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La Follia del Mondo: La Trilogia delle Erbacce (Volume 3)
La Follia del Mondo: La Trilogia delle Erbacce (Volume 3)
La Follia del Mondo: La Trilogia delle Erbacce (Volume 3)
E-book314 pagine4 ore

La Follia del Mondo: La Trilogia delle Erbacce (Volume 3)

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Info su questo ebook

"Come sempre, Freccero è una garanzia." (Sara)
"Stilisticamente la prosa di Marco Freccero non delude mai" (Marina Guarneri)

Questo è il capitolo conclusivo della “Trilogia delle Erbacce”. 
Il primo si intitola "Non hai mai capito niente".
Il secondo è "Cardiologia".

Anche questa volta, storie di uomini, donne, bambini che all’improvviso si trovano al bivio, devono fare i conti con l’imprevisto, la sorpresa, la paura e la disperazione. In pochi istanti comprendono la realtà e devono contrastarla.
Perché “La follia del mondo”?
“Una delle controindicazioni più gravi dell’avidità, pensò Mirko, era che uccideva l’intelligenza; spingeva a guardare alla realtà senza alcun desiderio di metterci mano per cambiarla.”

Lo scenario è una Liguria dove il mare non compare quasi mai, distante dalla luce e dal sole estivo pubblicizzati da riviste e operatori turistici. Una periferia perfetta dove ricominciare ad amare le erbacce.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2016
ISBN9788822873217
La Follia del Mondo: La Trilogia delle Erbacce (Volume 3)

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    Anteprima del libro

    La Follia del Mondo - Marco Freccero

    Il talento non serve per glorificare le prugne

    (di Morena Fanti)

    Stephen King, a pag. 149 del suo On writing (prima edizione Sperling & Kupfer, 2001, traduzione di Tullio Dobner), scrive: Se Dio ti ha messo a disposizione qualcosa che sai fare, perché in nome di Dio non lo fai?, parlando di autori bravi che, nella loro vita artistica hanno scritto solo due libri (o tre, o cinque). Se hai ricevuto in dono un maledettissimo talento, perché non lo usi? Cosa fai nel tempo libero? Lavori a maglia? Organizzi vendite di beneficenza parrocchiali? Glorifichi le prugne?

    Marco Freccero non deve lavorare a maglia, non deve organizzare vendite per la raccolta fondi e nemmeno glorificare le prugne. Marco Freccero ha un maledetto talento e noi speriamo che continui a usarlo per scrivere le sue storie.

    La follia del mondo è il terzo volume della Trilogia delle Erbacce - come da denominazione dello stesso Freccero -, che comprende i precedenti Non hai mai capito niente e Cardiologia. In queste raccolte di racconti, l’autore esplora la società e si dedica alle persone ai margini della vita, quelle che, come le erbacce, abitano i punti marginali, scoscesi e impervi dai quali è facile cadere. Ma i personaggi frecceriani hanno mille risorse e, quando cadono, ce la mettono tutta per uscire dal baratro in cui sono piombati - le erbacce hanno una forza incredibile: anche se a volte devono soccombere, mantengono una grande dignità.

    In queste nuove storie la penna di Freccero si è evoluta e la sua accuratezza si è avvolta di una compassione maggiore. La partecipazione alle vicende, però, mantiene il distacco necessario a non generare giudizi e pareri personali dell’autore; Freccero si limita a mostrare le asperità di certi accadimenti e le negatività che li accompagnano. Perché ogni evento ne trascina con sé altri e ogni accadimento ci trasforma e ci modifica, a volte in modo irreversibile.

    Ma dietro l’angolo c’è sempre qualcosa che ci aspetta, e spesso non è una cosa buona, come paventa il padre ne Il lupo cattivo, quando suggerisce alla figlia di condurre una vita più regolare, più dentro gli schemi: lui sa che c’è una verità nelle cose della vita e crede sia quella di comportarsi bene per guadagnarsi una certa sicurezza, una specie di garanzia sui fatti oscuri della vita. Ma la verità la scoprirà a sue spese durante un temporale rabbioso.

