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Il Previtocciolo
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E-book416 pagine5 ore

Il Previtocciolo

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Info su questo ebook

È un romanzo di sesso.

Il sesso è il linguaggio di tutta la natura, di tutta la realtà. Del «garofano che ficcavo all’occhiello», dei «bottoni che si infilavano nelle asole», dell’edera «attaccata alle querce,

o ai castagni», simile a «una donna pazza d’amore».

Questo è un romanzo pazzo di amore,

ma è anche un romanzo di morte...

...Non è che ne abbia letti poi così tanti di romanzi con questa potenza di desiderio, di carne, di fuoco, di febbre,

di delirio, di sogno, di paura (di Dio), di amore (terrestre)...

Il bambino Nuzzo, il protagonista, il futuro prete, spia una prima notte di sposi e si scioglie in una lode alla creaturalità: «Oh, fanciulla nuda! Si alzava, si sdraiava, ridendo felice e respingendo vezzosa, agognata, gli assalti di lui.

Che mammelle bianche, erte! I capezzoli, due fragole rosa su due palloncini di neve... Il viso, come una mela rosa, abbronzato dal sole. Ooh! Più bella ora, coi capelli calati, discinta, agitata! E lui la baciava, ora succhiandole la bocca...».

Il previtocciolo è anche un «Cristo si è fermato a Oppido»,

cioè è anche un racconto di antropologia calabrese

al tempo del fascismo.

Dalla prefazione di Antonio D'Orrico
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2016
ISBN9788868225032
Il Previtocciolo

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    Anteprima del libro

    Il Previtocciolo - Don Luca Asprea

    Paesi.

    Prefazione

    di Antonio D’Orrico

    Una mattina del 1961 (all’incirca) un uomo di una trentina di anni, reduce da un viaggio in treno durato la notte intera e visibilmente stanco, si presentò alla sede della Feltrinelli a Milano e chiese con insistenza di poter parlare con il responsabile del settore editoriale, con il funzionario che decideva i libri da pubblicare.

    Le persone che avevano ricevuto il visitatore nella redazione di via Andegari cercarono di dissuaderlo per due motivi. Il primo motivo era dato dal fatto che l’uomo, occhiali, capelli neri, era un prete e non si capiva bene che cosa poteva volere un sacerdote da una casa editrice di sinistra come la Feltrinelli. L’altro motivo consisteva nel voluminoso pacco legato con lo spago alla maniera delle valigie degli emigranti che l’uomo portava con sé. C’erano forti ragioni per sospettare che si trattasse di un manoscrittaro, di uno dei tanti aspiranti scrittori che proponevano le loro opere per la pubblicazione. La casa milanese, che aveva solo tre anni prima dato alle stampe con successo internazionale Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa rifiutato da tanti altri editori, era diventata il principale polo di attrazione di schiere di autori inediti e incompresi. Quel prete doveva essere uno di loro.

    Le cose stavano così e non stavano così. Perché don Carmine Ragno, prete di Oppido Mamertina in Calabria, era effettivamente un manoscrittaro, però le sue pretese non erano campate in aria. Quando, finalmente, gli fu permesso di vuotare su una scrivania il contenuto del suo fagotto, i presenti contarono decine e decine di quaderni di scuola, quelli tradizionali, con la copertina nera, riempiti riga per riga con una fitta calligrafia. Si trattava della sua sterminata autobiografia firmata con lo pseudonimo don Luca Asprea. Qualcuno di fronte a quella montagna di carta sentì l’odore della sacrestia dove erano stati conservati, qualcun altro sentì odore di bruciato. Quel romanzo verità mostrava le stimmate dello scandalo. Parlava di chiesa, di vocazione, di seminario, di sacerdozio, ma parlava soprattutto di sesso, in una maniera che non lasciava indifferenti, furiosa e innocente, delicata e sediziosa, creaturale e kamasutrica, diabolica e angelica.

    Infatti, a dimostrazione che l’autore non era uno sprovveduto, l’opera era accompagnata dalle calde raccomandazioni di Alberto Moravia, allora il più importante e celebre romanziere italiano, sessualmente spregiudicato, freudianamente impeccabile, che si prestava a fare da padrino letterario allo sconosciuto prete calabrese. Assieme a Moravia, c’era un altro mallevadore, anche costui di tutto rispetto. Si trattava di Carlo Falconi, giornalista vaticanista ed ex sacerdote. Il maestro della Noia (pubblicato proprio l’anno prima) e uno spretato di rango, don Luca Asprea si era presentato con le spalle ben coperte in uno dei templi della cultura milanese.

