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Il posto delle pallide nebbie
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E-book311 pagine4 ore

Il posto delle pallide nebbie

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Info su questo ebook

Cosa sta succedendo di terribile in un piccolo paese a pochi chilometri da Torino?
Perchè l'Arcivescovo ha imposto ai media e alle autorità il silenzio su questi fatti ed ha fatto venire dalla Spagna il più famoso prete esorcista d'Europa?
E perchè tutto questo sta succedendo proprio qui, in Canavese, in un paesino dove i venti gelidi provenienti dalla Val Chiusella e dalla valle dell'Orco, sciolgono le fitte nebbie della pianura in una tenue foschia?
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2012
ISBN9788863696813
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    Anteprima del libro

    Il posto delle pallide nebbie - Loris Vercelli

    Loris Vercelli

    IL POSTO

    DELLE PALLIDE NEBBIE

    Non ho nulla contro la prosa «alta», che di solito

    descrive persone straordinarie in circostanze ordinarie,

    ma sia come lettore sia come scrittore, mi interessano molto

    di più le persone ordinarie in circostanze straordinarie.

    (Stephen King)

    I

    Parigi, ottobre 2008

    E’ arrivato presto quest’anno l’autunno – pensa Marcello osservando le foglie trascinate dal vento sul boulevard St. Michel mentre si gode, seduto al tavolino del caffè, l’ultima mezzora di luce di una giornata pigra in cui non ha praticamente combinato nulla. Il cameriere si avvicina portandogli l’ordinazione: un croque monsieur e una bottiglietta di Perrier.

    Nonostante i primi freddi, il dehors del caffè è gremito di turisti.

    Marcello si guarda intorno. Ama quella città che da molti anni ormai è diventata la sua. Poco più avanti, a una decina di metri dal dehors, le auto sono ferme al semaforo dell’incrocio con boulevard St. Germain. Bobo, l’enorme cane di Marcello, è accucciato ai suoi piedi, sotto il tavolino e pare del tutto disinteressato alla vita che scorre intorno a lui. Marcello si sporge sotto il tavolo e lo chiama: Bobo, le nostre ordinazioni sono arrivate. Il cane alza pigramente la testa e si sposta un poco per lasciare lo spazio al piattino che Marcello sta posando in terra davanti al suo muso. Lascia cadere il sasso che, come sempre, tiene in bocca, ed inizia lentamente, senza modificare la sua posizione semi-sdraiata, a mangiare il suo croque monsieur.

    Marcello sorseggia la sua Perrier e si guarda intorno. Davanti a lui una massa di passanti procede veloce. Un’accozzaglia di lingue che si rincorrono e si confondono, come sempre nelle vie di Parigi. Nel tavolino accanto a Marcello una coppia di giapponesi sta litigando animatamente, poco più in là una ragazza bellissima, forse una modella, sorseggia il suo tè. Alle sue spalle un gruppo di turisti italiani occupa un paio di tavolini chiacchierando ad alta voce.

    Marcello tenta sempre di ignorare i turisti italiani. Ormai da oltre vent’anni vive a Parigi e, pur sentendosi offeso dal senso di superiorità che ogni francese esibisce quando si trova a contatto con uno straniero, non riesce a condannarlo del tutto quando si ritrova a subire il gesticolare, il parlare ad alta voce, la supponenza esibita da alcuni suoi connazionali.

    Ormai Marcello, dopo il trasferimento definitivo dei suoi genitori in oriente, non ha più alcun parente in Italia e si considera apolide: a differenza dei primi anni in cui si era trasferito in Francia, ora non sente più la voglia di scambiare qualche parola in italiano con un interlocutore occasionale.

    I primi tempi sì, provava ancora qualcosa che assomiglia alla nostalgia quando pensava alla sua città, agli amici e ai compagni di università. Quando sentiva parlare italiano, allora, cercava di instaurare un contatto, e il ritornare ad usare la sua lingua madre, gli dava un senso di sicurezza e di appartenenza a qualcosa. Ora invece il francese è diventato la sua lingua madre, quella con cui lavora, pensa e scrive le sue storie ed anche se Josephine, la sua ragazza, gli parla solo in italiano per esercitarsi in quella lingua per lei straniera, Marcello, quasi sempre, preferisce risponderle in francese.

    Gli italiani alle sue spalle, tre coppie di amici, parlano con accento piemontese e questo infastidisce ulteriormente Marcello. Sono italiani e per di più piemontesi come lui.