    I dolori spesso fanno a pugni con le nostre buone intenzioni: a Lorenzo, invece, i pugni si agitano nella testa al ritmo dei suoi pensieri. I pugni non sono ‘buoni’, gli fanno fare, a volte, cose poco sagge, inconsulte. Il ricordo del padre morto e la consapevolezza di ciò che non sarà più suo, lo fanno crescere di colpo, e Lorenzo capisce che i pugni che ha nella testa li può domare.

    Ma è nel racconto che dà il nome alla raccolta, La follia del mondo, che troviamo quella società malata che ben conosciamo: gente che dialoga tutto il giorno con altre persone attraverso uno schermo ma che non vede ciò che le succede intorno. Lorena, proprietaria di una cartolibreria che sta soffrendo per la crisi, si interroga su come il mondo stia andando alla deriva, aumenta i sacrifici - dorme su una brandina nel retro del negozio e ha venduto la casa per mantenere l’attività - e cerca in ogni modo di stare a galla. Ma è sempre l'imprevisto, quel momento o quella persona che entra nella nostra sfera vitale e la sconvolge, a decidere per noi, e Lorena dovrà arrendersi. L'elemento sorpresa è anche qui ben presente e, anche se usa un travestimento, rivela la natura dell’essere umano e il suo essere sempre pronta ad arraffare quando sa di non essere vista.

    Un mondo di persone poco gradevoli, questo che ci dipinge Marco Freccero, un mondo dal quale scappare e prendere le distanze. Nella nostra mente noi siamo sempre a parte delle brutture della vita, ce ne teniamo a lato mentre - mentendo - diciamo che non ci riguardano, che sono gli altri a commettere errori e nefandezze. Ma la vita è democratica - non sempre, ma spesso - e gli altri siamo noi: questa è la verità nascosta nei racconti delle erbacce. Tutto può diventare erbaccia se non viene coltivato: un fiore di campo ha una sua bellezza ma, quando prende il sopravvento, diventa infestante e fa morire gli altri fiori.

    Ogni persona può essere un fiore e mantenere la dignità anche quando gli altri vorrebbero negargliela: lo sa bene la signora Francesca che, in casa di riposo, riceve la visita della nuora - un altro personaggio da orticaria - e, anziché lasciarsi deprimere dalle sue false moine e dall’arrivismo di chi bada solo ai soldi, parla con l’inserviente e non china il capo.

    E, parlando di dignità, Emanuele ne ha da stroncare un evaso di prigione, nonostante la sua giovane età e la distrofia muscolare che lo condanna sulla sedia a rotelle. Perché i personaggi delle storie di Marco Freccero hanno una grande forza e mantengono il loro essere umani, fino in fondo. È gente che non si arrende, che non si lascia abbattere e che cerca sempre di ritornare su e di respirare di nuovo.

    Anche con scelte drastiche, come Mirko Ferrante: Era una giornata fredda, ma lui non si curava della gente che si bloccava a guardarlo. Aveva il viso sereno, lo sguardo fisso davanti a sé e l’andatura decisa di un segugio sulle tracce di una preda.

    Dopo avere letto i racconti di questa raccolta, anche voi concorderete con me: Ci auguriamo che Marco Freccero non impari a lavorare a maglia.

    16 novembre 2016

    Intelligenza

    Arianna rientrava a casa verso le dieci tutte le sere, tranne la domenica. Il supermercato dove lavorava chiudeva alle otto, ma lei non aveva una famiglia e poteva restare a fare le pulizie. Per mille euro al mese, si fermava oltre l’orario di chiusura per passare nelle corsie con la macchina pulitrice. Anche i cessi erano compito suo. Lo straordinario non le veniva pagato.