    In tutto, erano centotrenta quaderni e rimasero in via Andegari per dieci anni. La lunga attesa fu dovuta, secondo alcuni, alla poca voglia dei funzionari feltrinelliani di finire nell’indice dei libri proibiti. Secondo altri, invece, fu una questione di ordine squisitamente editoriale: la Feltrinelli non aveva una collana adatta a ospitare un’opera del genere che sfuggiva ai canoni più tradizionali (non era fino in fondo un romanzo e non era solo una testimonianza, una memoria).

    Nella primavera del 1971 ogni indugio fu rotto. Il varo di una nuova collana, intitolata I franchi narratori, che sembrava fatta apposta per accogliere un libro basato su esperienze di vita vissuta e composto da uno scrittore occasionale, non di professione (qualsiasi cosa questo voglia dire). Al pubblico questa carriera di un seminarista (libertino, ma senza la coscienza di esserlo, libertino per forza di natura e non per atteggiamento culturale, per così dire) piacque. Il previtocciolo (titolo indovinato, così come la copertina dove campeggiava un enorme cappello da prete e si profilava un nudo femminile classicheggiante) scalò quelle che allora molti non chiamavano classifiche (faceva un po’ troppo campionato di calcio), ma graduatorie dei libri più venduti. Non c’era solo don Camillo di Guareschi, la figura del prete si poteva raccontare in Italia anche in modi più problematici.

    Alla critica il romanzo autobiografico di don Luca (il vero don Carmine restò trinceratissimo dietro lo pseudonimo) piacque e non piacque.

    Giulio Nascimbeni ne scrisse, una prima volta, sul Corriere d’informazione. Parlò di «un naïf in tonaca», lo apparentò in qualche modo al fenomeno Papillon di Henry Charrière, la storia dell’ergastolano che era riuscito a evadere dalla Cayenna e aveva scritto poi un best seller, ispiratore, a sua volta, di un kolossal hollywoodiano. Il generale Nascimbeni (come mi permettevo di chiamarlo in redazione) delimitò Il previtocciolo nell’ambito del caso editoriale. Elogiava «la bella introduzione» di Franco Cordero (che batteva molto laicamente sul puritanesimo e sulla sessuofobia della Chiesa con qualche digressione su morte e pianto rituale nel meridione d’Italia) e, soprattutto, aderiva alla definizione dell’autore come «prete sbagliato per eccesso di vocazione». Da parte sua, Nascimbeni sentiva nell’opera odore «d’inferno e di paradiso, di sesso e di misticismo». Apprezzava «lampi di straordinario impeto, d’inquietante tensione» nel racconto di questo young priest calabrese. Però alla fine affondava la lama fino all’elsa: «Ma al dì là di tutto questo resta un’impressione di fondo cui è impossibile sottrarsi: che un libro come II previtocciolo sia un frutto fuori stagione che poteva sorprenderci forse 15-20 anni fa».

    Non so se se l’era legata al dito e ne ignoro la ragione, ma Nascimbeni ritornò sulla questione Previtocciolo anche sul Corriere della sera con un altro articolo. Stavolta l’attacco è più deciso. Si parla di «sfogo» relativamente all’andamento della prosa di Asprea, di frammentarietà, del «numero eccessivo di round» che conta nel libro lo svolgimento del vecchio duello tra la carne e lo spirito. E, infine, analizzando la sua natura di romanzo di formazione (a Nascimbeni sarà sembrato più che altro di deformazione), lo si contrappone a un modello positivo: «Quanta nostalgia, ci sia concesso, a proposito di educazione, di paure e di compromissioni cattoliche, per quello splendido libro che fu, e resta, Libera nos a Malo di Luigi Meneghello».

    Mi dispiace moltissimo dissentire. Non trovo un «frutto fuori stagione», addirittura di una ventina d’anni, Il previtocciolo. A me pare che cadde dall’albero con un tempismo invidiabile. In quello stesso 1971 fu pubblicato Io e lui di Moravia (il generoso mallevadore), che raccontava il complesso, turbinoso e spassoso rapporto tra un uomo e il suo organo genitale. Il romanzo di Moravia era stato subito allontanato dalla cerchia dei candidati al premio Campiello e il giurato e critico Enrico Falqui si era affrettato a dichiarare: «Io e lui è un romanzo sbagliato e accidentato, falsificato rispetto allo stesso Moravia». Che non significa nulla, se non che Moravia parlava spudoratamente di sesso. Solo due anni prima Philip Roth ci aveva donato quella meraviglia (anche a proposito di sesso spudorato) di Lamento di Portnoy. Don Luca Asprea di Oppido Mamertina si trovò nel mood giusto della Roma e della New York dell’epoca, come gli fosse capitato era difficile da comprendere, ma sarebbe spregevole negarglielo.

