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Il figlio della colpa
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E-book183 pagine2 ore

Il figlio della colpa

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Info su questo ebook

Una suora alle prese con un trauma terribile, un sacerdote sensibile, una segretaria-detective assillata da un dubbio inquietante. Quando padre Giuseppe Lo Giudice, negli anni Ottanta del secolo scorso, decide di pubblicare un romanzo-denuncia ispirato a una storia vera, non immagina certo di poter incorrere in guai seri, che possano addirittura mettere a rischio la propria vita. La vicenda di Agnese, appresa nel segreto del confessionale, l'ha turbato e commosso. La monaca è riuscita a trasfigurare una brutale violenza nella più intensa delle gioie, e ciò per il monsignore è un segno della Provvidenza, da scrutare con libertà di spirito e senza pregiudizi. Ma evidentemente non è ancora giunta l'ora di spalancare finestre e fare entrare aria nuova. Sesso, violenza, maternità impreviste e doppia morale sull'aborto erano e restano temi-tabù tra le sacre mura. Ieri come oggi, in questi tempi agitati per la Chiesa. Fabrizio Peronaci, con un'indagine-thriller che è anche viaggio sentimentale nella memoria, viene a capo di un giallo ambientato tra i conventi di una Sicilia riarsa e la Roma del potere curiale, centrando tre obiettivi: strappare all'oblio il libro finito "al rogo", smascherare omertà e ipocrisie ecclesiastiche, ma soprattutto regalarci pagine memorabili di palpitante tenerezza.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835825005
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    Il figlio della colpa - Fabrizio Peronaci

    IL FIGLIO DELLA COLPA

    di Fabrizio Peronaci  

    Prima edizione: dicembre 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 ©BERTONI EDITORE 

    Via G. Di Vittorio, 104 - 06073 Chiugiana (Perugia)  

                  BertoniEditore 

    www.bertonieditore.com 

    info@bertonieditore.com  

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata

    Fabrizio Peronaci

    IL FIGLIO  DELLA COLPA 

    La storia vera di uno stupro 

    e di una monaca ribelle 

    "Dio, dove sei?... L’incertezza e il dubbio

     possono coabitare con la fede"

             Enzo Bianchi

    ... è eterno anche un minuto / ogni bacio ricevuto / dalla gente che ho amato...

    Lucio Dalla

    Prologo

    Anni Cinquanta, Sicilia. Nell’aria arsa e salmastra di una spiaggia della costa orientale, mentre vigilava sui bagni e sulla rettitudine di un gruppo di collegiali, una giovane suora fu attirata in trappola. Si era avvicinata a un comitiva di bellimbusti distesi sguaiatamente sulla sabbia, per invitarli a non importunare le ragazze, e loro le avevano puntato addosso sguardi cattivi. I lineamenti delicati del viso e le gambe nude fin sopra al ginocchio avevano acceso impulsi rapaci. 

    Violenza brutale, impunita. Quello stupro di gruppo consumato in pieno giorno, sotto gli occhi di molti, non valse neanche un trafiletto sui giornali, nell’Italia bigotta e misogina del dopoguerra che da un lato santificava Maria Goretti, rimasta pura al prezzo della vita, e dall’altro derubricava la violenza carnale a delitto minore, contro moralità e buon costume. La monaca si ritrovò con il corpo dolorante e pesto. Sangue sulle cosce, fitte nell’anima. Trovò però la forza di parlarne con il suo confessore, sacerdote illuminato e sensibile, e dal loro sodalizio iniziò la rinascita, poi fortificata dalla potenza di una fede incrollabile.

    Io no, per indole e scelta dubito. Non sono bastati un paio di sacramenti e un tirocinio da chierichetto nell’istituto di Gesù Eucaristico a liberarmi dell’idea che la religiosità più schietta vada cercata non tanto nella dottrina e nel solco di una millenaria devozione, ma nell’incontro con le persone, il dolore, la caducità delle cose, la natura e l’altro da sé, la passione e lo sdegno civile, la vertigine del mistero. L’affidamento a un’energia superiore, tuttavia, non smette di esercitare un richiamo. E personaggi come Agnese e il monsignore lasciano filtrare una lama di luce, un pulviscolo fluorescente dalla porta malchiusa...