    Il capo, un uomo sui sessant’anni, vedovo, attendeva in ufficio che finisse. Inseriva in un Aiwa impolverato una delle tante musicassette di liscio romagnolo che teneva tra i faldoni piazzati su uno scaffale di metallo, alle sue spalle. Intanto controllava le fatture e le bolle di accompagnamento dei fornitori, gli scontrini.

    Quando aveva terminato, Arianna bussava alla porta dell’ufficio e diceva: «Io avrei finito» perché forse c’era ancora qualcosa da fare, ed era meglio usare il condizionale. Succedeva, a volte. Magari le chiedeva di guidare la Mercedes sino in fondo alla via dove c’era il self-service della stazione di servizio dell’Eni, e metterci cinquanta euro di benzina. Lei non aveva la patente, lui le aveva insegnato come fare.

    «Però sei intelligente» le aveva detto quella volta.

    Oppure c’era da lavare il pavimento dell’ufficio, fare un po’ d’ordine. Lei si era domandata più di una volta come il suo capo riuscisse a fare il suo lavoro in quel caos. Per lei chi comandava doveva essere ordinato, preciso, e vestire in un certo modo; ma lui, dopo la morte della moglie, girava con la stessa camicia per una settimana intera, e i pantaloni anche di più.

    Altrimenti, se non c’era altro da fare, salutava, infilava sul camice azzurro la giacca di jeans che usava sia d’estate che d’inverno, e camminava sino alla fermata dell’autobus. Non c’era quasi mai nessuno a bordo, e lei si piazzava alle spalle dell’autista. Dopo una ventina di minuti il mezzo sbucava dalla galleria e attraversava il quartiere dai marciapiedi sbriciolati, l’asfalto bucato, e ai lati palazzi di edilizia popolare come penitenziari.

    Abitava in un appartamento sotto il livello stradale formato da un bagno, una camera e la cucina, e pagava cinquecento euro al mese, in nero. Non c’erano termosifoni e Arianna superava l’inverno con il solo asciugacapelli come riscaldamento. Aveva sentito parlare di cambiamento climatico, e si augurava che cambiasse ancora, e certi feroci inverni della sua infanzia non si facessero più vedere.

    Diede un’occhiata alla cassetta delle lettere: arrivavano solo le bollette da saldare, e pubblicità dei supermercati concorrenti. Il suo non ne aveva mai fatta, da quando c’era entrata, ventitré anni prima. Il motto: Prezzi bassi, non solo ogni tanto, era più efficace di qualunque campagna pubblicitaria, ripeteva il suo capo.

    Quando discese la rampa di scale che dall’androne conduceva al suo appartamento, si bloccò a metà: davanti alla porta di casa c’era un uomo alto, magro, capelli lunghi sulle spalle. Lui le diede un’occhiata, fece una smorfia e disse: «Tu abiti qui?». Con la testa indicò la porta che aveva alle spalle.

    Disse di sì, e l’idea di urlare le sembrò lontana quanto un traguardo al termine di una salita spietata.

    «Che peccato però. Tutto il giorno fuori, al lavoro. Perché tu lavori».

    «Sì».

    «Pensa se qualcuno entra e ruba. Magari domani sera torni, e non trovi nemmeno la porta. Non è blindata».

    «Costa troppo».

    «Come? Ma ce l’hai il fiato?».

    Arianna ripeté la frase e si passò una mano sul viso lungo. Dopo qualche istante, la paura diventava un conforto.

    Lui disse: «È un guaio. Perché non c’è nemmeno un allarme. Uno viene qui e con calma apre, entra, si prende tutto». Incrociò le braccia sul petto. «Che vogliamo fare».

    Lei strizzò gli occhi. Aveva voglia di una doccia, una cena veloce, di infilarsi sotto le lenzuola e dormire. Alle sei la sveglia avrebbe suonato e sarebbe ricominciata la stessa giornata: autobus, supermercato, pranzo nel retro con un panino e una bottiglia di acqua, poi riapertura alle tre e mezza.

