere la sua famiglia.

    L’Ispettore Michele Capraro aveva già, idealmente, adottato i due naufraghi e la creatura che sarebbe nata. L’animo accogliente del siciliano scalpitava dentro di lui.

    Allora si alzò e decise che avrebbe dato una mano al suo sonno.

    Il tempo era breve e bisognava dormire e svegliarsi presto per affrontare la nuova realtà.

    Scelse il modo più innocuo, quello che lo avrebbe scervellato un altro po’ di tempo e poi lo avrebbe consegnato al mondo dei sogni con il più beato dei sorrisi: un bel cannone di cannabis e una stizza di vodka.

    Gli ultimi pensieri che gli sovvennero furono dedicati ai suoi ospiti, chiaramente.

    Chissà che gente era, se conoscevano le buone maniere e le sapevano apprezzare. Se era vero che erano assolutamente incivili e privi di ogni razionale senso del rispetto. Pensava queste cose e, sotto sotto, se la rideva della grossa.

    Avevano un aspetto così regale e parevano miti e lavoratori.

    Ormai aveva scommesso sul suo istinto solidaristico e niente e nessuno lo avrebbe fermato. Si ripeteva che potevano diventare i suoi figli adottivi e il figlio o la figlia essere un suo nipotino acquisito.

    Sì, l’Ispettore Michele Capraro sentiva già di aver creato una famiglia con i due eritrei e la creatura in arrivo: nessuno sa essere sognatore più di un siculo solitario.

    La fantasia o il desiderio, spesso, superano la realtà.

    Sperava solo di non essere come quello che si fa i conti senza l’oste.

    Ma, cosa ancora più preoccupante, era certo che non poteva farcela in solitudine.

    Avrebbe avuto bisogno di complici nella sua azione criminosa e, forse, non pochi. Ma sì! Se doveva infrangere la legge, lo avrebbe fatto bene: una associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

    Era totalmente fuso.

    Ormai il suo cervello, ottenebrato e obnubilato, sognava solo quello che il sapere atavico gli suggeriva: Se l’ho fatto è perché dovevo farlo, per il fatto stesso che l’ho fatto. Siiiiii, buona notteeee! si disse mentre la mente vagava verso ricordi lontani, quelli che aveva appreso dai testi di un vecchio docente modicano, il professor Carmelo Ottaviano, il concetto di mediterraneità, la cultura mediterranea… fiorita sulle sponde. Ci fu chi colse in quella citazione il profumo intenso di piante e salsedine, sentore di vento e di mare. E ancora, pensando a come il professore desse risalto alla civiltà del mar Mediterraneo, emerse l’orgoglio di ascendenze culturali antiche… continuità con una storia che giunge da lontano… la consuetudine con olivi antichi e recinti di pietra e linee di muri pastorali e agricoli che hanno impresso nelle campagne la cultura di civiltà razionali ed equilibrate, il respiro del tempo.

    La sua fusione gli risvegliava la memoria ed esaltava l’unica cosa certa della vita di Capraro: in quella terra era nato e in quella terra voleva essere sepolto.

    3 – L’ERITREA

    Non c’era alcun dubbio che Michele si svegliasse prima dei suoi ospiti, provati com’erano, poverini: doveva saperne di più di loro e della loro avventura.

    Per fortuna aveva imparato a usare Internet.

    Eritrea, ufficialmente Stato di Eritrea.

    Per una felice, o fatale, coincidenza, suo nonno, Michele Capraro senior, come si direbbe oggi, classe 1889, era stato tra i coloni italiani di Eritrea dopo l’inizio del ventennio fascista. Un uomo d’altri tempi, capace di fare di necessità virtù, avventuroso.

    Nel 1890 l’Eritrea fu ufficialmente dichiarata Colonia Italiana. Dal 1881 al 1941, in quel Paese si insediarono più di 100.000 italiani. Minchia, n’avissi cose di cuntare me nanno, bonanima! pensò Capraro con l’orgoglio di chi aveva conosciuto l’uomo.

    "L’unico partito legalmente presente in Eritrea è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia. Non è ammessa la formazione di altri gruppi politici benché l’attuale costituzione, approvata nel 1997 e mai applicata, preveda un sistema multipartitico. Il governo, giustificando il suo comportamento con la situazione critica del paese, di fatto manteneva sospesi e non applicati i diritti civili dei cittadini" leggeva sempre sul computer.

    Fascisti di merda: e cu ciù insignò, ddru invasato di Mussolini, senza dubbio.

    Era fuor di luogo che i suoi ospiti eritrei scappavano dalla loro terra.

    Come avevano fatto e come erano giunti a Falconieri, era tutto da chiarire.

    Erano già le otto e apparecchiò la tavola per una colazione dignitosa.

    Aveva richiuso il divano e il suo umile soggiorno riappariva accogliente e luminoso. Forse era stato il pur lieve rumore che aveva inevitabilmente prodotto, fatto sta che la porta della stanza da letto si aprì con discrezione e si affacciò, con viso riposato ma ancora sconvolto, Yonas Alazar.

    Era a torso nudo, mostrando un fisico da gladiatore, sotto uno stropicciato pigiama di Michele. Lo sbirro, abituato a scoprire le cose più invisibili all’occhio umano, non ci mise più di un attimo a vedere come quello splendido corpo fosse stato violato da una cattiveria inaudita. Varie cicatrici coprivano il petto e la schiena di Yonas, e una profonda, in particolare, gli scendeva lungo il collo, da sotto la mandibola fino allo sterno. Era la traccia di un fendente che solo un uomo possente e fortissimo poteva riuscire a subire senza raggiungere i propri avi, lontano da questa terra, nell’aldilà.

    Terribile e straordinario, nello stesso tempo.

    Quale bestia aveva potuto compiere quel gesto, quale animale in sembianze umane poteva aver osato far così male a un altro uomo, fino a cercarne la morte?

    Ne avevano di motivi per scappare da dove venivano.

    Certo, doveva ancora sentire il loro racconto, ma sicuramente non stavano scappando solo dall’Eritrea, a quel punto. Il loro viaggio doveva essere stato molto duro.

    «Accomodati, Yonas. Sit down, please. This is your home» disse Michele cercando di metterlo a proprio agio.

    Provarono a mettere alla prova la loro conoscenza della lingua inglese.

    «Vuoi del caffè?» chiese ancora Michele.

    «No, grazie, preferisco il tè, se per te non è un problema».

    «Assolutamente no, amico mio. Come stai?».

    «Ho l’impressione di stare molto meglio. Ti devo molto. Ma ora, che succederà? Sono molto preoccupato per lo stato di mia moglie».

    Mentre Yonas poneva domande e preoccupazioni, Michele premeva il telecomando del televisore e, in quell’istante, la TV locale di Falconieri dava la notizia del naufragio.

    Erano in 47 gli immigrati a bordo del barcone, sovraccarico, che stava cercando di approdare in terra sicula: di questi erano stati ritrovati 29 corpi senza vita.

    12 persone risultavano disperse, tra le quali 5 bambini e gli scafisti che, a sentire le testimonianze dei 6 superstiti, trovati sulla spiaggia in situazioni decisamente precarie, erano in due e si erano dati alla fuga grazie a un salvagente a motore, prontamente messo in mare prima che il barcone si infrangesse sugli scogli, a est della battigia del lido di Falconieri, su un costone molto caro agli amanti dei tuffi.

    Per cui, togliendo Yonas ed Ella, oltre i delinquenti degli scafisti, i dispersi potevano essere otto: Michele sperò che potessero aver avuto la stessa fortuna dei suoi ospiti, magari incontrando altra gente caritatevole e generosa.

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