    Nella galleria delle grandi monache la nostra suora si ritaglia un posto speciale. Dalla Piccarda dantesca che, strappata alle amate clarisse, guidò il poeta in paradiso, mutuò grazia di Dio e misericordia. Lei, orfana da bambina come la capinera verghiana, di certo detestò la vanità e l’aspirazione al comando di Gertrude, anche se, forse, la vitalità degli istinti le fece sentire più amica la monaca di Monza. Era candida, ingenua. Ma si rivelò non meno rivoluzionaria di Susanna, la monaca innamorata scelta da Diderot per dare un volto al j’accuse illuminista contro il clero. 

    Omertà e copertura del reo di crimini sessuali: questo ci racconta la prassi perpetuata dentro le sacre mura, che oggi un pontefice venuto dalla fine del mondo vorrebbe finalmente spazzar via. S’è dovuto attendere l’ultimo lustro del secondo millennio per leggere uno sconvolgente rapporto della Caritas Internationalis sul fenomeno degli aborti coatti: migliaia di monache prestate da madri badesse compiacenti a ministri di Dio smaniosi e poco pratici al momento del coito. Fenomeno diffuso, incoraggiato dalla cospirazione del silenzio e dall’inerme rassegnazione delle vittime.

    Fu l’amico sacerdote a impedire la damnatio memoriae, attingendo alla sua vena di narratore. Trasferitosi a Roma, il trascorrere del tempo non riusciva a scolorare i ricordi. Le domande sospese continuavano a tormentarlo. Che fine aveva fatto la sua protetta? Fu un azzardo assecondarne i desideri? Potremo, un domani, rivederci? Sessanta, Settanta… I decenni passavano, gli impegni pastorali si moltiplicavano, gli studi teologici progredivano e la storia della dolce suorina, ogni giorno di più, gli pareva una cartina di tornasole della capacità di rinnovamento della Chiesa post-conciliare. Sarebbe stato bello raccontarla, farla conoscere, una vicenda umana tanto emblematica… 

    Il momento più atteso giunge in età matura. È al traguardo della sessantina che il legame tra la monaca e l’ormai illustre prelato rinasce, sotto forma diversa.

    Un libro!

    L’anno è il 1983, lo stesso in cui la scomparsa di una giovane cittadina vaticana accende i riflettori sulle opacità della Chiesa mondana. Il titolo sarà un pugno allo stomaco, se la ride monsignore, ma chi potrà contestarlo? La Chiesa missionaria delle origini, riflette, risorgerà grazie all’autenticità di una testimonianza. Durante la stesura in bozze, però, accade qualcosa. Il libro dato alle stampe si rivelerà diverso dal manoscritto: è stato edulcorato, cassato in più parti. E in tal modo la storia di una monaca violentata (forse ancora in vita, una vecchina quasi centenaria), del suo grande e unico amore (un sessantenne che chissà con quale stato d’animo leggerà queste pagine) e di un prete buono e sognatore finisce per diventare il memoriale di una censura.

    Nei primi anni Ottanta del Millenovecento, nei mesi in cui Italia e Santa Sede discutevano il nuovo Concordato, Torquemada era tra noi. L’opera di un ecclesiastico di primo piano fu stravolta nei contenuti, tramite un’operazione subdola, di cui non è stato mai individuato il mandante, così come, mutatis mutandis, cinque secoli addietro alte cataste peccaminose erano state date alle fiamme da Girolamo Savonarola a Firenze e, giusto mezzo secolo prima, pire di testi ebraici avevano illuminato di sinistri bagliori la notte della Bebelplatz di Berlino.

    Ma adesso, evviva!, quel volume è qui, un libro nel libro.

    Quando me lo sono trovato tra le mani, nel silenzio incantato di un convento nel cuore di Roma, l’emozione è stata fortissima. Mi sono sentito un po’ come quel frate-investigatore de Il nome della rosa entrato in possesso, dopo memorabili peripezie, dell’ultima copia della Poetica di Aristotele, rintracciata nella biblioteca-labirinto un momento prima che il fuoco inghiottisse l’abbazia. Ho temuto che anch’io, sorpreso a sfogliare un testo proibito, potessi restare vittima di un incidente… E in quell’istante, mentre un’occhiuta monaca mi veniva incontro, ho deciso. Il libro di monsignore meritava di ritrovare i vecchi lettori e di conquistarne di nuovi, perché di questo la Chiesa ha bisogno, aprire le porte e lasciare entrare aria fresca, confrontarsi e contraddirsi, misurarsi con il sonno dogmatico, sapere ad esempio se Agnese è felice, oppure si è pentita, o se il peso del pregiudizio ha prevalso sul coraggio di amare.

