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Clausola di matrimonio
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E-book222 pagine3 ore

Clausola di matrimonio

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Info su questo ebook

Inghilterra, 1812. Jonathan e Beth sembrano legati dal filo del destino. In due occasioni, infatti, il Conte di Portbury salva la giovane fanciulla dal pericolo e la porta al sicuro. Ma mentre la prima volta non fa particolarmente caso a lei, la seconda, ammaliato dal suo candore e dalla sua genuina bellezza, non esita a chiederle di sposarlo. Beth, pur affascinata dal gentiluomo e lusingata dalla proposta, è decisa a rifiutare a causa dell'amnesia che non le permette di ricordare nulla del proprio passato. Forse, però, Jonathan conosce un modo per superare le sue reticenze...
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2018
ISBN9788858982440
Clausola di matrimonio
Autore

Joanna Maitland

Tra le autrici più amate e conosciute dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Clausola di matrimonio - Joanna Maitland

    Immagine di copertina:

    Nicola Parrella

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Earl’s Mistletoe Bride

    Harlequin Historical

    © 2010 Joanna Maitland

    Traduzione di Graziella Reggio

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-244-0

    Prologo

    Faceva freddo, un freddo gelido.

    Dita ghiacciate s’insinuavano in ogni fessura degli indumenti. Il vento e il nevischio le frustavano il volto e ogni respiro era faticoso.

    Tuttavia non aveva scelta: doveva proseguire, rifugiarsi in un luogo sicuro per riprendere fiato.

    Non aveva idea di dove si trovasse né sapeva dove conducesse il sentiero pieno di buchi. Sollevò il capo per guardare avanti, scostando dagli occhi le ciocche bagnate e strizzando le palpebre nel tentativo di vedere meglio. Alberi quasi spogli, un sottobosco di cespugli, qualche sempreverde scosso dalla tempesta; oltre a quello, soltanto il viottolo fangoso, coperto di foglie secche, pronte per essere inghiottite dal terreno fradicio. Tutto attorno, il nulla assoluto.

    Scossa da un brivido, strinse al petto i lembi dello scialle e chinò la testa contro le raffiche implacabili. Se si fosse fermata, il gelo avrebbe vinto l’iniqua battaglia. Non era disposta ad arrendersi, non ancora.

    Continuò ad arrancare, costringendosi a muovere le gambe e ignorando l’acqua fredda, penetrata negli stivaletti. A ogni passo, il fango minacciava di risucchiarla. Era stanca da morire. Se soltanto...

    Per un momento, il vento cambiò direzione e la colpì da dietro. Lei scorse... No, doveva essersi immaginata lo steccato, scomparso dopo un solo istante. Forse aveva creduto di vedere ciò che sperava: una traccia umana, una promessa di calore, di speranza.

    Invece la speranza non c’era.

    L’ultima luce della breve giornata di dicembre era quasi svanita. Era sola, al buio, in un bosco sconosciuto e su un sentiero che non portava da nessuna parte. Perché mai aveva deciso di imboccarlo?

    Al momento le era parsa la scelta più sensata. Che altro avrebbe potuto fare una giovane donna, abbandonata in un crocevia deserto dal vetturino che le aveva dato un passaggio?

    Aveva viaggiato con lui per miglia, illudendosi che l’aiutasse per bontà d’animo. In realtà, la stava portando in un posto isolato per imporle un ultimatum: o il denaro o la sua persona. Dopo avere scoperto che lei non aveva soldi né era disposta a pagarlo in natura, aveva rinunciato a ogni pretesa di cordialità. L’aveva condotta lontano da qualunque possibilità di soccorso e spinta giù dalla carrozza, senza permetterle nemmeno di recuperare la vecchia borsa. Come le aveva spiegato, intendeva venderne il contenuto per recuperare il compenso per il viaggio. Quindi, con una violenta frustata ai cavalli, si era dileguato, senza degnare di uno sguardo la poveretta lasciata alla mercé degli elementi.

    Lei tentò di cancellare dalla mente il brutto ricordo. Doveva trovare la forza di proseguire: non poteva cedere alla stanchezza.

    Oltre una quercia secolare, si ritrovò in una radura buia. Era circondata da sempreverdi e attorniata da fango e ciuffi d’erba secca. Il vento si placò per qualche secondo. Lei ne approfittò per sistemare i capelli sotto il cappellino. I nastri, però, si slegarono appena si levò una nuova raffica. Il cappello volò via, lasciando che la chioma sciolta le schiaffeggiasse il viso.

    Era troppo esausta per domandarsi perché fosse costretta a soffrire tanto. Sapeva solo che era urgente trovare rifugio.

    Di nuovo scorse la recinzione! Oppure no?