    «Non saprei» disse.

    «Mi sei simpatica. Tu mi paghi trecento euro al mese, e io ti proteggo la casa. Così nessuno verrà a rubare. Che ne dici».

    «Trecento euro».

    «Esatto. È un affare».

    «Non guadagno tanto».

    «Preferisci trovare la casa svaligiata. È questo che vuoi».

    «No. Vediamo. Parliamone».

    «Brava. Parliamone. Mi piacciono le donne perché capiscono poco, ma quando lo fanno vanno alle conclusioni che è un piacere».

    La luce della scala si spense, lei cacciò un grido e la scena tornò a illuminarsi; l’uomo aveva ancora il dito sul pulsante.

    Si avvicinò finché lei ne sentì l’alito di alcol. «Oggi è giovedì. Domenica pomeriggio torno e mi paghi. Intesi? Oppure…». Le strizzò l’occhio e rise.

    Lei annuì. Lui le passò accanto e uscì senza aggiungere altro. Arianna restò immobile finché la luce non si spense.

    Dormì poco. Solo al mattino si rese conto di aver saltato la doccia. Si alzò mezz’ora prima del solito, si spogliò, si infilò nel box. Fece colazione con tè e biscotti, chiusa nell’accappatoio rosso e con un asciugamano azzurro attorno alla testa.

    Uscì di casa alle sei. Trenta minuti dopo era al supermercato e già trascinava dentro le ceste di pane lasciate davanti all’entrata delle merci: toccava a lei sbloccare l’allarme, e aprire il supermercato. Arrivarono una sua collega, l’addetto ai salumi e formaggi, e il macellaio. Poi il suo capo, come sempre poco prima delle sette.

    Mezz’ora dopo le saracinesche si alzarono; Arianna sedette alla cassa due, e sul volto piazzò il solito sorriso timido. Alla mezza fu lei ad abbassare le serrande mentre i suoi colleghi, due uomini e tre donne, se ne andavano a casa per la pausa e la lasciavano col capo. Si ritirò negli spogliatoi e pranzò su una sedia di plastica: un panino al prosciutto e una bottiglia d’acqua. Dovette interrompere per due volte quella specie di pranzo per scaricare la merce da un paio di furgoni; quel giorno erano in ritardo con le consegne a causa di un’incidente sull’autostrada, che aveva bloccato il traffico da Varazze a Savona. Dopo, fece un giro per le corsie come d’abitudine; riempì gli scaffali, tolse le confezioni danneggiate o rotte, le ripose in un carrello e portò tutto sul retro. Ripassò davanti alla macelleria, e fu allora che si bloccò, osservò i coltelli appesi al muro, lindi, all’interno di una vetrinetta di plastica per conservarli bene in vista. Non c’era alcuna serratura.

    Erano appena le due e venti, pensò di pulire i cessi. Il capo la raggiunse mentre finiva di passare lo straccio sul pavimento. «Brava la mia Arianna» le disse. Si chiuse nel gabinetto dove scoreggiò a lungo, prima di pisciare.

    La sera cenò con una minestrina in cui spezzò il pane del giorno prima. Durante tutto il giorno, al lavoro, aveva evitato di pensare; ora, da sola in cucina, con la pioggia che cadeva sul marciapiede e pareva il crepitare di un incendio, quell’uomo e la sua richiesta apparvero minacciosi come i giorni a venire. Non aveva preso alcun coltello dalla macelleria. Era venerdì, sul conto in posta aveva poco più di duemila euro.

    Il giorno seguente approfittò della pausa pranzo per correre al Postamat a prelevare i soldi. C’erano due persone prima di lei. Ficcò le banconote nella tasca del camice da lavoro, e di corsa rientrò al supermercato.