    Qualcosa di quello che ho appena detto, lo scrisse all’epoca Guido Davico Bonino sulla Stampa. L’incipit del suo pezzo è di chiarezza esemplare: «Questo Previtocciolo è libro che avvince e mette a disagio: e come tale, degno di attirare subito l’attenzione del recensore, attorniato di solito da libri accomodanti». Era un libro scottante, quasi epico con la sua folla di «bambini lascivi, bimbe precocemente vogliose, matrone fetide, omaccioni dementi».

    Quando nel 2003 l’editore Pellegrini riaprì l’X-File relativo a don Luca Asprea fu lampante che, in quel suo romanzo brutale e dolcissimo, non andavano cercate più le ragioni del caso editoriale, del libro verità su una vocazione sui generis, della confessione/sconfessione di un prete. La storia raccontata andava sganciata dalle cronache. E questo è vero oggi ancora di più quando, con una pervicacia ammirevole e, a mio sentire, commovente, sempre l’editore Pellegrini insiste su un romanzo che copre la lunga distanza che corre tra l’Aretino e don Mimì Rea (che non era un prete – il titolo è onorifico –, ma il grande scrittore di Gesù, fate luce e di Ninfa plebea). Il previtocciolo è anche un «Cristo si è fermato a Oppido», cioè è anche un racconto di antropologia calabrese al tempo del fascismo. Ma è soprattutto un cantico dei cantici mamertino. Il bambino Nuzzo, il protagonista, il futuro prete, spia una prima notte di sposi e si scioglie in una lode alla creaturalità: «Oh, fanciulla nuda! Si alzava, si sdraiava, ridendo felice e respingendo vezzosa, agognata, gli assalti di lui. Che mammelle bianche, erte! I capezzoli, due fragole rosa su due palloncini di neve... Il viso, come una mela rosa, abbronzato dal sole. Ooh! Più bella ora, coi capelli calati, discinta, agitata! E lui la baciava, ora succhiandole la bocca...».

    È un romanzo di sesso. Il sesso è il linguaggio di tutta la natura, di tutta la realtà. Del «garofano che ficcavo all’occhiello», dei «bottoni che si infilavano nelle asole», dell’edera «attaccata alle querce, o ai castagni», simile a «una donna pazza d’amore». Questo è un romanzo pazzo di amore, ma è anche un romanzo di morte (e la prima cosa non si capirebbe senza la seconda). Si potrebbe stilare, in apparato a questo libro unico, impareggiabile, un elenco delle morti notevoli. Non ho mai più dimenticato, dalla prima volta che ho letto Il previtocciolo (era proprio il 1971), la fine di Sarinella, amica del cuore del piccolo Nuzzo, che muore bollita perché, ghiotta di sanguinaccio, si avvicina alla caldaia dove sta cuocendo la cioccolata di sangue di maiale: e la caldaia «si rovesciò sulla bella bambinona dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro ricciuti».

    Non è che ne abbia letti poi così tanti di romanzi con questa potenza di desiderio, di carne, di fuoco, di febbre, di delirio, di sogno, di paura (di Dio), di amore (terrestre).

    Il mio paese

    Il mio paese è Oppido Mamertina. È stato costruito per la settima volta dopo il terremoto del 1783 nel territorio della Torre Tuba. È risorto più bello per l’ottava volta nello stesso luogo, dopo il terremoto del 1908. Si trova a 20 chilometri dal Golfo di Gioia Tauro e a un quarto d’ora di automobile dalla chiostra delle Alpi Calabresi, da cui gli vengono le acque freschissime e saporose. Da esse gli vengono pure le levantine micidiali e i torrenti in piena, che spazzano tutto, immiserendo tragicamente la zona: il fior fiore della terra se ne va al mare, tra la secolare indifferenza dei governi. A causa di queste levantine che nutriscono la piena delle fiumare, la gente, spesso, va a letto milionaria e si sveglia, la mattina, povera in canna e disperata.

    La zona è fertilissima. Una pianura degradante verso il mare, varieggiata da colline piene di sole e ferita da abissali fratture, che noi chiamiamo valloni se strette, fiumare se abbastanza larghe, o molto estese.

    Gli alvei sono incassati fra pareti vertiginose e scoscese di pietra viva, di mòlissu, di sabbia incastonata da pietruzze, di terreni diversi a substrati, o di creta bianca, sensazionale e paurosa, perché dà il senso della viscidezza abissale. L’acqua vi scorre utile per l’irrigazione; consolante per la frescura paradisiaca nell’estate; orrenda e impetuosa, per la rovina, durante le levantine e nell’inverno. La terra è coltivata ad ulivi, che con gli anni diventano enormi giganti.