    Così, pur tentando di non farlo, Marcello si ritrova a seguire involontariamente i discorsi dei suoi vicini. Viene a sapere che sono appena stati a visitare il Louvre e domani saliranno sulla tour Eiffel. Uno del gruppo sta cercando di convincere gli altri ad una visita un po’ meno banale della città. Dobbiamo assolutamente andare a visitare le Catacombes di Parigi… – sta dicendo agli altri – …pensate, oltre trecentomila scheletri ben disposti in un intrico di gallerie sotterranee. Un vero spettacolo che non voglio perdere.

    Ma tu sei matto, gli risponde una ragazza – non voglio poi sognarmeli di notte i tuoi scheletri.

    Un altro del gruppo aggiunge: Ludovico, guarda che sei l’unico a sentire il fascino del macabro. Se ci tieni proprio a vedere un mucchio di ossa, ci puoi andare da solo.

    Bobo, il cane di Marcello, nel sentire la parola ossa, una di quelle che conosce bene del linguaggio degli umani, alza il muso per osservare i vicini di tavolino. Poi, visto che nessuno pare aver intenzione di offrirgli un osso, riprende la sua posizione posando con un sospiro il muso sul pavimento.

    Marcello, invece, sorride tra sé e sé. Conosce bene le Catacombes di Parigi e, spesso, le ha utilizzate nelle sue storie. Il suo lavoro, infatti, è di creare storie per il più diffuso e famoso fumetto horror d’Europa. Ed ora, da qualche settimana, è in ritardo con la consegna dell’ultima sceneggiatura. Marcello sta vivendo quella che viene chiamata crisi creativa, quella che qualunque professionista della scrittura ha provato almeno una volta. Da almeno due mesi è bloccato sulla storia di una casa infestata da spiriti maligni a cui non riesce a dare uno sviluppo credibile, che possa coinvolgere e terrorizzare almeno la parte più impressionabile dei fanatici delle sue storie da incubo.

    Marcello ha sempre adorato il soprannaturale ma, in realtà, non ci ha mai creduto (beh, forse questo non è del tutto vero. Diciamo che non ci ha mai voluto credere). Forse è per questo che riesce ad inventare storie terrorizzanti e affascinanti. Usando il distacco di chi ormai ha acquisito una tecnica narrativa fatta di dettagli, situazioni, parole ma non viene distratto dalle emozioni personali. Solo chi non crede nei fantasmi (o per lo meno dice di non averci mai creduto) può spaventare gli altri con le storie di fantasmi: di questo è profondamente convinto Marcello. Anche se la sua passione per l’occulto è nata proprio per alcuni episodi poco spiegabili che l’hanno coinvolto nell’adolescenza, e che Marcello ha preferito relegare in un reparto poco accessibile nell’archivio dei suoi ricordi. Del resto tra i quattordici e i diciassette anni è facile essere vittima dell’autosuggestione per l’instabilità emotiva che caratterizza l’abbandono dell’infanzia e delle sue favole dolci e l’ingresso nella maturità coi suoi mostri purtroppo reali. Per di più quando aveva quattordici anni, i genitori di Marcello si trasferirono in oriente e scomparvero definitivamente dalla sua vita lasciandolo ospite di un prestigioso collegio torinese pagato naturalmente dalla nonna.

    Sentirsi abbandonato è probabilmente la strada maestra per chiudersi in un mondo di fantasie, magari orride, e confonderle con la realtà.

    Non ci riconosciamo più in questo sistema – aveva detto la mamma a Marcello prima di partire – ora ce ne andiamo a cercare una situazione migliore di questa. Ma tu devi finire la scuola in Italia. Poi ti verremo a prendere e vivremo di nuovo insieme.

    Furono le ultime parole che Marcello udì da sua madre. Non una lettera, non una telefonata. La nonna, nei successivi due anni, ricevette di tanto in tanto la richiesta di somme di denaro da spedire sempre in luoghi diversi e lontanissimi. Poi più nulla. Marcello smise di soffrirne dopo qualche anno. Proprio quando successero quelle cose a cui non vuole mai pensare.

    Oggi Marcello è un uomo che ha passato da poco i quarantacinque anni, con una vita professionale che gli ha dato successo, fama e denaro (senza che lui avesse cercato nessuna di queste tre cose) ed ama passare parte delle sue giornate nel dehors di quel caffè parigino dove sono nate le idee per la maggior parte dei suoi racconti.

