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ll Monaco Nero di Wulmer
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E-book325 pagine4 ore

ll Monaco Nero di Wulmer

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Info su questo ebook


Può un personaggio realmente esistito entrare nella leggenda?
Può parlarci da un mondo lontano secoli, dove abbondano studi esoterici, intrighi, battaglie e dove presenze inquietanti entrano nella vita degli uomini?
Le vicende di Eustachio, chiamato dalla Storia il Monaco Nero, sono la risposta coraggiosa ai soprusi che egli fu costretto a subire e a cui il suo carattere indomito non si assoggettò mai.
Eustachio nacque a Boulogne nel 1170 da una nobile famiglia e trascorse l’infanzia nel castello di Courset. Nel monastero di Saint Wulmer imparò a copiare testi sacri e lesse di nascosto libri proibiti, diventando un monaco esorcista, che suscitò ammirazione, ma anche sospetto. L’abate lo inviò a Toledo; l’assassinio a tradimento del padre lo spingerà a tornare per attuare la sua vendetta. Si trasformerà in un pirata e assalterà navi nel canale della Manica.
Finché un giorno…
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2021
ISBN9788866603962
ll Monaco Nero di Wulmer

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    Anteprima del libro

    ll Monaco Nero di Wulmer - Ivana Tomasetti

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Titolo pagina

    Introduzione

    PROLOGO

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO PRIMO

    CAPITOLO SECONDO

    CAPITOLO TERZO

    CAPITOLO QUARTO

    CAPITOLO QUINTO

    CAPITOLO SESTO

    CAPITOLO SETTIMO

    CAPITOLO OTTAVO

    CAPITOLO NONO

    CAPITOLO DECIMO

    CAPITOLO UNDICESIMO

    SECONDA PARTE

    CAPITOLO DODICESIMO

    CAPITOLO TREDICESIMO

    CAPITOLO QUATTORDICESIMO

    CAPITOLO QUINDICESIMO

    CAPITOLO SEDICESIMO

    CAPITOLO DICIASSETTESIMO

    CAPITOLO DICIOTTESIMO

    EPILOGO

    Riferimenti

    Fonti

    cover.jpg

    Un Romanzo Storico di

    Ivana Tomasetti

    Il Monaco Nero di Wulmer

    La vita leggendaria di Eustachio, il Monaco di Boulogne

    (1170 – 1217)

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    ISBN versione digitale

    978-88-6660-396-2

    IL MONACO NERO DI WULMER

    La vita leggendaria di Eustachio, il Monaco di Boulogne

    (1170 – 1217)

    Autore: Ivana Tomasetti

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di luglio 2021

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)

    img2.png

    Collana: GREEN

    Editing a cura di: Giulia Pretta

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Nella parte di questo universo

     che noi conosciamo

    c’è una grande ingiustizia

    e spesso il buono soffre

    e spesso il cattivo prospera

    e si fa fatica a dire

    quale delle due realtà sia più irritante

    Bertrand Russell

    Introduzione

    Eustachio nacque da una famiglia nobile di Boulogne intorno al 1170. Fu detto il Monaco Nero perché da ragazzo frequentò un monastero benedettino.

    Nonostante le origini, diventò un pirata attivo nel Canale della Manica. Morì nel 1217.

    Nell’aura di leggenda che circonda la sua avventurosa vita, viene qui ricordata e romanzata la sua figura.

    PROLOGO

    Era bella la campagna in quella stagione. Le foglie, che avrebbero dondolato nel vento prima di cadere, pennellavano ancora le colline di macchie rosse e gialle passando dalle gradazioni dell’arancio e del marrone. Gli uccelli lasciavano i nidi e si radunavano in stormi saettanti nell’azzurro, pronti alla partenza.

