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Storia di due diffidenti
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E-book281 pagine3 ore

Storia di due diffidenti

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Info su questo ebook

Il libro racconta la vita e le vicende di Alan Castelli, figlio di Vittorio, un antifascista garfagnino, esule in Francia in quanto contrario alla politica di Mussolini ed alle leggi razziali ed intenzionato ad evitare di venir arruolato a forza sotto le armi per combattere una guerra non voluta e non sentita.
Il giovane Alan, venuto in Italia per conoscere la terra dei suoi avi paterni, si invaghisce, ricambiato, di Giulia una giovane piacentina, ma i due sono costretti a lasciarsi per la grande distanza fra i rispettivi luoghi di residenza.
Dopo molteplici vicende, che abbracciano oltre vent’anni di storia e fanno da sfondo al romanzo portando il lettore a riflettere sul nostro recente passato (la guerra partigiana, la resistenza in Francia, i lager nazisti, il boom economico, l’alluvione di Firenze, la strage di Piazza Fontana), la storia giunge ad una conclusione inattesa.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2022
ISBN9788832281750
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    Anteprima del libro

    Storia di due diffidenti - Aldo Bertozzi

    Copyright

    © Argot edizioni

    Lucca, luglio 2022

    ISBN 978 88 32281 750

    www.tralerighelibri.it

    Prefazione di Alberto Dell’Aquila

    Col prodigioso e fecondo autore ci eravamo lasciati con I racconti del carcerato, suo ultimo edito: Aldo Bertozzi, con finezza psicologica, nutre di originalità l’epilogo del romanzo; il talento diventa geniale, l’intuizione crea il mistero che s’infittisce… Ci sarà, forse, un seguito?

    Preciso e puntuale, frutto di un lungo lavoro di progettazione e stesura, esce l’opera Storia di due diffidenti, stampato da Tralerighe libri per conto di Andrea Giannasi editore.

    Distillate parole intrise di umanità danno corpo al romanzo, imperniato sull’immagine del sacrificio, della fatica, dei sacri valori, dell’amore per la propria terra.

    Aldo Bertozzi sa narrare, comunicare e interpretare la propria visione della realtà, infatti fa emergere le proprie credenze, le proprie rappresentazioni, i propri sentimenti, la visione del passato, del presente, del futuro, il modo di assembrare pensieri, ricordi e valori.

    Affianca allo scenario dell’azione quello della coscienza, che prende in considerazione ciò che i personaggi pensano, provano e percepiscono. Esiste un rapporto vivo tra l’autore e i suoi personaggi.

    L’autore, piacentino come la madre, e con il padre garfagnino, in uno specchio concavo trasferisce la parte del suo miglior essere nel personaggio di Vittorio Castelli, figura che illumina e fonda le sue vicende e quelle dell’arguto e dinamico figlio Alan, innamorato e ricambiato da Giulia, una giovane piacentina conosciuta in Versilia, che dà sfondo scenografico e sfumatura alla lunga vicenda familiare.

    In quest’opera straordinariamente bella e complessa, Aldo Bertozzi, maestro d’ingegno dalle molte sfaccettature, fa emergere in Vittorio Castelli qualità di uomo equilibrato e tutto d’un pezzo, uomo d’altri tempi che considera sacra la parola data, conosce il sacrificio per il duro lavoro e non ha mai dimenticato le sue radici, anche se costretto, da antifascista, a emigrare in Francia, dove cambierà il proprio nome in Victor e conoscerà Brigitte, sua futura moglie e madre di Alan.

    Brigitte l’aiuterà a trovare lavoro e in seguito a aprire una trattoria a cui Vittorio darà il nome di Al Sillico, dove poter gustare piatti tradizionali della cucina toscana. Il nome del locale fa riferimento a Sillico, un piccolo borgo della Garfagnana, da cui proveniva Vittorio Castelli.