    «Ci hai messo un bel po’» disse il capo con la faccia seria, non appena varcò la soglia dell’entrata merci. Era arrivato un furgone e lui aveva scaricato la merce: un bancale di venticinque forme di Parmigiano Reggiano. Lei era rimasta assente in tutto una ventina di minuti, ma il capo era riuscito a rovesciarlo, e un paio di forme erano rotolate sino a sfondare la porta del piccolo ufficio dove si conservava l’archivio delle fatture. Quindi, con l’aiuto dell’autista, aveva dovuto impilare di nuovo le forme, come indicavano le macchie sui pantaloni e sulla camicia scura. Era la prima volta che Arianna si assentava; balbettò che aveva bisogno di quei soldi. Lui si ritirò nel suo ufficio senza aggiungere altro. Lei pulì le corsie, i cessi, fece ordine sugli scaffali. Non pranzò.

    Nel pomeriggio i clienti ripresero ad affluire come accadeva sempre nel fine settimana; le due casse lavoravano a pieno regime e la fila dei carrelli si perdeva dietro l’angolo delle corsie.

    Sembrava che lì la crisi non fosse mai arrivata, eppure due anni prima il capo l’aveva chiamata nell’ufficio, lei sola, e le aveva spiegato la situazione. La gente riempiva sì i carrelli, ma di prodotti più economici. Il fatturato scendeva, le spese salivano. Quindi il suo straordinario saltava; la busta paga lo avrebbe riportato, ma quei soldi non le sarebbero mai stati elargiti, aveva qualcosa in contrario? Il capo l’aveva rassicurata: non appena la situazione si fosse rimessa in carreggiata, tutto sarebbe tornato in regola. Lei aveva ringraziato e sorriso, non si era opposta; aveva solo il lavoro, e senza quello non sarebbe nemmeno riuscita a spiegare chi fosse. Nel quartiere la conoscevano come Arianna della cassa numero due. A lei andava bene: una persona senza lavoro era polvere.

    Con le colleghe non parlava molto, non era il tipo di donna che avesse molto da dire o raccontare. Nei giorni seguenti a quel colloquio, tutte (una alla cassa, una al reparto dei salumi e una in pescheria), vollero sapere che cosa le aveva detto il capo. Erano spaventate perché temevano, in quanto donne, che cominciassero i licenziamenti. Quando seppero di che cosa si trattava, e che quel provvedimento riguardava lei, perché non aveva marito o figli, tirarono un sospiro di sollievo.

    Rientrò a casa verso mezzanotte; succedeva sempre così, di sabato. Nella cassetta delle lettere c’era un foglio; lo aprì. Era di un quaderno a righe piegato in quattro. C’era una scritta a matita che diceva: Lei non ha più niente da temere. Un amico. Restò a fissare a lungo quelle parole, le rilesse più volte.

    Arianna aveva un amico dunque, e lo aveva lì, in quel condominio. Solo dopo qualche secondo concentrò la sua attenzione sulla prima frase: non aveva più nulla da temere. Sentì le guance infiammarsi, le ginocchia tremare. Aveva bisogno di sedersi.

    Scese le scale, entrò in casa, prese posto su una sedia in cucina. In mano, davanti agli occhi chiari, sempre quel foglio, con una scrittura infantile. Si riscosse e si passò una mano sul viso. Lo posò sul piano del tavolo, si tolse la giacca e le scarpe da ginnastica e infilò le pantofole. Si sedette a pensare. Ma aveva fame, quindi si fece una doccia, cenò con un po’ di latte freddo e pane.

    Infine riprese quel foglio, ne tastò la consistenza. Era tutto vero, non stava sognando. Un uomo le aveva scritto. Cercò di ricordare chi abitasse in quel condominio, chi potesse essere l’autore di quelle righe. Faceva degli orari particolari e non conosceva quasi nessuno.