    Lo cercò sotto gli alberi al limitare dei campi, dove il taglio del grano aveva lasciato la terra molliccia di rugiada e l’erba tentava di ricrescere. Con l’ascia spezzava i rami grossi caduti durante i temporali estivi, ripuliva il bosco per raccattare legna per l’inverno. La accatastava sul carretto con cui l’avrebbe portata al castello. Faceva un mestiere libero, non come lei che avrebbe dovuto restare nelle cucine tutto il tempo. Viveva di sicuro al villaggio, lei nel castello non lo aveva mai visto. Lo guardò e si disse che era il ragazzo migliore che conoscesse. Cercò di aggiustare i capelli, di lisciare il vestito, ma sapeva che lui l’avrebbe voluta anche così. Gli uomini non badavano ai dettagli. E neanche lei. Era attratta dai suoi muscoli, dal suo sguardo chiaro e dai capelli fluenti, forse più odorosi dei suoi. L’aria aperta lo faceva diventare una figura mitica, unirsi alla quale era un’attrazione irresistibile. Come giacere con il vento. Quando lui alzò lo sguardo, la vide scarmigliata e acerba. Le sorrise.

    «Ho da fare oggi! Tu non lavori? Sei a zonzo per il bosco?»

    «Vado in cerca di more.» Mentì con naturalezza e sorrise, intanto lo guardava con ingordigia, posando lo sguardo sul suo corpo. Si avvicinò e lui sentì l’olezzo sgradevole che emanava. Ma era un odore di donna. Lo capì subito e si disse che sarebbero bastati pochi minuti, come la volta precedente. Non poteva perdere l’occasione. Lasciò l’attrezzo che aveva in mano e mise l’ultimo pezzo di legna sul carretto, già pieno di desiderio. Si guardò rapidamente in giro, mentre la ragazza si piegava verso di lui a mostrare un seno morbido e bianco. Il bosco era fitto, in giro nessuno. Adocchiò un cespuglio e la prese per la vita. La sollevò come un fuscello e atterrarono insieme sull’erba. Non le servì baciarla, era già pronta e lui pure. Le sollevò le vesti e si sbottonò i pantaloni, mentre lei lo aiutava. Animalescamente la penetrò e lei iniziò ad ansimare mentre si muoveva. Fu un attimo e aprì la bocca all’ultimo respiro. Era finito. Ansanti e appagati si staccarono.

    «Come ti chiami?»

    «Mi chiamo Giovanni.»

    «Io, Germana. È la seconda volta, ti ricordi?»

    Qualche scrupolo forse arrivò nella coscienza di Giovanni, era giovane e non approfondì. Si chinò verso di lei e la baciò.

    «Sono troppo giovane per pensare al matrimonio, tu sei venuta ad offrirti. Non potevo dirti di no.»

    Lo lasciò alla raccolta della legna e si incamminò verso il ruscello. Se voleva trovarsi un marito, Giovanni o altro che fosse, doveva rendersi presentabile. Lasciò i vestiti sull’argine e nuda si avvicinò all’acqua che scorreva gorgogliando tra i castagni. Ebbe qualche brivido. L’autunno faceva già fresca l’aria. Gradualmente si bagnò anche i capelli e li strofinò finché non sentì sciogliersi qualche nodo. Si frizionò il corpo, tenendo d’occhio la riva. Qualcuno poteva farle qualche scherzo. Ma non accadde. Uscì e recuperò i vestiti. Avrebbe dovuto lavare anche quelli.

    PRIMA PARTE

    Ricorda Signore questi servi disobbedienti

    alle leggi del branco

    non dimenticare il loro volto

    che dopo tanto sbandare

    è appena giusto che la fortuna li aiuti

    come una svista

    come un’anomalia

    come una distrazione

    come un dovere

    Fabrizio De André

    Smisurata preghiera

    CAPITOLO PRIMO

    Courset, 1170.