    Una sola pianta, nelle annate buone, può dare anche un quintale di olio. Sono quegli ulivi grandiosi e secolari, chiamati sarmarici, da sarma, che è un’unità di misura per solidi, ancora vigente da noi. Oltre agli ulivi, si coltiva la vigna, gli agrumi, alberi da frutta e cereali.

    Il paese, che oggi forma un immane aeroplano adagiato fra gli ulivi, è molto bello ed ha tutti gli enti pubblici (eccetto la prefettura), e tutti i conforti, secondo le esigenze moderne delle cittadine più progredite.

    Il paese della mia infanzia, invece, era l’espressione tragica del recente cataclisma, con tutte le derivanti miserie. Era diviso in luridi e piccoli quartieri: la Piazza, la Piazzetta (o Monumento), il quartiere Tuba (o Asilo), Caddari, Calvario, Piliere, Oppidello, Ospedale, Camposanto, Chiesa Vecchia, Orfanotrofio e Nuciari (o Gitatella).

    Nel 1928 era ancora formato dai ruderi caotici della cattedrale, del seminario e dello scomunicato e diroccato palazzaccio dei Grillo. Seguivano quindi, in migliori condizioni, i palazzotti di Domenico Grillo e quello dei Fragomeni: erano i primi costruiti nel nuovo sito ancora sotto l’incubo del terremoto del 1783. Venivano in ordine di tempo i tre palazzi bislunghi che formavano un rettangolo dinanzi al Duomo e altri palazzotti o casone, che, dopo il terremoto del 1908, erano diventate casacce lugubri e pericolose.

    La storia del palazzaccio, scomunicato da un vescovo antico, mi eccitava la fantasia in modo straordinario e mi assorbiva tutte le facoltà per ore ed ore. Mi figuravo il vescovo (secondo quel che narravano i vecchi) quando in una nera mattina, spalancando la finestra per prendere aria e luce, rimase asfissiato da un muro che la notte, per dispetto, i Grillo gli avevano fabbricato a pochi palmi dal naso. Il vescovo allora, furente, entrò in camera sua, si vestì coi paramenti pontificali: la mitria a punta contro il cielo, il pastorale nella sinistra, la destra tesa, la pancia in aria, il viso congestionato e grinzoso da tregenda e lanciò la scomunica, con grugno erto e rabbioso, alla costruzione sorta, quasi per incantesimo, durante la notte.

    Io, nel mio cuore, prendevo le parti del vescovo.

    Quel muro, tuttora lì presente, mi toglieva il respiro, mi asfissiava, cancellando il cielo, come aveva asfissiato il vescovo, l’amaro! Tra l’altro, quel muro aveva dato vita a un vicoletto, che, d’allora, diventò uno dei cessi pubblici del paese e andiamo all’episcopio era diventato sinonimo di andiamo al cesso.

    Ma la scomunica ebbe il suo effetto, mi rallegravo. Il Signore aveva visto. Distrusse quel palazzo e distrusse quella famiglia: ha fatto bene. Però, che delusione, a pensarci; e che disorientamento. Nemmeno l’episcopio esisteva più. Anch’esso era stato distrutto dal terremoto e rimaneva una congerie di mura, che si opprimevano a vicenda, nido di serpi e di chiaviche, che si davano guerra come i Grillo col vescovo.

    Quant’era superbo il palazzo a tre piani, con 365 stanze! La rimessa delle carrozze formava il giorno dei bisestili. Rivestito di marmo dentro e fuori. I servitori col berretto e con le giubbe gallonate. Così dicono i vecchi.

    Le visite al palazzaccio

    Nei morti pomeriggi d’estate, gruppi di bambini, difesi dallo stecconato di fronte, che nascondeva i ruderi e i lavori già in corso della Cattedrale, guidati dai più coraggiosi ed esperti, ci infilavamo nel palazzaccio attraverso una finestra sgangherata a due metri da terra o attraverso una buca dell’enorme portone fradicio.

    Con l’anima sospesa, paurosi del nostro respiro, seguendoci a piccola distanza per non perderci d’occhio, facevamo scale pericolose fatiscenti di sterco o di urina, corridoi in penombra dalle pareti squarciate e dai soffitti sbrindellati, con delle tele di sacco pendenti e lordate di pitture.

    Che impressione strana, quel mondo. Ad ogni angolo, da ogni buco, poteva avventarcisi contro uno scheletro scomunicato. Anche il vescovo, col dito puntato e col viso grinzoso da tregenda, gli occhi da teschio: non era morto anche lui? E forse schiacciato da un muro nel terremoto; non confessato. Forse perché non aveva perdonato, come fa Gesù. Dicono i vecchi: Era un nòcciolo anche lui e non si lasciava posare mosca a naso. Peggio d’un brigante.

    Brrrr! ... Andiamo via, Micarello, Pascalello! Disonesti! Disgraziati! Mala nova che vi venga, andiamo via! Ho paura! Non vengo mai più con voi, figli di puttana!.

