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Terreno di sepoltura
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E-book75 pagine1 ora

Terreno di sepoltura

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Info su questo ebook

Una terra maledetta, un segreto che affonda le radici in un orrore antico come il mondo.
Harold lo sa bene e suo è il compito di proteggere questo segreto. Ma fino a che punto è lecito compiere il male a favore di un bene più grande? O sacrificare degli innocenti per salvare i propri cari?
Sono queste le domande che affliggono Harold mentre impugna la vanga contro il profilo tenebroso del Corno Nero. Interrogativi che ben presto tormenteranno anche suo figlio, Piccolo Jack, perché quello sotto la montagna è un dio volubile, primordiale e soprattutto affamato.
E qualcuno lo deve nutrire.
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita5 dic 2016
ISBN9788898739899
Terreno di sepoltura

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    Terreno di sepoltura - Davide Camparsi

    Insonnia

    Terreno di sepoltura

    di Davide Camparsi

    Editing di Federica Maccioni

    Immagine di copertina elaborata a partire da:

    © alptraum - dreamstime.com - haunted house monochrome

    Produzione digitale: Daniele Picciuti

    ISBN: 978-88-98739-89-9

    Nero Press Edizioni

    http://neropress.it

    © Associazione Culturale Nero Cafè

    Edizione digitale dicembre 2016

    Davide Camparsi

    Terreno di sepoltura

    Indice

    I

    II

    III

    L'autore

    I

    Harold strinse la vanga, osservando pensieroso il cielo di gesso.

    Le nuvole avevano scavalcato la montagna e minacciavano pioggia; gli uccelli si agitavano neri e inquieti contro quel bianco sporco. L’erba del pendio era opaca. Una brezza fredda e capricciosa gli scompigliava i capelli, la barba incolta.

    Harold guardava, ma non sentiva nulla. Solo la stanchezza.

    E la cosa famelica al di sotto del terreno di sepoltura.

    Quella era impossibile da ignorare, almeno per lui.

    Strinse la vanga più forte. Piccolo Jack le aveva dato un nome altisonante: Excalibur.

    Suo figlio leggeva troppo. Harold non sapeva se questo fosse un bene o un male. Di certo la vanga non aveva nulla di eroico né di magico, faceva solo il suo lavoro: scavava, seppelliva; quando le cose si mettevano male, poneva fine ai problemi.

    La terra brontolò sotto i suoi piedi, in profondità.

    L’altro aveva fame.

    Lo sapeva: c’erano i sogni per quello. I sogni lo avvisavano per tempo, prima che fosse troppo tardi e le cose diventassero più brutte di quanto già non fossero.

    Tornò a guardare la collina che anticipava le montagne, l’ondulato pendio di sepoltura. Credeva di notare macchie sbiadite tra l’erba, ma sapeva d’ingannarsi: era solo la sua immaginazione. O i sensi di colpa.

    Sospirò. Un rantolo scomposto che incespicò tra le labbra e inumidì gli occhi.

    Grazie a Dio, Hanna non era lì con tutti gli altri; almeno quello gli era stato risparmiato. Sua moglie riposava nel terreno consacrato dietro la chiesa del paese, al sicuro.

    Strinse Excalibur più forte, rabbrividendo.

    Annusò l’aria. La pioggia non avrebbe tardato a cadere, doveva sbrigarsi. Aveva indugiato fin troppo. E gli accadeva sempre più spesso. Pensò a Piccolo Jack per darsi forza, per smettere di tremare.

    Abbassò gli occhi sulla fossa che aveva scavato. La profondità era quella giusta, non aveva bisogno di misurarla per saperlo. L’esperienza era sufficiente.

    Il viso scabro, bagnato di lacrime, Harold spalancò il portellone posteriore della Jeep parcheggiata lì vicino, trascinando a terra il sacco.

    Dall’interno giunse un uggiolio di dolore.

    Senza badarvi, si chinò e lacerò la tela col coltello che teneva infilato alla cintura.

    L’uomo nudo all’interno lo fissò confuso e spaurito. Il sudore lo imperlava da capo a piedi, come se fosse appena stato partorito dalla iuta. Quando si rese conto che Harold non l’avrebbe aiutato, cominciò a dimenarsi, mugolando attraverso il nastro adesivo che gli serrava le labbra, inarcandosi, scalciando e imbrattandosi con la terra appena scavata.

    Il suolo della collina tremò di nuovo, eccitato.

    Harold lo osservò contorcersi, sforzandosi di reprimere un conato.

    Forse non aveva fissato bene il nastro contro la bocca perché all’improvviso un lembo si sollevò, lasciando colare saliva e sangue.

    «Ti-ti prego… ti prego…» implorò l’uomo.

    Era piuttosto magro, bianco come la pancia di un pesce. Gli occhi enormi, spalancati, erano pieni del cielo grigio di sopra. E di disperato terrore.

    I polsi erano legati dietro la schiena con altro nastro adesivo, così come le caviglie. Nonostante questo, riuscì a tirarsi in ginocchio. Quando scorse la fossa, cominciò a strillare: un verso stridulo, sgradevole.

    Quand’erano più giovani, prima di Piccolo Jack, Harold e Hanna possedevano una caffettiera che emetteva lo stesso fischio acuto, al mattino, mentre il vapore risaliva l’interno del bollitore. Quel suono era altrettanto fastidioso, ma lui venne sommerso dal ricordo dell’aroma buono del caffè che si spandeva per tutta la cucina, annunciando che la colazione era pronta.

    Non ricordava che fine avesse fatto la caffettiera. E Hanna era morta.

    Gli rimanevano solo Piccolo Jack, la cosa sotto la collina e il suo dovere.

    Raccolse Excalibur e colpì l’uomo di piatto, alla tempia, per farlo smettere.

    Questi crollò dritto nella fossa, continuando a lamentarsi, ma molto più sommessamente. Per istinto.

    Harold non aveva alcuna intenzione di ucciderlo, aveva dosato il colpo con attenzione, altrimenti tutto il suo lavoro sarebbe andato sprecato. La cosa al di sotto del terreno di sepoltura non si cibava di carne morta, l’avrebbe ritenuto un insulto.

    Dal fondo, l’uomo lo guardò attraverso l’unico occhio ancora sano; l’altro era incrostato di sangue e sporcizia.

    Harold si chinò e spinse il piede contro lo staffale, affondando la vanga nel cumulo a fianco della fossa, sollevandola carica di terra. Con una torsione esperta, che minimizzava lo sforzo, gettò la prima palata nella buca, sparpagliando il terriccio sullo stomaco e il corpo del tizio.

    L’occhio divenne ancor più grande.

    «No…» lo sentì gemere.

    Non si fermò. Voleva terminare il lavoro prima che cominciasse a piovere: a giudicare dall’umidità dell’aria, non mancava ormai molto.

    Spinse la vanga nel terreno, estraendone un’altra zolla e mandandola a far compagnia alla precedente.

    «No-oooooo…»

    Di nuovo la caffettiera.

    Gli gettò la palata successiva contro il viso.

    Il prigioniero cominciò

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