    Il vento si è ancora alzato e gli porta il profumo delle prime foglie cadute nel vicino giardino del Luxembourg. Gli italiani seduti dietro a Marcello continuano a discutere se sia il caso di fare una passeggiata fra gli scheletri delle catacombe oppure ripiegare su un più rassicurante giro di shopping sugli Champs-Elysées.

    La donna che prima aveva detto di temere gli incubi continua ad insistere: Niente scheletri. Voglio dormire tranquilla. Sono già abbastanza frastornata da quello che abbiamo sentito giù al paese prima di venire qua a Parigi.

    Ma dai, ne abbiamo già parlato… sono stupidaggini – le risponde qualcuno.

    E la morte del bambino? La morte del bambino ti sembra una stupidaggine?.

    No la morte del bambino è una cosa seria. La stupidaggine sono le fantasie che ci hanno costruito intorno.

    Marcello continua ad ascoltare distrattamente il dialogo alle sue spalle. Poco interessante ma è quasi impossibile non seguirlo. Sono italiani, piemontesi come lui e parlano ad alta voce: le orecchie in questo caso non ascoltano le direttive della volontà e recepiscono in automatico le informazioni.

    Un po’ irritato Marcello tenta di concentrarsi sui suoi pensieri e sul traffico del boulevard. Parigi è meravigliosa nelle stagioni di mezzo. E quel quartiere in particolare, incastrato tra la Sorbona e la Senna, possiede la magia dei luoghi della sua memoria. Da bambino veniva a Parigi coi suoi genitori entrambi studenti universitari. Erano iscritti alla facoltà di lettere e filosofia di Torino ma gli avvenimenti del maggio del 1968 rappresentavano un richiamo irresistibile per i ragazzi di quella generazione. Così papà e mamma erano convinti che Marcello, nonostante avesse solo cinque anni, dovesse vivere con loro quell’esperienza che ritenevano fondamentale per chi avrebbe poi dovuto vivere nella società della post-rivoluzione. Inutilmente la nonna si offriva di tenere il bimbo con lei nella grande casa in campagna, come del resto faceva ogni estate per le vacanze. I genitori di Marcello erano irremovibili. A Parigi stava per nascere la rivoluzione e il loro bimbo doveva viverla con loro fin dall’inizio. Così Marcello passava lunghi periodi in Francia, ben felice di restare per un po’ lontano dall’asilo di quartiere, dove veniva lasciato da mattina a sera nei periodi in cui i suoi erano a Torino per sostenere qualche esame. Così i primi nitidi ricordi d’infanzia di Marcello lo vedono giocare con altri bimbi piccoli come lui in una bellissima cacofonia di parole francesi, inglesi e tedesche, ora parlate ora cantate, nella casa di qualche affollata comune studentesca, fra nuvole di fumo e profumo di patchouli.

    Marcello alza lo sguardo sul boulevard e guarda la vetrinetta del negozio di antiquariato sull’altro lato del viale. Quando papà e mamma andavano alle manifestazioni lo affidavano spesso ad un’amica proprietaria proprio di quel negozietto, lì di fronte, sul boulevard St.Michel.

    Così il piccolo Marcello passava le ore a poche decine di metri dal caffè dove è seduto ora, e restava in attesa che i genitori tornassero a prenderlo. In quei lunghi pomeriggi osservava dalla vetrina le cariche della polizia, i cellulari blu con le sirene, i ragazzi che incendiavano le auto sul viale poi scappavano inseguiti dalle cariche dei C.R.S. in assetto anti-rivolta.

    Per Marcello era come vedere un film e non provava alcuna paura, neppure quella volta in cui vide un ragazzo massacrato col manganello da tre poliziotti e abbandonato in una pozza di sangue proprio davanti alla vetrina da cui, col nasino appiccicato ai vetri, stava guardando. Il papà glielo aveva detto: La rivoluzione si fa con la violenza. Non devi aver paura del sangue, servirà a lavare le ingiustizie per avere un mondo migliore.

    Il piccolo Marcello, dal vetro appannato della vetrina, era rimasto a fissare quel sangue sul marciapiede cercando di capire come facesse quel liquido rosso vivo a lavare qualcosa: a lui sembrava solo che sporcasse il marciapiede.

    Ecco, ci risiamo – pensa Marcello accarezzando la testa del suo cane che ha appoggiato pesantemente una zampa sul suo piede – ogni volta che sento parlare italiano è più forte di me pensare a quelle teste di cazzo dei miei genitori. Vivi o morti che siano. Sarà per questo che non parlo mai con i turisti italiani?