    Aspetta, stronzo di merda! Sta’ zitto, brutto ciroso. Dobbiamo trovare la cassaforte, lo sai? Non piangere. Don Fortunato si è arricchito, dopo che l’ha trovata. Pronunziavamo queste ultime parole quasi sottovoce, creandogli intorno un alone di mistero.

    Si continuava allora, sempre con grande trepidazione dei più piccoli, l’esplorazione per trovare la cassaforte e nessuno di noi pensava che, una volta trovata da Don Fortunato, non ci poteva essere più. Ma bastava il pianoforte a coda per farci dimenticare la cassaforte.

    Il più coraggioso apriva e tentava di suonare; ma con le dita non si faceva molto rumore; e via tutti a pugni sulla tastiera. Che fracasso dannato, che rimbombo per le camere morte e piene di frescura. Non mancava mai lo scapestrato spiritoso, che dopo aver scalato il pianoforte, si metteva a ballare coi piedi sulla tastiera, creando davvero un’atmosfera da sabba.

    Gli specchi del mobilio erano enormi, preziosi, veri cristalli. Che strano senso mi faceva, vedere il mio piccolo personcino più rimpicciolito dalla paura e dalla sospensione, con la testa nera nera rannicchiata nella camiciola bianca e con le manine penzoloni all’altezza del petto. I più guappi, che erano sempre i quattordicenni, strappavano dei mattoni dalle pareti sberciate e lesionate e davano con tutta forza sugli specchi, che non si rompevano. Erano cristalli dello spessore di tre dita d’uomo. Qualcuno dei più nerboruti riusciva a scalfirli dopo aver colpito a lungo. Guardavo quegli specchi, dopo il fenomeno, con santo terrore: chissà? la scomunica! Che fossero scomunicati anche gli specchi? E come? La scomunica li rendeva più forti, assolutamente più forti. Fascinoso mistero. Si andava quindi dove si trovavano i libri, già stati buttati alla rinfusa da altri. Libri belli, di carta lucida e bianca, pieni di figure con delle belle donne scollacciate, dalle vesti lunghissime a ruota, dalle pettinature parate sulla nuca; uomini dai baffi chilometrici e dalla scriminatura curiosa, con l’occhio destro nascosto da un ricciolo. Altre figure di donne erano accollatissime, da soffocare. Quelle dei libri rassomigliavano a molte fotografie sparse e calpestate per ogni angolo del palazzo.

    I libri si prendevano e si aprivano, se nessuno li aveva già lordati. Lo stesso avveniva delle fotografie. Trovato il libro, pulito, il ragazzo più spregiudicato vi defecava sopra. Quei libri non ci destavano nessun interesse.

    Una spiritosaggine di Pascalello il Moccuso ci fece ridere tutti. Egli prese da terra una fotografia raffigurante una bellissima donna dalla pettinatura alta, dagli occhioni scuri, dal petto candido, la veste a campana fino ai piedi e un ventaglio aperto di madreperla in mano. Sotto era scritta questa dicitura sbiadita: Donna Carolina Grillo. Il Moccuso, che, ancora a quattordici anni, aveva due perenni candele scolanti dalle narici e che, di tanto in tanto, nettava col dorso della mano e con la manica della giacca, disse con un sorriso ch’era una sudicia smorfia: Ora battezzo Donna Carolina!. Così dicendo, le pisciò in viso, lavando anche la propria mano e ripetendo goffamente certe parole che finivano in s e storpiando per aria segni di croce. Noi tutti ridevamo felici per l’atto galante del Moccuso verso la seducente sconosciuta.

    Le visite al palazzaccio scomunicato finivano sempre col solito allarme, che, per lo più, veniva dato da uno dei più grandi, dopo che s’era annoiato di curiosare: I mali spiriti! urlava e scappava a rotta di collo.

    Gli altri, tutti appresso, gridando o piangendo di spavento, secondo l’età e il coraggio. Qualcuno cadeva e si sbucciava mani e ginocchia; qualche altro si sbrindellava i vestiti. Imprecazioni e bestemmie.

    Come respiravo profondo uscendo a cielo aperto! Guardavo subito alla finestra senza imposte dell’episcopio, distrutto dal terremoto come il palazzaccio, per vedere se da una di esse, occhio orrido d’un mondo di là, spuntasse un cranio mitrato dalle occhiaie vuote e, con lo scheletro della mano, fulminasse scomuniche al bel cielo d’estate, lontano e indifferente, garrulo di rondini in amore.