    Il castello di Courset del distretto di Calais era in fermento. La baronessa riempiva gli anditi di pietra con le sue grida che rimbalzavano sulle pareti possenti quando si aprivano le porte dei suoi appartamenti. Era suo figlio che nasceva. Ma il dolore non era direttamente colpa sua, era la natura che si prendeva gioco della madre, come sempre faceva con ogni donna. Una lotta per la vita, una lotta per la morte. Era tutto un correre su e giù dalle scale verso le cucine, ritornare con mastelli pieni d’acqua che debordavano dalla fretta. Il paggio era caduto sulla pietra scivolosa e aveva lacerato la livrea prendendo una botta al gomito. Ciò nonostante aveva ripreso le sue corse verso gli appartamenti della signora, agli ordini perentori delle donne che l’assistevano.

    «Porta altra acqua e che sia calda!»

    Lui abbassava la testa e riprendeva le scale coi mastelli vuoti. Sbirciava dietro la porta e poi sentendo le grida non resisteva e fuggiva veloce verso le cucine. E ora la levatrice aveva ordinato una pozione di tè alle foglie di lampone. Naturalmente nel castello non si trovava la preziosa erba e una squadra di servi fu mandata verso i boschi dei dintorni a cercare l’arbusto. Sulle pendici del monte Hulin, lontano dalle cave di gesso in cui gli schiavi legati al lavoro picconavano la roccia, Germana adocchiò i cespugli bassi tra la fitta vegetazione. Senza avvertire nessuno si sedette nei pressi e cominciò a mangiarli, incurante d’altro. Se facevano bene alla sua signora, avrebbero fatto bene anche a lei. Ma suo padre la teneva d’occhio e distinse il grembiule, una volta bianco e ora sporco di macchie scure, emergere dal verde del sottobosco.

    «Lazzarona, non hai voglia di far nulla! Hai trovato la pianta e non chiami.» Le mollò un ceffone che la spettinò, sempre che fosse stato necessario, dato che i capelli stopposi le inondavano già la faccia. Nessuno doveva accorgersi del suo cambiamento. Si scostò veloce di lato per schivare il colpo al quale era abituata. Alzò le spalle e abbandonò il bottino. Aveva già fatto una scorpacciata, lasciò che loro prendessero le foglie. Il padre ne riempì un canestro, badando bene a lasciare le radici. A ogni nascita le mandavano a prendere. In cucina la cuoca le lavò e le mise in infusione in acqua calda. Presto la bevanda fu pronta e il profumo si sparse per l’aria. Riempì una brocca e la fece portare dalla figlia insieme a una tazza. La ragazza bussò alla porta mentre la nobildonna, senza ritegno, gridava immersa nei dolori. Non volle entrare, le sembrava di essere sconvolta lei stessa. Ma per una signora di nobili origini poteva trattarsi di una cosa normale, non era abituata alla sofferenza. La sua vita si era svolta nella bambagia. Lei senz’altro non si sarebbe comportata in quel modo. Anche perché non sarebbe stato così grande il dolore per lei, il suo corpo era forte. La padrona era una schifiltosa. Infilò tazza e caraffa dentro lo spiraglio della porta, che faticò ad aprirsi, pesante di borchie e di legno spesso. Una donna vestita di bianco con un fazzoletto in testa le prese gli oggetti dalle mani e lei fuggì, senza attendere le sue parole.

    «Prima di avvicinarti alle stanze della tua signora, vai a ripulirti!»

    Saltò i gradini a due alla volta, nonostante il ventre prominente nascosto sotto i vestiti dalla vita alta, larghi a balze fino a terra. Arrivò in fondo e si tenne la pancia. Sotto di lei una macchia di liquido bianco insozzò l’ultimo gradino. Poteva essere acqua. Sentì un malessere impossessarsi di lei e d’istinto si allontanò. Il bosco era poco distante. Camminò più in fretta che poté, quando una fitta la fece desistere ad andare oltre. Si appoggiò al tronco di un castagno con le mani, vi si aggrappò con le unghie fino a inciderne la corteccia. Non doveva gridare, non avrebbe dovuto. In quel mentre sua madre la cercava. Udì la sua voce fendere l’aria, presto sarebbe arrivata. L’avrebbe vista in quel modo. Che doveva fare? Si allontanò ancor più mentre il dolore le dava una tregua. Capì perché la signora del castello gridava tanto e così acutamente. Quando un’altra fitta le lacerò le carni si accasciò mugolando sull’erba, in ginocchio. Sua madre le era sopra. Il viso accigliato, parole di rimprovero che le morirono in bocca.