    Solo una persona è stata testimone diretta di questa vicenda ambientata tra Scilla, Cariddi e la Roma curiale. È una donna, la segretaria di monsignore. Lei, quel sacerdote dallo sguardo timido e un’unica debolezza, la buona cucina, lo ha conosciuto bene. Per mesi hanno lavorato fianco a fianco. Ha diviso con lui la fatica dello scrivere, l’esaltazione dell’attimo creativo e l’amarezza della censura. Aveva poco più di vent’anni, quando visse quell’esperienza indimenticabile. Ora, dopo sofferta meditazione, ha deciso di uscire allo scoperto. L’autore di questo volume, che ha intrattenuto con lei un emozionante carteggio, le è profondamente grato. Ciò che segue è quindi anche la storia di una nuova amicizia. Il contatto si stabilì una sera di fine inverno. Ero al giornale e sobbalzai sulla scrivania, catapultato nella nuova avventura…

    Parte prima

    IL CONTATTO

    Ci sono giornate in cui il clima in redazione è sonnolento, e te ne stai apatico e indolente, la testa reclinata all’indietro sulla poltroncina, piedi accavallati sul tavolo e sguardo obliquo al computer. Questa storia di sesso, violenza e oscurantismo è cominciata così, con una scossa improvvisa. Se quel messaggio non fosse giunto a destinazione, nessuno avrebbe mai saputo della suora stuprata e del libro che parlava di lei e della censura imposta da altolocati ambienti di Santa Romana Chiesa, perché il titolo, eminenza, si rende conto?, si fa fatica persino a pronunciarlo, lei immagina cosa accadrebbe se cominciasse a circolare nelle case, nelle parrocchie? E dunque erano le venti cinque minuti e trenta secondi del 10 marzo 2015, quando questa storia di amore e dignità riconquistata ebbe inizio…

    Una spia lampeggia sul pc. È l’avviso di un post in arrivo sul più noto dei social network. Uno tra i tanti, le centinaia al giorno in questi tempi di comunicazione nevrotizzata. Il mittente non parla lo slang arrotondato di Quantico, in Virginia. Non ha contatti con ufficiali dei servizi segreti o con loro equivoci scagnozzi. Non è appostato in un parcheggio sotterraneo, come lo era la Gola profonda del Watergate quando telefonava al Washington Post. Non dirà, anche se mi guarderei bene dal contraddirlo: io non amo la stampa, non ho simpatia per la superficialità. Ma dimostrerà un discreto coraggio e un’ottima memoria.

    Impugno il mouse rapidamente, in preda al solito soprassalto di curiosità e furore. Non c’è niente da fare: i cronisti di nera, abituati come sono a misurarsi con la tragedia degli uomini, la notizia la annusano, la captano un attimo prima. I loro sensori sono stabilmente sintonizzati sui disastri, le sventure, la fatica di vivere. Clicco. Si apre la finestrella con alcune righe di testo. Strabuzzo gli occhi, ancora troppo distante dal video, e mi pare di scorgere il nome di una personalità importante… Raddrizzo la poltroncina, scatto in avanti. Per effetto del contraccolpo, finisco con il viso quasi incollato allo schermo.

    Leggo. Ciao, voglio dirti che papa Ratzinger ha dovuto dimettersi per storie di pedofilia, che riguardavano lui e qualcuno della sua famiglia. Non ne sono sicura, però credo che abbia un fratello prete coinvolto. Non ho fatto ricerche personali. Ma la persona che mi ha parlato di questo è attendibile.