    Il vitto e l’alloggio

    A parte le case terremotate rimaste all’impiedi, il resto del paese era formato da baracche inglesi, malamente costruite: senza ordine, senza estetica, senza un minimo piano regolatore; addossate le une alle altre, o divise da piccoli vicoli, eterni letamai. Gli abitanti d’una baracca sentivano tutto e, se volevano, vedevano tutto quello che nell’altra si faceva: le baracche, come ho detto, erano addossate l’una all’altra.

    I braccianti, i nullatenenti, i senza arte né parte; gl’impiegati all’ozio pubblico; i misuratori di marciapiedi e contatori dei quadretti (così si chiamavano le mattonelle in paese); gli artigiani, tutti indistintamente disoccupati e famelici, privi di tutto, dall’acqua al sale; i rottami e i reietti del paese; qualche nobiluccio impoverito dalle depravazioni della gola e della carne; i cornuti contenti; le quattro o cinque donnacce pubbliche, refrattarie a tutte le malattie sessuali: tutta questa gente, che la sapienza e la bontà di Dio avevan creato, viveva in quelle baracche, fatte da stranieri protestanti per fare un piacere al papa, il quale si era interessato delle popolazioni terremotate.

    Al contrario di quel tale cardinale, diceva l’Abate Tigna, che non aveva assolutamente voluto dare il suo obolo per i sinistrati calabrosiculi, poiché, secondo lui, la colpa dei terremoti ce l’avevano gli abitanti del luogo, in quanto non facevano grandi buchi per far sfogare la terra con le scorregge.

    A volte in una baracchetta cadente, imputridita e di un solo vano, viveva una numerosa famiglia. E, si sa, il corpo non solo mangia, lavora e dorme, ma deve fare all’amore e, al momento giusto, senza dilazioni o accondiscendenti proroghe, deve defecare e orinare. Da qui, tanti inconvenienti e aneddoti piacevoli, o disgustosi, o di natura impensata.

    Una sera, la famiglia del Piciàro era a letto già da un’ora: sette in un vano, fra cui una figlia di sedici anni. Il padre, credendo tutti i figli addormentati, accostò la moglie, la quale attendeva con desiderio. Costei, donna calda e prolifica come una coniglia, al momento culminante dell’amore cominciò a gemere come una creatura in angoscia. La figlia, non ancora addormentata (forse pensava a Turi, che cantava per lei ore intere alla vigna), si terrorizzò, sentendo gemere la mamma e gridò: Padre, padre, la mamma ’nguscìja!. Dormi e lasciala fottere! rispose il padre incazzato.

    Uno dei guai per quei dannati era il cibo bestiale con cui si nutrivano. I coloni, da un anno all’altro, mangiavano fagioli rossi, che per essere digeriti avevano bisogno d’una macina da mulino. Ai fagioli si univano le zùhe, la verdura più insipida e più stupida; la più abbondante del luogo in ogni tempo, perché nasce sola e dovunque; verdura che, anche dopo aver bollito nello stagnato per lungo tempo, è così rude che punge il palato e la lingua. Abbiamo mangiato trifaluni e fagioli, si diceva; i trifaluni sono siepi terribili e grandi, coprono intere forre e sono nido di serpi, ramarri, lucertole, topi di campagna e donnole. Oltre ai fagioli, chiamati carne del povero, chi poteva, si nutriva, secondo le stagioni, di cavoli, pomodori in insalata, patate bollite senza olio e senza sale; vajanelle, cioè fagiolini verdi, sempre sconditi. Quanti e quanti si lamentavano spesso: Oggi abbiamo mangiato due vajanelle e patate senz’olio e poco sale!.

    C’era la carità dei piccoli contadini possidenti e invidiati; ma la carità non risolveva il problema. Quanta carità faceva la nonna paterna e il babbo; ma, diceva la nonna, afflitta per le atroci sofferenze della povera gente:

    Tu ti disfai,

    e il prossimo non lo fai!

    Nell’inverno la gente si nutriva dei soliti fagioli secchi, di castagne infornate, o marronate, o bollite; di fichi secchi, di lupini salati e di carrube (chi ne poteva avere). Gl’intestini di quella gente si trasformavano in officine vulcaniche, con conseguenti orripilanti detonazioni. La sparatoria si sentiva da baracca a baracca.

    Queste evenienze naturali, come le chiama la filosofia scolastica, erano proibite a donne e bambini; ma il capo famiglia e i maschi adulti se ne facevano un vanto, come di bravate, e una necessità: si può morire, dicevano; può venire l’appendicite; ma non ammettevano che per le donne ci fosse lo stesso bisogno e pericolo. Anche una meretrice, quando si permetteva questo sfogo, perdeva i clienti. Sull’argomento si facevano perfino delle scommesse e per lo stesso motivo si commisero omicidi.