    Decise che era ora di rincasare e fece un cenno al cameriere per pagare la consumazione.

    Uno dei piemontesi alle sue spalle, continuava a parlare agli altri:

    Non c’è nulla di soprannaturale in quello che sta succedendo là! Sono le fantasie superstiziose che nascono in quel paese di contadini!.

    San Gremo non è più un paese di contadini – risponde la voce femminile – per lo meno non più del nostro, che è poco distante. Ora fanno tutti gli impiegati o gli operai nelle fabbriche in città.

    A queste parole Marcello si bloccò.

    Il sentir nominare San Gremo in quella frase appena percepita alle sue spalle inchiodò Marcello allo schienale. Il paese dei suoi nonni, quello dove lui aveva passato la maggior parte delle vacanze estive da bimbo e poi da adolescente quando il collegio chiudeva e lui tornava dalla nonna.

    Il paese delle pallide nebbie. Così chiamavano San Gremo quelli che lo conoscevano. Perché San Gremo sorge esattamente nel luogo dove le fittissime impenetrabili nebbie del basso Canavese iniziano a dissolversi per l’aria sottile che arriva dalle montagne della Valle d’Aosta creando un particolare fenomeno che non è più nebbia fitta ma non è ancora debole foschia: la pallida nebbia, appunto, quella che avvolge le cose senza nasconderle mai del tutto.

    Ed ora uno sconosciuto in una città straniera a oltre settecento chilometri di distanza stava parlando proprio di quel piccolo paese. Marcello si scoprì ad ascoltare con attenzione le parole di quel dialogo che si stava svolgendo alle sue spalle.

    Una donna stava rispondendo all’altro:

    Comunque ogni paese ha una storia a sé. Quelli di San Gremo, me lo dicevano sempre i miei nonni, sono considerati nella zona un po’ matti: i vecchi lì credono ancora alle masche e ai fantasmi. Sarà per questo che lo chiamano il paese delle pallide nebbie.

    E oltretutto là i cellulari non funzionano. Dove non c’è campo non c’è civiltà – aggiunse ridendo l’altro interlocutore – comunque con tutti questi discorsi di bambini morti, fantasmi e misteri… mi avete fatto venir fame. La frase ebbe successo e, con un tramestio di tavolini spostati, gli italiani, si alzarono tutti insieme.

    San Gremo, forse l’unico paese in Italia dove i cellulari non hanno campo. Forse l’unico luogo in Italia per cui Marcello prova qualcosa che assomiglia alla nostalgia. Ma lui sa benissimo che la nostalgia non si riferisce tanto al paese quanto alle estati della sua adolescenza vissute là.

    San Gremo è il paese dove c’è ancora, ormai abbandonata da molti anni, immersa nelle pallide nebbie, la grande e antica casa dei nonni. Il paese dove Marcello è costretto a ritornare almeno una volta ogni due o tre anni per controllare che i muri siano ancora in piedi e per pagare la famiglia di contadini che continua da sempre ad occuparsi dei lavori in giardino facendo sì che gli alberi ornamentali e i cespugli fioriti non si trasformino in una selva incolta.

    E poi tornare a San Gremo… vuol dire accorgersi di quanto il tempo abbia cambiato lui, i suoi vecchi amici e i luoghi che amava.

    I discorsi che ha appena sentito, comunque, confermano quello che Marcello ha sempre saputo: San Gremo è un luogo che stimola fantasie e superstizioni. Non c’è anziano del paese che non abbia avuto, a suo dire, almeno un incontro con le masche, gli esseri soprannaturali delle leggende locali. Le apparizioni di spiriti maligni o benigni a seconda dei casi hanno riempito coi loro resoconti da brivido le serate delle sue vacanze a San Gremo. Erano le sere estive in cui la nonna, con Marcello, usciva appena fuori dal cancello della casa, dove, nello spiazzo con le panchine, ci si trovava con i vicini e si ascoltavano i pettegolezzi e le storie del paese.

    E allora c’era sempre qualcuno che, dopo un po’, iniziava il racconto di quella cosa successa molti anni prima ad un suo conoscente, un fatto terribile ed incredibile. Talmente spaventoso e incredibile che nessuno ci credeva ma che comunque catturava l’attenzione di tutti, creando quell’atmosfera di intimità e di paura che tanto piace agli anziani contadini e agli spiriti romantici. Così tutti continuavano ad ascoltare il narratore facendo domande e chiedendo maggiori dettagli nel timore che il racconto finisse troppo presto.