    L’amore per le proprie radici affiora dalle parole del professor Di Francesco, un personaggio minore del romanzo, ma altrettanto importante, che raffigura aspetti particolari che non sembrano indispensabili, ma che rappresentano l’incarnazione di elementi legati alla cultura del luogo, alla tradizione popolare, all’espressione emotiva.

    La terra delle proprie radici viene definita avara e, nel contempo, paradiso dall’autore, che ce la presenta avvolta da alte montagne, come in un dolce alveo materno, quasi a volerla proteggere, difendere dalle sue stesse fragilità che hanno spinto molti abitanti a emigrare.

    Il romanzo, ricco di riferimenti storici, spazia tra la bellezza dei monumenti patrimonio dell’umanità, i castelli, le descrizioni particolareggiate delle chiese e oltre, si muove tra gli avvenimenti bellici, in particolare la resa dei tedeschi nell’agosto del 1944, sotto l’incalzare delle truppe alleate sbarcate al Nord del Paese comandate dal Generale Patton.

    Ma è la storia di Alan e la piacentina Giulia, lui bravo nel disegno tecnico e promettente pittore locale, lei apprezzata creatrice di moda, a scandire il tempo e generare il tessuto della trama di questo avvincente, succoso e elegante romanzo.

    Aldo Bertozzi possiede una profonda cultura e, sotto un sottile velo psicologico, crea la «teologia del romanzo». Il suo stile preciso nei dettagli esprime con efficacia il concetto e il sentimento: una chiara traccia per chi legge questa sua trentunesima opera letteraria dalle elevate vibrazioni emotive.

    Tuffandosi tra le pagine di questo romanzo si potrà vivere il dipanare delle storie narrate, incontrare i personaggi, sentire i profumi e i colori dei luoghi.

    Alberto Dell’Aquila

    Introduzione di Dino Magistrelli

    La fresca, limpida vicenda amorosa adolescenziale di Giulia Molinari e Alan Castelli, lei piacentina di Castell’Arquato e lui garfagnino-francese, con radici paterne a Sillico di Pieve Fosciana e parigino di nascita, si inserisce in un ampio panorama socioculturale-economico degli anni Sessanta del secolo scorso, con leggerezza e sfumata rappresentazione di quel periodo, senza appesantire la scorrevolezza e l’eleganza della narrazione della Storia di due diffidenti.

    È il secondo romanzo di Aldo Bertozzi, avvocato, docente, ricercatore, storico e studioso, già autore di una trentina di pubblicazioni sulla storia, l’arte, i luoghi, il vivere, il parlare, i personaggi delle sue due amate terre, Piacenza e Sassi in Garfagnana.

    Per Aldo Bertozzi, infatti, l’anagrafe ufficiale non fa troppo testo. È nato a Piacenza, ma il suo cuore, la sua identità culturale e la sua sensibilità sociale hanno attinto a piene mani sia dalla bella città emiliana, sia dal paese di Sassi di Molazzana, dove si trovano ancorate le sue radici paterne.

    Bertozzi, va subito evidenziato, sa usare penna e computer alla perfezione, insomma, sa scrivere con precisione, eleganza e essenzialità. Ogni vocabolo è parte integrante e inscindibile del suo scritto e nello stesso tempo, spesso, introduce il lettore a inaspettate sensazioni e pensieri reconditi, che preparano la mente a nuove immagini e altri quadri di vita quotidiana e vissuta.

    Bertozzi sembra immedesimarsi nei due giovani protagonisti con i loro legami intrecciati a Piacenza e alla Garfagnana, e in questo senso il romanzo offre la sensazione di voler essere in qualche modo autobiografico, possedendo l’autore, come abbiamo già detto, queste due radici genealogiche.

    Nella storia di Alan e Giulia cogliamo anche le varie fasi dell’amore, da quello adolescenziale e sognato, anche se non mancano momenti passionali, a quello razionale, ponderato e ragionato dei due fidanzati quando si ritrovano, una decina di anni dopo, più maturi e anche sicuri dei propri sentimenti fino all’inatteso epilogo. L’autore ha saputo dare al romanzo una bella, armoniosa, equilibrata struttura, che possiamo definire di tipo cinematografico, con vicende secondarie che si intersecano e si incrociano; momenti di pathos, emozione e trasporto che si alternano a spazi di attesa e di sorpresa, mescolati a sprazzi anche di ironia e di sfottò, come i giochi di prestigio dei quattro amici francesi in vacanza in Italia e la presunta telepatia di Marcel.