    Al primo piano c’era una famiglia con due bambini piccoli e la moglie che urlava sempre, il marito lo aveva visto sì e no un paio di volte. Sempre ben vestito, educato, con quella timidezza dalla quale può scaturire qualunque cosa: una poesia o un’ascia. Non poteva certo essere lui. Poi al secondo, o forse era il terzo, abitava una coppia di napoletani sui sessant’anni. Aveva incontrato per le scale la donna qualche volta: una tipa gentile, piena di allegria. Amava cantare, aveva una risata robusta. «La vita è bella» le aveva detto una volta, in chissà quale circostanza; e Arianna per educazione aveva confermato. Le dava l’idea di essere un po’ matta, e ai matti è meglio dire sempre di sì. C’erano in tutto dodici appartamenti, di tutti gli altri condomini non sapeva dire nulla. Era probabile che facessero la spesa nel supermercato dove lei lavorava; in quel quartiere, i negozi tanto evocati quando era stato progettato ed edificato, negli anni Settanta, non erano mai arrivati. La incontravano almeno una volta alla settimana, alla cassa, dava loro il resto e lo scontrino, e ignoravano di averla come vicina.

    Questa persona, però, doveva essersi resa conto di quel ricatto; ignorava come, ma chiunque fosse, aveva deciso di agire. Di difenderla da quell’uomo volgare. Alzò gli occhi all’orologio da muro. Era l’una. Andò a dormire.

    Non accadde niente, quella domenica. Quell’uomo mostruoso, quel ricattatore, non si fece vedere. Lei trascorse la giornata in casa, come sempre; non aveva amici. Uscire con qualcuno voleva dire rischiare di spendere, e lei non se lo poteva permettere. Anche con i suoi genitori era andata così: avevano sempre vissuto con poco, rinunciato a tanto, e l’avevano educata a dire sempre no. Solo con la rinuncia si poteva sperare di arrivare al mattino dopo, e poi alla sera, e al mattino ancora seguente. Anche se gli altri non se ne rendevano conto, e si toglievano ogni sfizio e voglia, nel verbo rinunciare c’era un mucchio di vita. Compressa, piccina: pur sempre vita.

    Fece un po’ di pulizie, il bucato, e stese la roba ad asciugare sullo stendibiancheria di plastica che piazzava nel piccolo ingresso. Pranzò con spaghetti al sugo, e dopo pranzo andò a riposare, ma non riuscì a chiudere occhio.

    Davvero uno sconosciuto aveva parlato a quel tale, e lo aveva convinto a non farsi più vedere? Una persona si era esposta in quella maniera per lei? Arianna sapeva quanto potesse essere feroce la gente. I suoi compagni di scuola per anni l’avevano chiamata Cavalla, per via dei denti lunghi e storti, e l’insegnante, una donna magra e alta, che metteva profumi decisi per mascherare la scarsa pulizia dei capelli, aveva riso con loro più di una volta.

    Verso sera, Arianna era felice, ma con prudenza. Aveva il timore che quell’uomo suonasse alla porta, e le chiedesse quei soldi. Quindi aveva preso una sedia e si era messa accanto all’uscio, in maniera che se fosse arrivato, potesse dargli quello che voleva e toglierselo di torno il prima possibile. Se ne andò a dormire col cuore pieno di gioia. Fece fatica a prendere sonno, e ci riuscì solo verso l’una.

    Il mattino dopo si sentì fresca e riposata, e allegra come non accadeva da tempo. Andò al lavoro, rientrò la sera, e nella cassetta delle lettere trovò il bocciolo di una rosa rossa. Restò a fissarlo finché la luce della scala non si spense. Prese la rosa ed entrò di fretta in casa. Aspirò il profumo del fiore. Quello che accadeva era incomprensibile. Camminò avanti e indietro per cinque minuti buoni. Sbirciò dallo spioncino, ma era tutto buio, e non si sentiva nulla là fuori.