    «Che ti succede figlia mia?» Un misto di terrore, di rabbia e di incredulità le brillava negli occhi. Vide il sangue scorrere lungo le gambe. Germana trasse un respiro e gridò, cercando di trattenersi. Il dolore era fuori controllo, ma non voleva cedere.

    «Aiutami!» La madre finalmente capì. Non volle infierire, lo avrebbe fatto dopo. Aiutò la figlia a reggersi in piedi. Qualche passo e si scostarono dalla vista del castello, avvicinandosi al ruscello, restando sotto le fronde. La avvicinò alla riva e cercò di lavarla. La tenne in ginocchio, mentre la massa del suo ventre diventava visibile e si abbassava. Raccolse foglie ed erbe, caso mai il bimbo le fosse sfuggito.

    Sono nonna, ma nessuno deve saperlo. Sorrise, ma non parlò, lasciò che la natura facesse il suo corso. Per fortuna il neonato aveva fretta. Le spinte del parto divennero efficaci e lei riuscì a raccogliere la testa e a deporlo sull’erba, mentre i primi vagiti diventavano strilli, che si sarebbero sentiti a distanza. Tagliò il cordone col coltello. Strappò la sua veste, mentre la puerpera si stendeva sull’erba spossata. Ne fece strisce a pulire il piccolo intingendo più volte nell’acqua gli stracci e lo depose in braccio a sua figlia. Era poco più di una bambina, cosa le era successo? Certo il padre del neonato non poteva sapere, forse la ragazza era stata solo un frutto goloso che qualcuno aveva raccolto per la voglia di un momento, come spesso accadeva. Lasciò che si riposasse e le diede pezze per tamponare il sangue. Avrebbe dovuto cambiarsi o tutti si sarebbero accorti che qualcosa di strano le era capitato. Il sangue era schizzato in più punti. Le ore passavano.

    «Ti aiuterò, ma dovrai restare nascosta. Chi è il padre?» La domanda era sorta spontanea, se l’aiutava doveva anche sapere.

    Germana non mentì: «È Giovanni, il boscaiolo. Io lo amo, anche lui… forse…».

    «Povera figlia mia!» Un sentimento di comunanza le fiorì in fondo al cuore. Donne succubi, donne vittime.

    «Se te la senti ti accompagno alla cava abbandonata. Nessuno verrà lì a disturbare, gli schiavi lavorano lontano. Troveremo un posto tra il verde e se pioverà avrai un luogo dove ripararti. Non fare piangere il bambino, mi raccomando. Verrò ogni giorno a portarti da mangiare e domani avrai il latte per il piccolo.»

    La sorresse attraverso il bosco, fermandosi quando il sangue si metteva a scorrere.

    «Dovrai riposare, accenderò un fuoco.»

    Sul pendio del monte trovarono un luogo riparato e la madre raccolse sterpi con cui fece un castello arioso riducendoli in piccoli pezzi e ricci di legno. Usò l’acciarino che portava sempre con sé e con una pietra fece scaturire scintille che presero fuoco facilmente, facendo salire il fumo tra gli alberi. Qualcuno lo avrebbe visto, ma non era raro che gli abitanti del villaggio si fermassero per la notte e un fuoco non avrebbe destato il sospetto di nessuno.

    «Resta nascosta. Torno domani.»

    Il cuore in subbuglio, prese la corsa verso le cucine che aveva abbandonato. Un pensiero le arrovellava la mente, mentre il fiato diventava corto. Il castello torreggiava sull’altura, ma lei non ci fece caso. Trafelata aprì il grosso portone e fu nella corte. Di lì si sentiva l’odore del maiale arrostito. Il trambusto per il parto della castellana sembrava cessato. Ognuno attendeva ai suoi doveri con calma e qualcuno aveva assolto anche il suo compito. Il marito l’aspettava.