    Bertozzi, a più riprese, sa sorprendere il lettore che si aspetterebbe il proseguimento della vicenda in un certo modo, e invece arriva la sorpresa, l’inaspettato, l’imprevedibile. Un vero capolavoro, in questo senso, è la scena di Giulia davanti casa di Raffaello Pierfranceschi a Firenze, con il portone che si apre e mostra una figura, sicuramente agognata e fantasticata nel cuore e nella mente della giovane donna, ma la meno attesa in quel momento.

    Si dimostra una felice intuizione, non forzatamente consequenziale e ben congegnata, anche la descrizione del primo viaggio di Alan bambino in Garfagnana per la morte del nonno, ma subito attratto e coinvolto dalla vita di paese e dai giochi con gli amichetti garfagnini e i loro passatempi contadini sconosciuti a lui cittadino di Parigi. L’autore riesce ugualmente bene nella descrizione di un decennio di vita di Giulia, da sartina in un piccolo negozio e semplice disegnatrice, arrivata a essere una firma nel campo della moda, ma continuamente guidata dalla genuina semplicità e cristallina onestà della bimba diciannovenne che aveva conosciuto Alan in una colonia estiva marina in Versilia, impegnata in una occupazione precaria a fare la maestrina ai giovanissimi ospiti. Coinvolgente pure la descrizione del viaggio di Giulia alla scoperta del suo ritratto in un Santuario mariano nei pressi di Verona, mentre è incredibilmente simpatica la scena in cui Vittorio, il padre di Alan, cerca di scacciare una mosca dipinta su un quadro del figlio.

    Il romanzo, come ho già sottolineato, ambientato negli anni del boom economico italiano, fa assurgere proprio a protagonisti due ragazzi di modeste origini che, con intelligenza, spirito di sacrificio e caparbietà, sanno emergere e, come si suole dire, fanno carriera: la ragazza come stilista di moda, che si firma Lietta Molina, e il ragazzo come disegnatore e pittore. Un esempio di tipo pedagogico, dunque, anche per l’attuale generazione giovanile, descritta dai più come amorfa, demotivata e senza ideali.

    Bertozzi non dimentica di essere stato insegnante e ora storico, studioso e eccellente divulgatore, e pertanto non perde occasione di ricordare, descrivere, additare monumenti, eventi, fatti e personaggi storici. Elegantemente, senza essere pedante, fa riscoprire al lettore tanti aspetti diversi e contrapposti della nostra società occidentale, dalla descrizione degli inconfondibili castelli della Loira al tristissimo Olocausto, raccontato al giovane Alan, quasi con pudicizia, da un superstite ebreo, Samuele Venezia; poi Santa Maria Novella a Firenze, la Garfagnana, che al lettore sembra veramente di vedere, da quanto è descritta con precisione.

    Sono passaggi bene inseriti nel contesto della vita di Giulia e Alan, che fanno poi ricordare e altre volte riflettere il lettore, come nel caso dei campi di sterminio nazisti oppure gli anni di piombo in Italia con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano e le immagini delle acque minacciose dell’Arno, devastatrici del centro storico di Firenze nel novembre 1966.

    Se Alan e Giulia sono i protagonisti principali, non mancano altre belle e definite figure come quelle dei loro genitori, Brigitte e Vittorio Castelli; l’eroico maresciallo dei carabinieri Molinari con la moglie Donatella. Poi le figure protettive, quasi degli angeli custodi, per Giulia, come Gianna, la proprietaria della sartoria e l’arredatore e commerciante d’arte fiorentino Pierfranceschi; mentre per Alan, ricordo il ritrattista Louis Paillac e monsignor Gualtiero Grossi, il sacerdote italiano a Parigi, amico di famiglia.