    Sera per sera, si potevano sentire dialoghi di questo genere, tra una baracca e l’altra. Come inizio un formidabile peto all’unisono con un feroce rutto. Il capo famiglia dell’addossata baracca, se era di buon umore, rispondeva: Salute!. E l’autore di rincalzo: Per cent’anni pure a voi!. Oppure, se gli umori erano tetri, o non correva buon sangue fra i due, al peto, secco o raschioso, si sentiva controbattere: La noce del collo, coppola santissima!. E l’altro, contrariato, ma con brio: Che vi spacchi a due pezzi, santo ceravolo!

    Oppure, chi sentiva, teneva bordone al tonante con questa imprecazione: Che fosse l’ultimo, Madonna mia! A cui l’altro: Domani dormirebbe lo zappone, santo diavolo! Verrei all’accompagnamento e vi porterei la corona fino al camposanto.

    Ho accennato che per il motivo scorregge si commisero anche omicidi e si facevano delle clamorose scommesse. Una volta, mastro Nato Sciola, calzolaio tutto pancia, su cui si muoveva uno zuccone lucidissimo con due occhi da coccodrillo piangente, affermò di essere capace di spegnere, con una scorreggia, un lume ad acetilene, attraverso i pantaloni di tela da soldato.

    Era d’estate e coi coloni vicini di baracca, dietro la Chiesa di S. Giuseppe, si meriggiava all’ombra. Le donne e le ragazze del calzolaio e degli altri, coprendosi il viso e ridendo acuto, a scatti isterici, uscivano in questi amichevoli voti: Che aveste una mala nova, porco disgraziato. Che vi bruciassero vivo con l’ogliopetrolio!

    Uno dei coloni accettò la scommessa, mettendo in palio un chilo di stocco da farsi con le patate in brodo rosso e con pepi di rama brucenti; a bagnare il tutto, due litri di vino, che spaccava le pietre. Incredibile! Il peto spense il lume ad acetilene, passando irrefrenabile per la tela da soldato, mastro Nato vinse la scommessa e la scialata si fece per tutti.

    Un ennesimo inconveniente delle vecchie baracche

    Uno dei principali inconvenienti delle baracche già sconnesse era quello di lasciar vedere, attraverso le fessure molti segreti gustosissimi e piccanti. Di questi segreti, specialmente notturni, s’era fatto incettatore Rocco, un mio compagno di scuola, superiore a me di quattro anni. Intelligente e dinamico, dalla scrittura bellissima, nemico mortale di banchi, libri, penne e maestri. Furbissimo e prepotente, ma generoso.

    Era nato camorrista; ma, per desiderio di vita libera nella fanciullezza e per aver perduto il padre, carbonizzato dalla corrente nella centrale elettrica, all’età di leva dovette arruolarsi nell’arma dei fratelli Branca. Egli era di una esasperata e precocissima sensualità. Prestissimo aveva avuto avventure con ragazze e donnacce, divenendo iniziatore alle pratiche sessuali dei compagni più piccoli e più grandi di lui, che nelle conventicole lo ascoltavano rapiti.

    Una sera, mentre vagavo solitario per la Piazzetta, al cui centro sfida il cielo un fante in pieno assetto di guerra, mi chiamò. Guardandomi con occhi amichevolmente storti e ironici, mi sussurrò all’orecchio:

    Quello che vedi

    e quello che senti,

    faddella cacata,

    non dire niente!

    Perché? gli risposi con sfida, sicuro di non aver tradito nessun segreto. No! continuò. Bocca chiusa, per quello che ti dico!. Dimmi, finsi contrariato: ero assetato di sapere.

    Conoscevo quali erano i suoi segreti: m’aveva rivelato tante cose sul dolce mistero che le ragazze nascondono fra gl’inguini. Ero sicuro che l’argomento versava lì.

    Senti, continuò sottovoce, benché nessuno fosse vicino a sentirci, oggi s’è maritata la figlia di Ciccio Strunso. Questa sera io vado, vuoi venire?. , risposi, nascondendo che avevo capito tutto. Ma rimarrai fino a tardi?. Certo, rincalzai, convintissimo ormai della dolce e ansiosa conclusione. Allora, saltò e piroettò egli, glielo dobbiamo vedere! Glielo vedremo!. E si vede?, ansimai con la parola rotta dall’emozione.

    Calura tua! commentò egli, con voce di drago, scherzosamente: Come ti luccicano gli occhi. Come ti viene l’acquolina! Certo, che si vede! asserì sottovoce, serio e con gli occhi astuti. Tutto si vede. Ho fatto le prove. Allora verrò! esultai fregandomi le mani.

    Andammo agli ziti. Mangiammo necatole, confetti di farina; paste tutte zucchero che sapevano di olio di ricino; un solo confetto con mandorla e un bicchiere di rosolio, fatto in casa, che scorticava l’ugula.