    «Dove eri finita?! Qui c’è bisogno, i signori mangiano tutti i giorni!» la rimproverò. Senza parole si mise ai fornelli. Come sarebbe uscita da quella situazione? Obbedì agli ordini del marito, ne impartì altri alle sguattere. Dio l’avrebbe aiutata.

    La mattina seguente disse che si sentiva la febbre e non avrebbe potuto alzarsi dal letto. L’uomo le credette e si ritrovò libera per tutta la giornata. Attese che tutti fossero occupati e sgattaiolò con del cibo e qualche coperta verso il bosco. Trovò la figlia che allattava già il piccolo.

    «Stai meglio, vedo.»

    La figlia le sorrise: «Grazie!».

    Riattizzò il fuoco e la lasciò mentre sbocconcellava il pane e il pezzo di arrosto che aveva rubato in cucina. Una partoriente doveva tenersi in forze, lei era una donna e lo sapeva. Raggiunse il villaggio. Non era grande. Si conoscevano tutti e loro conoscevano lei.

    «Dove abita Giovanni, il boscaiolo?»

    Le indicarono una casa in fondo alla strada. Si incamminò, era quasi mezzogiorno e il sole era alto nel cielo. La giornata era calda, una delle prime d’estate. Lo trovò dietro la casa che spaccava tronchi con l’ascia. Si fermò a distanza di sicurezza. Lui alzò la testa, stupito. Le donne mature non riscuotevano il suo interesse. Le preferiva acerbe e sode.

    «Siete Giovanni? Vi devo parlare.»

    Lui non negò di conoscere Germana, ma quando capì dove il discorso andava a parare cominciò a fare il sostenuto. La madre dovette giocare d’astuzia.

    «Se voi la sposerete potrete vivere al castello e lavorare al riparo nelle cucine, magari diventare paggio del conte, con vantaggi sicuri; è un’occasione che non potete perdere! Ma dobbiamo fare in fretta, prima che lo scandalo ricopra le nostre famiglie e che mio marito lo sappia da altri. Ora lasciate il lavoro e venite con me. Avvertiremo la vostra famiglia a cose fatte.»

    Lo condusse al castello e il marito, quando la vide accompagnata da un giovane, si chiese se non dovesse essere ammalata. Cominciava già a sentire la rabbia montare dentro di sé, capendo di essere stato beffato, ma la moglie non gli diede tempo.

    «Abbiamo un affare per le mani, ma dobbiamo fare in fretta.»

    Gli spiegò cosa aveva in mente, pregandolo di non arrabbiarsi perché da un male se ne poteva trarre un bene. La fretta non permise al marito di elaborare i pensieri. La convenzione voleva che il padre della sposa fosse d’accordo e dunque si doveva seguirla. L’uomo acconsentì a cercare uno dei chierici della cappella del castello e ritornò subito in compagnia di uno di essi. Prepararono un velo e un bicchiere e la madre chiese loro la segretezza che il momento suggeriva. Lasciarono insieme il castello e via verso il bosco, nei pressi delle cave di gesso. La madre li guidò sul sentiero che portava a una caverna dove il fuoco crepitava. Germana era in piedi, il piccolo dormiva tra le coperte su un letto di foglie. Quando vide arrivare il drappello pensò che la sua fine fosse vicina: il padre, il prete, la madre, Giovanni. La madre le mise in testa il velo. Il chierico pronunciò le parole di rito, versò dell’acqua nel calice e fece bere i due giovani.