    Uno scritto anche di ispirazione storico-sociale con l’accenno all’emigrazione all’estero di tanti giovani italiani come Vittorio Castelli, dopo la Seconda guerra mondiale e spesso con la loro buona riuscita nel settore della ristorazione.

    Infine, un accenno alle interessanti realizzazioni, espressioni dello Stato sociale degli anni ‘50-‘60, come quelle della diffusione delle colonie marine estive in Italia, apportatrici di aspetti benefici sulla salute dei bambini.

    Un romanzo, infine, che racconta la vita possibile di ognuno di noi, con gioie e dolori, vissuti e condivisi, e con l’auspicio che la vita ci riservi quello per cui abbiamo sperato e lottato.

    Dino Magistrelli

    Parte prima

    CAP. 1

    Una folla composita e variegata, di ambo i sessi e di tutte le età, era convenuta, interessata e curiosa, all’Auditorium Giuseppe Verdi, in occasione dell’evento organizzato dal Comune, allo scopo di far conoscere la produzione artistica di Alan Castelli, ringraziandolo per la consistente donazione in denaro effettuata e per i libri e i quadri generosamente regalati al fine di arricchire la biblioteca e arredare la sala Riunioni dell’Ente Territoriale, cogliendo allo stesso tempo l’occasione per celebrare la figura di suo padre Vittorio.

    Quest’ultimo era ignoto alla maggioranza degli intervenuti, che non avevano potuto conoscerlo dato che – essendo un antifascista convinto e un tenace oppositore delle leggi razziali – era emigrato molti anni prima in Francia, dove si sapeva soltanto avesse fatto fortuna dopo aver aperto un ristorante tipico nel centro di Parigi.

    Non era così, invece, per Alan, conosciuto, quanto meno di nome, quasi da tutti perché, sebbene nato e vissuto nel Paese transalpino, amava profondamente l’Italia, che lo aveva conquistato e gli era entrata nel cuore fin da quando era bambino, forse anche proprio in forza delle parole e degli insegnamenti del padre, che non aveva mai dimenticato le proprie origini.

    In ragione di tali sentimenti, negli ultimi due anni era tornato, assieme all’italianissima moglie Giulia e qualche volta con la propria sorella Maria, al borgo avito – anche se per periodi abbastanza limitati a causa dei suoi impegni di lavoro – non nascondendo il desiderio e la volontà di trasferirsi qui stabilmente una volta libero da obblighi professionali.

    A illustrare le figure di Vittorio e Alan Castelli era stato chiamato il professor Alessandro Di Francesco, insegnante presso il Liceo Classico di Lucca e ritenuto valido esperto d’arte.

    Costui, buon amico del Sindaco, aveva esaminato in precedenza i dipinti di Alan, trovandoli di buon livello, assai ben riusciti, realizzati con il dovuto rispetto delle proporzioni e della prospettiva e con un sapiente uso del chiaroscuro e dei colori. Il critico aveva apprezzato soprattutto le immagini della Natura, attentamente rappresentata, senza cadere nel manierismo, i paesaggi e i ritratti, che aveva giudicato ricchi di introspezione psicologica e di sensibilità emotiva, pieni di pathos e di verismo, tutte espressioni che il primo cittadino del Comune – ottima persona e stimato infermiere professionale, ma totalmente digiuno d’arte – aveva interpretato giustamente, anche senza comprenderne appieno il significato, quali espressioni di lode nei confronti dell’autore.

    Prendendo la parola, dopo esser stato presentato agli ascoltatori dal Sindaco e dall’Assessore alla Cultura, che avevano tratteggiato brevemente le figure di Vittorio Castelli e, soprattutto, del figlio e della moglie di quest’ultimo, Giulia – intervenuta alla manifestazione anche in rappresentanza del marito, purtroppo costretto a letto da un’improvvisa e malaugurata colica renale – il professor Di Francesco aveva esordito dicendo che la famiglia Castelli era originaria di Sillico, un piccolo borgo della Garfagnana, la splendida valle della Toscana settentrionale, creata dall’alto corso del fiume Serchio, confinante a nord con l’Emilia, a ovest con la Liguria e a sud-est con la piana lucchese e la Versilia.