    Si allontanò di qualche passo dal sentiero, cercando di evitare la melma. Il suolo sembrava spugnoso sotto i piedi, oltre che insidioso; minacciava infatti di cedere da un momento all’altro per farla cadere in un viscido baratro.

    In compenso gli arbusti erano fitti e frondosi. I rami bassi proteggevano il terreno, che sembrava abbastanza asciutto, coperto da mucchi di foglie. Magari era possibile trovarvi riparo, in attesa che la tempesta si placasse e tornassero le energie.

    Si mosse più velocemente di prima: valeva lo sforzo, pur di ripararsi dall’acqua. Tuttavia, nella fretta, trascurò di guardare dove metteva i piedi, così si procurò una storta alla caviglia: in un istante i lacci della scarpa si spezzarono, il piede sgusciò dallo stivaletto e il piede scalzo finì nel fango, affondando subito.

    Gridò di spavento. Aveva l’impressione che dita limacciose la trascinassero verso il basso. Tentò di calmarsi, ma era troppo sconvolta.

    Disperata, cercò di liberare il piede, senza riuscirci. Infine, agitando le braccia, trovò il ramo di un arbusto. Vi si aggrappò con entrambe le mani e provò ancora a sollevare la gamba. Era inutile...

    Si liberò di colpo e venne proiettata in avanti. Cadde a capofitto ai piedi di un arbusto, urtando il tronco con la testa e un braccio. Sentì il naso e la bocca riempirsi di terra e pezzetti di foglie. Soffocata dal puzzo di marcio, si portò le mani al viso. Impiegò qualche momento a vincere il panico. Infine sputò gli ultimi frammenti e tentò di alzarsi. Una fitta di dolore le trafisse il braccio. Era fratturato? Difficile capirlo.

    Il vento soffiava con furia ancora maggiore. Gli arbusti attorno alla radura si piegavano con rabbia. Tuttavia i rami sopra di lei non fuggivano come gli altri, con un violento fruscio. Al contrario, parevano quasi proteggerla, come una madre amorevole china sul figlio dormiente. La cullavano, l’accarezzavano...

    Lei si rilassò sul morbido mucchio di foglie secche, appoggiando il capo al braccio illeso e posando la guancia sul palmo, privo di guanto. Non le avrebbe fatto male riposare almeno un poco, finché non fosse cessata la bufera. E poi si sarebbe di nuovo messa in cammino.

    Chiudere gli occhi cambiò tutto. Presto non avvertì più alcun dolore e il freddo smise di infiltrarsi nelle ossa. Persino il vento e la pioggia sembravano meno ostili. Ormai li udiva appena tra il fogliame e si sentiva leggera, senza peso. Aveva l’impressione di fluttuare a mezz’aria, verso un cielo sempre più azzurro e luminoso.

    Calde dita le toccarono la gota umida, riportandola a terra, alla dura realtà, dove non voleva tornare.

    Le mani premevano sulla pelle, insistenti. Lei tentò di alzare le palpebre, ma fu impossibile.

    Dove sono? Le parole si formarono in gola, senza raggiungere le labbra. Era tanto debole e stanca. Voleva soltanto dormire, volare via con dolcezza.

    «Svegliatevi! Non potete rimanere qui. Presto, aprite gli occhi» intimò una voce maschile, profonda, decisa, nobile.

    Poi una mano le afferrò la spalla e la scosse. Una fitta atroce le trapassò il braccio e la testa. Risvegliata con violenza, gridò.

    «Santo cielo! Vi siete fatta male. Permettetemi di aiutarvi.»

    Infine lei aprì gli occhi. Buio... La debole luce di una lampada, in basso. Era distesa al suolo, forse ferita? Com’era capitata laggiù?

    La sofferenza divenne ancora più atroce quando lo sconosciuto le passò un braccio dietro la schiena e la sollevò. Gemette forte, in parte per il male, in parte per il dispiacere di abbandonare l’accogliente rifugio.

    Lo sconosciuto la rimise a terra, nel freddo e nella pioggia battente. Poi alzò la lampada per studiarla in viso.

    «Fidatevi di me, signora» le disse allontanando la luce. «Vi porterò al sicuro.» Senza esitare, si levò il pastrano e glielo avvolse attorno al corpo tremante. L’odore della lana umida le stuzzicò le narici, insieme a un rassicurante aroma virile.

    «Perdonatemi» si scusò lui. «Mi occorre una mano libera per la lanterna.» Senza aggiungere altro, la raccolse da terra e se la mise di traverso su una spalla.

    Sopraffatta dal dolore, lei si arrese di nuovo alla dolce oscurità.

    Aveva l’impressione di sognare quella voce. Parole, domande. A volte confortanti, a volte decise. Mai, però, abbastanza severe da strapparla al bozzolo di tepore che la proteggeva. Di nuovo le sembrava di allontanarsi in volo, magari per sempre.