    «Per verba de praesenti…»

    Germana non credeva ai suoi occhi, né alle sue orecchie. Stava sposando il suo innamorato, il padre di suo figlio. Sua madre era l’artefice di tutto quel felice scompiglio. Il padre osservava senza parole, forse il nuovo marito sarebbe stato un lavorante in più nelle cucine e un appoggio al suo impegno quotidiano. Forse avrebbe dovuto opporsi. Ma la dote non era stata richiesta e ciò non era cosa da poco. Il neonato reclamò per sé l’attenzione e Germana lo attaccò al seno. La cerimonia era finita. Ritornarono verso il castello, incalzati dalla madre e il prete ricevette una dozzina di uova. Mentre gli uomini bevevano il vino per festeggiare, un mastello d’acqua calda fu preparato per Germana. Il neonato fu affidato a una serva a cui fu ordinato di alimentarlo con il latte di capra. La madre preparò vesti bianche per la figlia, le pettinò i capelli e vi fissò una cuffia candida. Un grembiule immacolato le coprì il vestito. Nonostante fosse giovane, il corpo si era adattato alla maternità e il seno era divenuto prosperoso. Erano pronte. Si fece annunciare alla baronessa che finalmente aveva dato alla luce il suo neonato e che immaginavano stremata sui cuscini.

    «Con il vostro permesso desidero sottoporvi mia figlia come balia. È giovane, forte e sana, ha appena partorito anche lei e il latte non le manca.» Una nuvola bianca e profumata avanzò verso la signora e si inchinò. La nobildonna alzò una mano.

    «Avvicinati. Quanti anni hai?» Non attese risposta. «Sembri tanto giovane…»

    Si rivolse alla madre che le stava accanto. «Non sapevo che aveste una figlia ammogliata così presto.»

    «È stato un matrimonio d’amore e noi non l’abbiamo ostacolato. Il Signore l’ha benedetto con un figlio sano e forte come è lei. Il marito è il boscaiolo Giovanni. Vedete come è pulita e ordinata.»

    «Vi farò sapere. Devo avere il consenso del barone. Vi farò cercare.»

    Non dovettero aspettare a lungo. Il vestito era ancora bianco e immacolato. Il seno un poco macchiato di latte, ma questo poteva essere un buon effetto. Stabilirono un compenso e la madre fu finalmente soddisfatta. Anche il padre piegò la testa davanti al denaro che spartirono tra il boscaiolo e se stessi. Germana poteva solo sorvegliare la crescita del proprio figlio a latte di capra, quando non era occupata a crescere il figlio della padrona e a ringraziare che tutto fosse finito nel migliore dei modi.

    CAPITOLO SECONDO

    Courset, 1172.

    Eustachio

    Germana diventò la mia balia. Io, Eustachio, figlio di Baudoin Buskes, pair de Boullonais, iniziavo il mio impatto col mondo. Mi dissero che ero un neonato vorace e insaziabile. Per fortuna Germana aveva tenuto tutto il suo latte solo per me. Non ebbi fratelli di latte, io ero il solo. Vissi al castello e vidi spesso mia madre. Quando era il momento di mostrarmi a lei, il vestito mi era cambiato, le fasce annodate con cura, anche Germana si ripuliva e passava l’ispezione.

     Talvolta la mia balia mi portava nel bosco insieme al marito o dormivo al villaggio. Conoscevo il suo seno morbido e ricco, sempre pronto per me; respiravo l’aria fresca e pura della collina e vivevo senza regole. Mangiavo, dormivo, piangevo e mi muovevo dentro i miei escrementi come accadeva a ciascun figlio del popolo. Mi lasciavano libero e crebbi pensando che tutto si potesse fare. Appena fui in grado di stare seduto, imparai il profumo del muschio e delle foglie, il pizzicore degli aghi di pino, il fischio dei falchi che volavano alti sopra il monte. Quelli furono i miei primi anni quasi selvaggi. Ricordo solo qualche ombra indistinta, sapori e giochi tra il verde, e per contrasto l’ambiente severo di mia madre, al quale mi sentivo estraneo. Non conoscevo mio padre.