    La valle – stretta tra gli Appennini, il mar Tirreno e le Apuane (che ben meritano il nome di Alpi per la loro conformazione e il loro aspetto) – fu in antico abitata da popolazioni liguri e etrusche, venendo conquistata dai Romani, non senza aver opposto una tenace resistenza, nel corso del terzo-secondo secolo a. C.

    Nella seconda metà del primo Millennio fu occupata dai Longobardi e dai Franchi e, dal XII secolo, vide il fiorire dei Comuni, trovandosi al centro di dispute e guerre tra Federico Barbarossa, il Papato e Lucca, che la dominò a partire dalla metà del Duecento.

    Dopo un periodo di sottomissione a Firenze, nel XV secolo fu divisa tra Lucca e gli Estensi.

    Ludovico Ariosto, che ne fu Governatore per conto di questi ultimi, non l’amò (forse perché l’isolamento della valle gli impediva i contatti, a lui così cari, con il mondo delle lettere e della cultura, forse perché – come sostengono alcuni storici pettegoli – aveva insidiato qualche bellezza locale, suscitando il risentimento dei sudditi). Allo stesso modo (probabilmente perché – per le anzidette ragioni di isolamento e per la mancanza d’infrastrutture – non fu quasi mai meta di viaggi, né terra di viandanti e pellegrini) non emergono suoi estimatori entusiastici, neppure ai giorni nostri, nel campo della grande cultura, se si esclude Giovanni Pascoli, che la scelse come territorio di elezione, non disdegnando neppure di inserire nelle sue composizioni anche vocaboli tipici del dialetto garfagnino.

    In questa terra, povera e inospitale (intendendo gli aggettivi riferiti alla produttività del suolo e quale fonte di reddito per la gente, non come indole dei suoi abitanti, che sono, al contrario, generosi e cordiali), operarono, almeno fino all’unità d’Italia, feroci banditi che vi trovavano sicuro riparo e nascondiglio garantito dall’assenza di strade, dalla molteplicità di boschi impenetrabili, dal gran numero di grotte, anfratti e caverne.

    Tra questi malviventi – definiti dalla gente ‘briganti’ (macchiatisi di efferati delitti, ma che si favoleggiava avessero un sacrosanto rispetto per i religiosi e per gli uomini di cultura) – ebbero sinistra fama Moro, Giulianetto e Baldone di Pellegrino, tutti provenienti proprio da Sillico, i cui nomi vengono a volte ricordati ancora oggi in molte rappresentazioni folcloristiche o in rievocazioni storiche.

    L’oratore aveva quindi proseguito dipingendo il panorama locale, soffermandosi particolarmente sulle singolari bellezze del paese, facente parte del Comune di Pieve Fosciana, e ubicato in un luogo creato da Dio un giorno in cui era evidentemente di buon umore e particolarmente ben disposto verso gli uomini.

    Immerso tra grandi boschi di castagni, folti e rigogliosi, circondato da alte montagne (tra le quali il complesso delle Panie con il maestoso massiccio dell’ Omo morto, cosiddetto perché la linea delle sue cime, vista da lì e dalle zone limitrofe, ricorda la posizione di un cadavere), che lo avvolgono come in un dolce grembo materno, permettendo nel contempo alla vista di spaziare sull’ampia valle del fiume Serchio e sulle sue ridenti colline, costellate di piccole case bianche con i tetti rossi, Sillico si potrebbe definire un piccolo Paradiso terrestre, se tanta bellezza non fosse accompagnata anche da una grande avarizia della terra, dalla mancanza di mezzi di comunicazione, dalla quasi assoluta inesistenza di locali fonti di reddito, tutte condizioni tali da spingere la gente a spostarsi, per trovar lavoro in altre zone, anche fuori dai confini naturali della valle. Se questo fenomeno avviene tuttora, esso era assai più sviluppato in passato, quando le persone si risolvevano molto spesso a cercar fortuna addirittura all’estero, riducendosi a svolgere i più umili mestieri, sovente prestandosi a fare i carbonai o i minatori, finendo, in quest’ultimo caso, con l’ammalarsi, presto o tardi, di silicosi.