    Diamine, rifletto. È vero che una voce del genere era circolata un paio d’anni fa, all’epoca dell’inatteso abbandono di Benedetto XVI, il primo caso dopo Celestino V, colui che fece per viltade il gran rifiuto, ma l’indiscrezione non aveva avuto seguito. Era stata derubricata a leggenda del web, una delle tante alimentate da mestatori senza scrupoli. Rileggo. La tipa va giù piatta, sostiene di avere notizie di prima mano. Prevale la curiosità. Nome: quattro lettere. Cognome: otto. Sul profilo a lei intestato c’è la foto di una bella donna, lunghi capelli biondi, occhi chiari velati di malinconia. Lavora presso me stesso e Giornalista. Ha studiato presso Lettere e filosofia. Interessante, deduco: deve essere una collega. Torno ad afferrare il mouse. Le dita volano sulla tastiera.

    Ciao, quel che scrivi è grave, se dimostrabile. Dimmi... Conosci qualcuno in ambienti ecclesiastici? Premo il tasto di invio. A braccia conserte, attendo. La risposta illumina lo schermo una frazione prima che abbia terminato di indovinarla.

    Sì, conosco una persona che lavorava in Vaticano.

    ?

    Il nome non posso dirtelo.

    Allora dammi qualche elemento, verificabile. L’argomento è delicato.

    Non ora, non qui. Però è di altro che volevo parlarti. Un caso che ho vissuto personalmente.

    ?

    Può succedere, penso. Alle otto della sera, quando il giornale deve essere chiuso in tipografia e i tempi si fanno maledettamente ristretti, si è materializzata la solita mitomane. Oppure una lettrice alle prese con un guaio, un accidente, un problema da risolvere, che cerca un contatto con un giornalista e tenta di catturare la sua attenzione.

    Me ne vengono in mente, di storie vissute, di incontri speciali nati in modo fortuito. Uno su tutti. Quella volta che, poco più che ragazzo, da poco assunto nel primo quotidiano cittadino, intervistai una giovane occupante di un locale ai ponti, così veniva chiamato il quartiere più degradato di Roma, all’estrema periferia sud. Arrivai laggiù in sella alla Vespa, con il taccuino e la penna nella tasca di dietro dei jeans. Mi inquietai non poco per i colpi sordi, simili a revolverate, che rimbombavamo nell’androne. Bussai alla porta mezzo sfondata. La donna che aprì mi fece sedere su una branda e parlò a lungo, tesa, gli occhi lucidi. Mi raccontò che, per non crescerli nella violenza, nella puzza di piscio, in quei corridoi malfamati popolati da ladri, spacciatori e assassini, aveva deciso di strapparli da sé, i suoi due adorati figli, di chiuderli in un collegio, e che la loro assenza la faceva morire, piangeva tutte le notti di solitudine e nostalgia, e non sapeva che fare, e chiedeva consiglio, e alla fine non riuscì a controllarsi e mi abbracciò forte tra i singhiozzi. Li amo ma qui non li voglio, fu il titolo scelto dal caporedattore, che guardai ammirato per la capacità di sintesi. Erano i tempi in cui lavorare in una cronaca cittadina suscitava sentimenti, entusiasmi. La mattina in cui il giornale andò in edicola una signora generosa telefonò in redazione, comunicando che aveva deciso di offrire la sua seconda casa, in Umbria, alla mamma e ai bambini, perché le famiglie sono fatte per essere unite, mica per vivere a spizzichi e bocconi, disse proprio così.

    E me ne sovviene un altro, di volto. Quello del nonno di tre bambini che un delinquente incallito, giunto all’ultimo stadio del disamore, aveva ucciso per vendicarsi della moglie, dopo la richiesta di separazione. Li aveva chiusi in macchina facendo finta di organizzare un gioco, aveva infilato un tubo nel finestrino, acceso il motore e li aveva visti morire uno ad uno. Poi, li aveva sotterrati in cima a un tratturo della bassa Maremma, dove io ero andato il giorno prima, grazie alla segnalazione di una fonte confidenziale, e avevo notato una scarpetta da femminuccia ai margini di un campo... Ero troppo giovane, però. Non ancora contaminato dalla ferocia insulsa del mondo. Non seppi quindi razionalizzare la verità più semplice e terrificante, che i corpicini fossero già lì, dieci centimetri sotto la terra smossa, come fu annunciato ai mass media la mattina seguente, quella del mio mancato scoop mondiale, in un’orda di gazzelle, volanti, georadar, telecamere, pulmini con la parabola satellitare, conduttrici che si davano l’ultimo colpo di fard, curiosi, sciacalli, parenti annichiliti. Ricordo la mamma, Stefania, che, quando le fu data conferma

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