    Venne il giorno in cui Germana mi riportò al castello. Il suo compito era finito e ho il ricordo triste della sua mano calda che mi lascia in quella fredda di una dama sconosciuta, che non mi guarda, che non mi parla.

    «Ti rivedrò nelle cucine e quando tua madre mi chiamerà» rispose lei al mio pianto. Ma non vi furono delicatezze, era la prima esperienza del dovere e della regola. Avrei vissuto altri giorni e ben peggiori, ma a quel tempo avevo solo tre anni, potevo battere in terra i piedi, piangere e strillare. Non facevo paura a nessuno. Eppure la rabbia cominciava a sedimentare dentro di me, senza che io lo sapessi. Mia madre forse se ne accorse, se ne accorse la dama che avrebbe dovuto accudirmi e alla quale disobbedivo regolarmente, rendendole la vita impossibile. Germana fu richiamata.

    «Non vorreste accudire il bambino qui al castello ancora per qualche anno?» Fu così che ottenni quello che volevo, anche se in altro ambiente e la mia balia non mi lasciò. Potevo ancora andare nel bosco con lei, dovevo solo dormire nelle mie stanze, riconoscere le scale e le torri del castello.

    La prima volta che vidi mio padre ne restai affascinato. Le persone che avevo visto fino a quel momento erano donne di paese, oppure nobildonne del maniero. Ma mio padre era una figura possente, dallo sguardo aperto e coraggioso. Le ciglia folte, gli occhi profondi. Mi salutò come fossi stato un ospite e io mi nascosi dietro le gonne della balia, sbirciando di lato, dentro un incantesimo.

     Dalle mie stanze potevo vederlo in sella al suo cavallo prepararsi alla caccia insieme ai suoi cavalieri, gli stendardi, i levrieri snelli ed eleganti, i segugi trattenuti al guinzaglio dai cacciatori, i battitori muniti di bastoni, archi e frecce, il falconiere con i grossi uccelli legati all’asta con catene di ferro. Tutti si radunavano nella piazza d’armi e ognuno cercava di occupare il proprio posto nella fila che si sarebbe composta, di uomini e animali. Osservavo lo scalpitio dei cavalli che sembravano avere nelle narici la corsa verso i boschi, il latrare dei cani impazienti di trovare l’odore del cervo. Solo i falchi restavano fermi al loro lungo trespolo, lo sguardo buio sotto il malleolo che copriva loro il corpo fino alle zampe, legate da lacci di cuoio. Il chiasso faceva accorrere le dame alle finestre e io con loro. Immaginavo di essere già grande e di potermi unire a quella carovana festante.

    Quella notte lo sognai, orgoglioso di essere suo figlio. Crescevo pensando finalmente a quello che ero per privilegio di nascita, allontanandomi pian piano dal legame con Germana. Lei era un porto sicuro nel quale ancorare, ma mio padre era il mondo al quale avrei voluto e dovuto appartenere.

    Giovanni mi aveva donato un arco di legno flessibile e una freccia spuntata che non poteva far del male a nessuno. Io mi esercitavo a lanciarla colpendo il nulla davanti a me. Il tempo passava e le mie braccia si irrobustivano e venne anche quel giorno che avevo tanto aspettato. Germana fu chiamata perché mi conducesse da mio padre. Non era la solita visita di controllo sull’andamento della mia crescita e sulla mia educazione.

    «Andiamo!» Il palafreniere conduceva al passo un cavallo. Incominciarono a brillarmi gli occhi. Era un cavallo alto, per me imponente, un destriero che rendeva nobili le stalle del castello. Era lì per me. Mio padre fu in sella e fece cenno a Germana.

    «È ora che impari a stare a cavallo.»

    Un’ombra passò per gli occhi della mia balia. Ma ero insieme a lui. Uscimmo insieme, l’uomo su un altro cavallo ci seguiva. Il padre mi mostrò le redini, il modo di muoverle dando all’animale la giusta direzione. Era un bel giorno per me, la prima volta da solo con lui.

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