    Giuda. Veri Giuda ci sentivamo io e Rocco, guardandoci negli occhi. Mangiavamo e covavamo il tradimento, bevendoci gli occhi della sposa, pieni d’umidore sensuale. Già la spogliavamo con la fantasia, con calma e violenza, liberandola degli indumenti ad uno ad uno.

    Allora pochissime usavano le mutandine: si contavano sulle dita della mano. Anni più addietro, nemmeno la sorella del deputato Zerbi. Difatti quando era caduta a gambe per aria dalla mula nella discesa dell’Acquavona, il mulattiere aveva visto tutto il paradiso. E avendo domandato al mulattiere, la nobile fanciulla, se avesse visto qualcosa, s’intese rispondere con irruente sincerità: E che sono, orbo?.

    Uscimmo dagli sposini prima degli altri e ci allontanammo nell’ombra, tra le palizzate di Oppitello e i nuclei delle baracche.

    Dagli sposi si ballava. Era povera gente. Gli uomini, ballando, sudavano come cinghiali inseguiti dai cani. Più d’uno, col muffo di seta al collo, i baffetti ispidi, gli occhi lucidi e fissi, e la pampina dei capelli dondolante a destra, mentre ballava, attuava virtuosismi di scherma rustica, insoddisfatto di non avere scusa di estrarre il coltello e farsi una vera tirata a sangue, lì, davanti a tutti.

    Il vino che faceva spìsii, l’aver mangiato carne di castrato e maccheroni di casa; l’agitazione e l’accaloramento nel ballo; l’ambiente stretto e arroventato, benché si fosse in dicembre: tutto contribuiva all’euforia. Verso le nove e mezzo, come sempre, si cominciò ad accennare alla stanchezza della sposa.

    La sposina non era affatto stanca: bella e forte come un giovane ulivo e abituata anche a zappare. Ma, si sa, l’ansia dello svelamento del mistero dell’amore è fortissima, specie per chi deve arrivare al matrimonio per gustare quelle dolcezze. Sicché, alle dieci, tutti erano andati via: anche i genitori degli sposini, dopo averli benedetti e abbracciati, augurando pace, salute, provvidenza grande e figli buoni e santi. Lacrime di ansia e di confusi timori della mamma e della figlia sposa.

    Prima guardo io! disse Rocco. , risposi soffocato da un intoppo di saliva. Rocco era con l’occhio alla fessura, quando sentimmo cantare dentro la baracca:

    E li peli tengo io,

    e li peli tenete voi:

    stanotte mi sognai

    che peli con peli mi fregai!

    Io e Rocco ci guardammo, ridendo con gesti muti. Era lo sposino che iniziava ai misteri di Venere il suo bene, mentre si denudava e la invitava a fare altrettanto. Ridacchiò lei, squittendo quasi triste, come una passera affascinata dal serpe. Rocco si voltò e mi sussurrò all’orecchio: Non si vuole spogliare, mannaggia! e bestemmiò gli Apostoli. Se ne accorgono, fiatai.

    Rocco scrollò le spalle e si mise all’osservazione. Subito rilasciò la fessura e, agitando le mani tremanti, mi rivelò all’orecchio: La sta spogliando lui... lei non vuole: ‘fa che fa,’ la puttana!

    Intanto lo sposino riattaccò a canticchiare:

    Il re della Sardegna,

    la regina Tripolitana:

    se il re non ha la perna

    la regina manco lana!

    Qui rise forte, la sposina, con la gola, col ventre, con l’utero. Rocco mi fece vedere, lasciandomi la fessura tutta per me e andando ad un’altra che conosceva già. O dolcezza! La sposina era nuda, riversa, con le natiche alle sponde del letto. L’uomo le succhiava la bocca, stringendole, con la mano destra, la mammella del cuore. Era seduto sulla sponda del letto anche lui.

    Oh, fanciulla nuda! Si alzava, si sdraiava, ridendo felice e respingendo vezzosa, agognata, gli assalti di lui. Che mammelle bianche, erte! I capezzoli, due fragole rosa su due palloncini di neve! Fra gl’inguini, peli neri! Quel nero lucido di seta, fra le cosce bianche. Bianca nelle carni, nel ventre, nel bacino posteriore; una statua viva d’avorio. Il viso, come una mela rosa, abbronzato dal sole. Ooh! Più bella ora, coi capelli calati, discinta, agitata! E lui la baciava, ora succhiandole la bocca ed ora la mammella. La esplorava, la carezzava con le mani dovunque; le faceva cose che non avrei mai sognato e che mi facevano rabbrividire di desiderio.

    Che rabbia, quando me la nascondeva. Ma lei gli diede uno

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