    E poi il bozzolo scomparve!

    Ormai sola e indifesa, si sforzò di aprire gli occhi. Era a bordo di un calesse. Alla debole luce della lanterna, vide che i cavalli erano legati a uno steccato. C’era una casa vicina?

    L’alta figura virile riemerse dal buio. Dunque non l’aveva abbandonata. Forse meritava davvero fiducia. «Vi porto dentro» le annunciò.

    Prestò più attenzione di prima a non farle male. La prese con delicatezza in braccio e la tenne vicina al petto, cullandola con forza rassicurante. Per un istante la fissò preoccupato, poi serrò la mascella e si diresse verso la dimora.

    Nel buio, lei distinse un vialetto e qualche siepe. Poi una porta si aprì per accoglierla al caldo e alla luce. Un ometto paffuto, in abiti ecclesiastici, aspettava inquieto sulla soglia.

    Mentre l’ignoto soccorritore si affrettava verso i gradini d’ingresso, spuntò dal corridoio una signora di bassa statura, in cuffia di pizzo, seguita da una cameriera ancora più piccola e minuta di lei. «Signorino Jonathan, siete benvenuto come sempre. Ma chi ci portate?»

    «Mrs. Aubrey! Grazie al cielo!» Superò l’anziano religioso ed entrò in casa. «Non la conosco, ma credo sia una giovane rispettabile. L’ho trovata nel bosco, presso la vecchia quercia. Soffre ed è quasi congelata.»

    Il padrone di casa sussultò. «Dio mio! Povera ragazza. Per giunta a Natale...»

    La moglie si avvicinò e la studiò in volto, scostandole i lunghi capelli bagnati. «Come vi chiamate, mia cara?»

    La domanda rappresentò un duro colpo, peggiore della sofferenza fisica sopportata prima. Era terribile rendersene conto. «Non... non lo so.»

    1

    Inghilterra, 1812

    «Beth, mia cara?»

    Beth. A volte suonava ancora strano. Era davvero il suo nome? Cara Beth erano le uniche parole leggibili su un foglio piegato e intriso d’acqua, rinvenuto in una tasca della vecchia gonna. Nessun altro indizio aveva rivelato la sua identità. E così, dopo più di sei mesi, Beth era ancora a Fratcombe con i suoi benefattori. Avvolta dal mistero, come la notte in cui era stata salvata. Forse non si chiamava affatto così.

    «Sì, signora?» rispose a Mrs. Aubrey, che si era affacciata alla porta.

    «Quando uscite da scuola, potreste passare da Mr. Green a comprare qualche nastro?»

    «Certo. Cosa vi serve?»

    La moglie del pastore le mostrò un pezzo di stoffa e, insieme, discussero per qualche minuto dell’abito da confezionare.

    «Avete scelto un colore splendido, signora, tra il porpora e il rosso granato. Non sarà facilissimo trovare un nastro adatto a questa sfumatura insolita, ma vi prometto di fare del mio meglio.»

    «Avrete abbastanza tempo?»

    «Oh, sì. La bottega di Mr. Green resta aperta per almeno un’ora dopo la fine delle lezioni. Se non mi basterà per scegliere, significa che sono una buona a nulla, zia Caro.» Le sorrise con calore. Le voleva bene come a una madre, poiché era gentile e generosa, oltre che pronta a ridere e scherzare. Né a lei né al marito importava se lei non aveva un passato. A loro parere, le mani delicate e il linguaggio colto dimostravano che era di buona famiglia e quindi, ignorando i suoi scrupoli, avevano insistito per tenerla a casa.

    Mrs. Aubrey aveva raccontato in giro che Beth era una lontana parente e che si sarebbe trattenuta a lungo a Fratcombe. Gli abitanti del villaggio avevano accettato la sua presenza senza problemi e persino lei aveva iniziato a considerarsi come Miss Elizabeth Aubrey, membro della famiglia del pastore. Tuttavia non riusciva ancora a superare i dubbi e le angosce, che spesso generavano incubi. Cos’aveva fatto in passato? Qualcosa di tremendo, che la mente preferiva cancellare?

    Recuperò il cestino con i libri e i quaderni, salutò con un bacio Mrs. Aubrey e uscì nel sole mattutino.

    La canonica era vicino all’antica chiesa, in fondo al villaggio, mentre la scuola elementare era stata creata in un vecchio edificio del centro, accanto ai negozi. Era un tragitto breve e facile, anche se si profilava una giornata molto calda.