    Marcello adorava quelle storie, ma poi, tornato nella grande casa, udiva mille scricchiolii e rumori che lo terrorizzavano. Allora la nonna si sedeva accanto al suo letto rassicurandolo: Sono solo fantasie dei contadini – diceva – lo sai che nessuno di loro ha mai visto davvero quello che racconta. Sono storie che si son sognati magari per un bicchiere di troppo oppure che qualcuno ha raccontato loro proprio per spaventarli.

    E tutti questi rumori che sentiamo nei muri? chiedeva Marcello coprendosi fino al mento con la coperta. La nonna sorrideva e indicava il soffitto e i muri. Questa casa ha più di trecento anni. Le case antiche sono cose vive. Respirano, si muovono, cercano la posizione più comoda, proprio come te quando stai dormendo. E poi c’è un sacco di vita in queste intercapedini e nei solai: i ghiri, i topolini, gli insetti. Non devi aver paura dei rumori della casa. Sono tuoi amici.

    Il piccolo Marcello sorrideva per mostrare alla nonna quanto fosse coraggioso, ma continuava a pensare a quelle storie spaventose.

    Quando sarò grande voglio fare lo scrittore e raccontare a tutti queste cose che ho sentito! Li voglio spaventare i miei lettori. Ma io non avrò paura. Perché so che queste cose brutte, le masche, i fantasmi, i mostri non esistono.

    Almeno così pensava Marcello fino a che a diciassette anni… (no, no, quell’altra cosa non è mai successa – ripete sempre Marcello a se stesso).

    Ecco come nacque la sensibilità di Marcello per i temi della paura e del mistero.

    E, pur non facendo lo scrittore (questo sicuramente è stata la sua fortuna), ha scelto di usare la propria creatività per raccontare delle storie con i fumetti. In pochi anni di lavoro i suoi personaggi macabri come il Cacciatore di Spettri e la Belva Pallida gli hanno dato una notorietà internazionale, un sacco di ammiratori, oltre naturalmente un ottimo riscontro economico.

    Chissà quanto ha influito nel suo successo professionale l’avere nel suo passato un paese come San Gremo (…e aver vissuto, a diciassette anni, quella cosa… quella cosa che, lo giura a se stesso, non è mai successa).

    Ed ora Marcello si sta chiedendo cosa sia di nuovo capitato nel suo vecchio paese. Resiste a fatica alla tentazione di bloccare gli sconosciuti, che stanno raccogliendo le loro borse per andarsene, e porre loro qualche domanda. I frammenti di discorso che gli sono giunti dal tavolino accanto al suo accennavano vagamente ad un mistero e ad un bambino morto in qualche circostanza drammatica.

    In un paese di appena settecento abitanti, dove non accade quasi mai nulla, ce n’è a sufficienza per parlarne per i prossimi anni. E, soprattutto, per dare agli anziani di San Gremo l’occasione per trasformare, come sempre è successo nelle chiacchiere serali, un comune incidente in qualche storia misteriosa.

    Del resto ancora oggi in paese, dopo quasi trent’anni, si parla ancora di quei quindici giorni, alla fine degli anni settanta, quando moltissimi a San Gremo pensarono di aver visto i fantasmi. L’unica cosa che Marcello ricorda di quel periodo fu che in uno di quei quindici giorni, morì la nonna. Tutto il resto è la nebbia che avvolge i ricordi che si tenta di cancellare. Ma che, purtroppo, a volte fanno capolino con un sorriso beffardo.

    Il gruppo dei rumorosi piemontesi gli passò accanto per uscire dal dehors e uno di loro si abbassò ad accarezzare Bobo sulla testa sorridendo a Marcello. E’ un terranova vero? – chiese – l’uomo.

    Ecco una buona occasione per porre qualche domanda agli sconosciuti.

    Ma l’uomo che gli stava davanti aveva la tipica espressione dell’attaccabottoni, una categoria di persone che Marcello detestava in modo epidermico e totale. E quando, per di più, una zaffata di fiato all’aglio lo raggiunse, la sua asocialità prese il sopravvento. Così, anziché rispondere (aveva già deciso che non avrebbe chiesto nulla di ciò che voleva sapere), guardò lo sconosciuto con un’occhiata ostile e con l’accenno di un sorriso smorzato. L’uomo non se ne avvide e continuò:

    Certo che occorre avere un giardino per tenere un cane così grande.