    Passando quindi al nocciolo del suo intervento, il relatore aveva sottolineato come il giovane Vittorio non avesse inteso percorrere la strada dell’emigrazione – seguita da tanti suoi conterranei – senza prima essersi guardato intorno, dandosi da fare alla ricerca di un’occupazione soddisfacente in Patria.

    Memore dell’esperienza di garzone, fatta quando era poco più di un bimbetto presso il forno dello zio Antonio, che cuoceva il pane per quasi tutti gli abitanti del paese, si era trasferito, subito dopo aver compiuto sedici anni e con il consenso del padre, a Lucca.

    Qui aveva trovato impiego, quale aiutante, nel forno Garibaldi, dove la sua istintiva gentilezza, la sua disponibilità a andare incontro alle esigenze della gente e, nel contempo, a assecondare di buon grado le richieste del proprietario e, a volte anche degli avventori, pur se estranee all’ambito strettamente professionale (come svolgere qualche commissione per conto altrui, eseguire piccoli lavori manuali, collaborare a svolgere faccende domestiche o attività di manovalanza), gli avevano accattivato la simpatia del datore di lavoro e dei clienti.

    Tuttavia, dati i tempi e la scarsa disponibilità economica delle persone, lo stipendio era molto modesto, ma d’altra parte, le possibilità di miglioramento professionale non erano certamente frequenti come i papaveri in un campo di grano; per questo, il giovane Vittorio – in attesa di meglio, e pur guardandosi attorno con la speranza di trovare qualche occasione più favorevole – si teneva ben stretto il suo posto di lavoro al forno Garibaldi, dove si trovava bene e, come si è detto, era apprezzato e benvoluto.

    La sua vita doveva però mutare decisamente, e in meglio, quel giorno di novembre in cui, non ancora diciottenne, decise di cambiare il consueto itinerario per recarsi al lavoro, passando lungo le Mura, anziché prendere via Garibaldi e quindi Via Vittorio Emanuele.

    CAP. 2

    Vittorio era stato così chiamato per espressa volontà del padre Giovanni, che aveva considerato un positivo segno di buona sorte la circostanza che il figlio fosse nato il 4 novembre 1918, giorno nel quale, a seguito della definitiva sconfitta delle truppe austro-ungariche nella Prima Guerra Mondiale, venne diffuso il celeberrimo Bollettino della Vittoria, sottoscritto dal generale Armando Diaz, Comandante Supremo dell’Esercito Italiano.

    Questi era subentrato al generale Luigi Cadorna (che a novembre del 1917 aveva lasciato l’incarico a seguito della tremenda disfatta di Caporetto), riuscendo in un anno a ricostruire il morale dei nostri soldati, migliorandone le condizioni e considerandoli quali uomini e non come docili strumenti di presunte grandi idee strategiche, come erano stati intesi dal suo predecessore, uomo di forte carattere e di indubbia dirittura morale, ma anche di arida durezza, sostenitore della teoria dell’ attacco frontale che vide immolarsi centinaia di migliaia di valorosi combattenti in attacchi sconsiderati.

    Giovanni Castelli era stato un eroico combattente della Grande Guerra e ricordava con orgoglio le battaglie combattute contro i Tedeschi e specialmente di aver preso parte alla conquista della vetta dell’Ortigara (omettendo, però, di far presente come – essendo giunti in cima sfiniti e sfiancati dalla fatica – i nostri valorosi soldati l’avessero riperduta al primo contrattacco nemico).

    Naturalmente in tutte le occasioni – e non erano poche – in cui gli capitava di raccontare le sue esperienze militari, Giovanni manifestava la propria ammirazione e il proprio

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