    Chiunque fosse, cosa voleva adesso? Lei sapeva qualcosa del linguaggio dei fiori, per esempio il significato di una rosa rossa. Non c’era alcun dubbio al riguardo, ma forse lui lo ignorava. Doveva essere così per forza. Si diede un’occhiata allo specchio del bagno. Sul labbro superiore aveva certi peli scuri che strappava via ogni settimana, e che con tenacia si ripresentavano, più abbondanti di prima. Non aveva mai baciato nessun uomo. E adesso, a quarantasei anni, qualcuno le metteva una rosa rossa nella cassetta delle lettere? Stavolta doveva essere uno scherzo.

    Cenò con la consueta minestrina e tentò di non badare a quel fiore, e a quello che stava per irrompere nella sua vita. Era sicura, pensava mentre rigovernava, che quell’uomo misterioso prima o poi sarebbe comparso. Non poteva restare chiuso in casa sua e mandare fogli di carta, o fiori. Lei doveva pazientare e quando si fosse infine presentato, ascoltarlo.

    Lo avrebbe fatto entrare in casa? Ci rifletté su: ma certo. Era lui che aveva costretto quell’altro, il villano che l’aveva minacciata di svuotarle la casa, a lasciarla stare. Doveva farlo entrare; per ringraziarlo. E poi, concluse tra sé e sé mentre si coricava, avrebbe deciso come comportarsi.

    La domenica seguente, attorno alle undici, il campanello di casa di Arianna suonò. Temette che quell’essere spregevole fosse infine arrivato. Ma no. Non può essere, e piena di fiducia andò ad aprire.

    C’era un uomo in camicia colorata e jeans, i capelli arruffati, l’occhio destro semichiuso come se i muscoli addetti al suo funzionamento, avessero proclamato uno sciopero. Aveva una cinquantina d’anni, ed era alto, robusto, la pancia sporgente. I polsini della camicia erano sfilacciati. Lui disse: «Salve. Posso entrare? Sono un vicino. Non ci conosciamo, però sono un vicino. Abito al piano terra, nell’appartamento vicino alle cassette delle lettere».

    Arianna capì che era lui. Sorrise, lo fece entrare con un gesto della mano sinistra, e si accomodarono in cucina. Disse: «È stato lei ad aiutarmi».

    Lui si limitò ad annuire. Teneva la testa bassa, le braccia appoggiate al tavolo.

    «Grazie. Quell’uomo mi ha spaventato. Non sapevo cosa fare».

    «Ho sentito tutto. Non ho molto da fare, e dormo poco. Sto tutto il giorno in casa e ascolto. La televisione si è rotta due anni fa. Non ho avuto tempo per farla riparare». Le gettò uno sguardo, si schiarì la voce e proseguì: «E allora mi metto vicino alla porta e ascolto quello che succede. C’ho messo una sedia con due cuscini per stare più comodo. Ci mangio e ci ceno, per essere sicuro di non perdermi niente. Ci dormo pure». Si fermò e le diede un’altra occhiata.

    Abbassò gli occhi e riprese a parlare: «Questo palazzo sembra un posto dove non succede niente, e invece. Sento chi entra, chi esce e se parlano metto l’orecchio sulla porta». Portò la mano sinistra all’orecchio, restò immobile per qualche secondo, poi sorrise. Aveva un sorriso buono, c’era qualcosa di infantile nelle fossette che scavavano quel volto tondo, dove c’erano un paio di tagli al mento, forse per via di una rasatura nervosa.

    «Lei ha molto coraggio».

    «Sì. Lo credo anch’io».

    «Come è riuscito a trovare quell’uomo…».

    «Ma nel quartiere lo conoscono tutti. Un delinquente che ha sempre fatto il delinquente. Sapevo dove abitava, su per giù. E sono andato a cercarlo la prima volta, ma non c’era. La seconda, ma non c’era. Ci sono tornato di sera, e allora l’ho trovato».

    «Come ha fatto a convincerlo».

    «Non l’ho convinto. Non è gente che ragiona quella. L’ho ucciso».

    Arianna per un paio di secondi trattenne il respiro, pensò di aver

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