    Marcello assunse l’espressione di chi non capisce le parole dell’interlocutore: decisamente non avrebbe dato corda a quella persona. Lo sforzo per essere gentile sarebbe stato troppo superiore alla curiosità. L’uomo, invece, scambiò la sua espressione perplessa per interesse e continuò: Mia cugina ne aveva uno simile. Ma non era un terranova. Forse era un lupo.

    Marcello scosse il capo grattandosi il sopracciglio e rispose annuendo con uno sguardo assente e disinteressato, di quelli che di solito fanno tacere i rompicoglioni.

    Ma l’altro non desistette: Comunque i cani sono più buoni degli umani. Mi chiedo come facciano i cinesi a mangiarseli – colpo di tosse e nuova zaffata d’aglio dalla bocca dell’uomo – sul serio, se li mangiano ridotti a bistecche. I cinesi. O i giapponesi, non ricordo.

    Bobo quasi avesse capito alzò il muso e fissò lo sconosciuto. Marcello scosse la testa e diede uno sguardo interessato alle proprie unghie.

    L’altro continuò, mentre gli amici già lontani lo chiamavano: Mi sa indicare la stazione del metrò più vicina?

    Questa volta Marcello decise di utilizzare l’ultima risorsa, quella che usava raramente e solo nei casi di persone molto moleste, e chiudere così finalmente quel dialogo surreale. Disse semplicemente: Désolé. Je ne parle pas allemand. Lo sconosciuto lo fissò interdetto a bocca aperta nello scoprire che fino a quel momento aveva parlato senza essere capito, poi salutò Marcello con un cenno e raggiunse i suoi amici dicendo: Ma pensa che quel tizio mi ha scambiato per un tedesco. In effetti è comprensibile: sono alto e biondo. A Marcello giunse ancora in lontananza la risposta di una ragazza del gruppo: Tu sei castano chiaro e sei alto un metro e settanta. Non sei né alto né biondo.

    Gli italiani se ne andarono chiacchierando rumorosamente in direzione del Pont Neuf ed anche Marcello si avviò verso casa, con i pensieri tutti rivolti a San Gremo, l’unico luogo che amava più di Parigi. Da quanto tempo non ci andava? Almeno due anni con un conto veloce e approssimato. Chissà cosa era successo di tanto terribile, pensava Marcello, mentre imboccava la stretta rue St.Severin, seguito lentamente da Bobo che, tanto per cambiare, stringeva fra i denti un grosso sasso.

    Insomma, Bobo, la smetti con questo vizio di portarti i sassi in casa? La tua cuccia sembra una pietraia disse Marcello togliendo di bocca il sasso e lanciandolo in un angolo della strada. Il cane non sembrò molto turbato dal gesto del padrone. Dopo meno di una decina di metri già teneva in bocca un altro sasso, grande almeno il doppio di quello che Marcello aveva gettato.

    Bobo guardò scodinzolando il suo padrone quasi per ringraziarlo. I suoi occhi parevano dire: Hai ragione, quel sasso di prima era troppo piccolo. Questo è perfetto per la mia collezione. Marcello guardò il suo cane con uno sguardo rassegnato, poi gli disse: In Giappone i cani li mangiano. E fanno bene.

    Bobo pensò che la frase di Marcello fosse un complimento per il suo sasso e scodinzolò.

    Ma forse è in Cina e non in Giappone– concluse Marcello.

    Poi si richiuse nei suoi pensieri. E, dopo qualche passo, sempre rivolto al cane, disse:

    Anche a te piacerebbe sapere cosa è successo a San Gremo vero? Ed è inutile che con quello sguardo tu mi dica che bastava che lo chiedessi a quegli stupidi turisti piemontesi, al caffè. Anche la mia sopportazione ha un limite.

    Il cane posò un attimo il sasso sul marciapiede, guardò Marcello ed abbaiò. Poi riprese il sasso fra i denti.

    "Non è colpa mia se non mi piace parlare con i turisti e in particolare con gli italiani. Quando scoprono che sono italiano diventano appiccicosi. Fanno un sacco di domande. E perché, e per come, e dove? Se poi ne trovi uno appassionato di fumetti che ha già sentito parlare di me o dei miei lavori… allora è finita. Ecco che fioccano le domande: ma come mai si è trasferito in Francia? Li leggiamo anche in Italia i suoi fumetti. Oppure quell’altro genio che una volta mi ha chiesto se si guadagna molto con le storie dell’orrore. E insisteva per raccontarmi, in cambio

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