    Beth guardò sorridendo il cielo sereno. Immaginava che in Spagna l’azzurro fosse più intenso, simile a quello degli occhi di Jonathan, almeno secondo quanto ricordava di quel breve incontro notturno. Non aveva mai avuto occasione di ringraziarlo. Il giorno dopo averla salvata, infatti, era partito da Fratcombe Manor per rispondere all’appello delle Guardie a Cavallo. Aveva lasciato al pastore un messaggio di scuse, senza trascurare gli auguri di pronta guarigione per Beth. Il pensiero le aveva scaldato il cuore, però le dispiaceva tanto non averlo più visto. Del resto, così era la vita dei soldati. A parte qualche breve licenza, Jonathan combatteva da anni contro i Francesi, nella Penisola Iberica.

    Beth non si era informata su di lui, per timore di sembrare sfacciata. Tuttavia, ascoltando le conversazioni di altri, aveva imparato ad ammirarlo sempre più.

    Il nome completo era Jonathan Foxe-Garway. Gli Aubrey, che lo conoscevano sin da bambino, lo chiamavano semplicemente Signorino Jonathan, ma in realtà era il ricco e potente Conte di Portbury. Lo stimavano e lo rispettavano, non solo perché provvedeva alle spese della parrocchia. Parlavano spesso di lui, raccontando birichinate infantili e buffi aneddoti dei tempi di Oxford. Forse alcune sue imprese erano poco adatte alle orecchie delle signore, ma lo spiccato senso del dovere e il valore in battaglia compensavano di gran lunga eventuali peccati.

    Tuttavia Beth trovava curioso che un conte si fosse arruolato con Lord Wellington. Non aveva forse responsabilità più importanti, legate al titolo e alle proprietà di famiglia? Non poteva certo amministrare i beni da un accampamento militare in Spagna.

    Non sembrava facile scoprire la vera motivazione di quelle scelte. Del resto, Beth non avrebbe dovuto nemmeno interrogarsi in proposito. Eppure non riusciva a dimenticare Jonathan Foxe-Garway, nemmeno col passare del tempo. Ricordava vagamente il suo aspetto. Aveva soltanto un’impressione di altezza e di forza, associata a penetranti occhi azzurri e a una voce profonda e rassicurante. Soltanto in sogno, a volte, lo vedeva con chiarezza. L’aveva persino sognato mentre galoppava verso di lei su un cavallo bianco, in armatura argentea come un cavaliere delle favole.

    Si rendeva conto che era ridicolo. Lei doveva avere almeno ventiquattro o venticinque anni: non era una fanciulla sprovveduta, incline a fantasie adolescenziali. Tuttavia non smetteva di risentire il suono di quella voce. Forse avrebbe continuato così fino alla vecchiaia, da maestra zitella.

    Uno dei suoi allievi, un bambino di nome Peter, arrivò di corsa, lanciando in aria un cerchio di legno. «Guardate, Miss Aubrey!» Proprio in quel momento si lasciò sfuggire il giocattolo, che rotolò verso un cespuglio di ortiche, sul ciglio della strada. Prima che Beth riuscisse a fermarlo, si lanciò a capofitto per recuperarlo. Subito dopo strillò di dolore.

    Aveva solo cinque anni e ignorava i pericoli. Lei lo prese in braccio e gli asciugò le lacrime. «Stai tranquillo, Peter: troviamo subito qualcosa per calmare il bruciore.» Lo rimise a terra e, con la mano guantata, afferrò il cerchio di legno. «Tienilo tu, mentre cerco.» Con il manico del parasole, scostò l’erba alta e indicò una pianticella. «Vedi quella? Il rimedio migliore contro i brutti effetti delle ortiche sono le foglie di romice. Adesso te lo dimostro.» Ne raccolse una manciata, si sfilò i guanti e iniziò a sfregarle sulla pelle irritata. Poi gli avvolse il braccio con alcune foglie più grandi. «Lasciale per qualche minuto e dammi pure il cerchio. Tra poco non ti farà più male.»

    «Va già meglio, signorina» confermò Peter.

    «Bravo bambino. E adesso potrai raccomandare ai tuoi compagni di evitare le ortiche e spiegare come si cura il bruciore.»

    Lui allargò le labbra in un sorriso sdentato. Era sveglio e intelligente. Avrebbe fatto strada, con un po’ di aiuto, sebbene fosse figlio di un modesto contadino, che abitava in un cottage nei terreni di Fratcombe Manor, cioè nella tenuta di Jonathan.

    Tutto sembrava ricondursi a lui.

    Forse, se mai fosse tornato, avrebbe potuto interessarsi al futuro di quel bimbo.

    Ormai erano arrivati davanti alla scuola. Rammentando le buone maniere imparate da Beth, Peter le rivolse un cortese inchino prima di correre dagli amici per mostrare le chiazze rosse sul braccio, oltre

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