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La pergamena dei cavalieri
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E-book283 pagine3 ore

La pergamena dei cavalieri

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Info su questo ebook

ROMA, NOVEMBRE 1593.
“Beato chi legge, e beati coloro ch’ascoltano le parole di questa profezia, e servano le cose che in essa sono scritte: percioché il tempo è vicino.”
Sono queste le parole che turbano i pensieri di fra Lorenzo Donati, dopo averle rinvenute in un antico manoscritto ben celato all’interno di un misterioso baule rivestito da lastre in argento...
SCOZIA, LUGLIO 1944.
Solomon Crawford lascia la Scozia in tutta fretta alla volta dell’Italia, dopo aver ricevuto una lettera inaspettata in cui l’amico, Paolo Donati, gli chiede accoratamente di raggiungerlo a Roma per fargli dono di quel vecchio baule che gli piaceva tanto...
REGNO UNITO, OGGI.
Dopo la prematura morte di Edward McLaughlin, Alexander Crawford e Sienna McLaughlin, per salvare il mondo, sono costretti a fuggire da un misterioso assassino in cerca del contenuto del baule che Solomon aveva ricevuto in dono circa sessanta anni prima...
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2020
ISBN9788867934430
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    Anteprima del libro

    La pergamena dei cavalieri - Elena Bianchi

    2019

    Elena Bianchi

    LA PERGAMENA

    DEI CAVALIERI

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    PREFAZIONE

    di Veronica Lombardi

    Ogni profezia viene da lontano

    Beato chi legge, e beati coloro ch’ascoltano le parole di questa profezia, e servano le cose che in essa sono scritte: percioché il tempo è vicino.

    Le parole dell’Apocalisse di Giovanni ritornano fra le pagine di questo romanzo con la ritmica cadenza di un refrain, un ritornello di morte – un mantra, una formula magica – ad annunciare l’avvento imminente della fine. L’occhio fedele di fra Lorenzo Donati le percorre con la rapidità di chi sa che la loro sopravvivenza clandestina cela un fondo di verità: è il 1593 e le condanne al rogo sono all’ordine del giorno. A Roma il fuoco purificatore della Santa Inquisizione è un falò che brucia senza sosta, costantemente nutrito dalle carte impure dei libri infedeli.

    Il pogrom delle eresie, però, estirpa la scrittura, non la parola: se è vero che, come sostenevano i latini, verba volant, scripta manent, il pensiero può sgravarsi della materialità di una pergamena arsa e, come fenice, risorgere infaticabilmente quattro secoli più tardi.

    È il luglio del 1944. Solomon Crawford lascia la Scozia in tutta fretta alla volta dell’Italia, dopo aver ricevuto una lettera inaspettata.

    Sono passati più di settant’anni dalla partenza di Solomon per l’Italia, quando Alexander Crawford mette piede nel grande salone della villa di Edward McLaughlin, nell’Hampshire, a pochi giorni dalla sua misteriosa scomparsa. Un profumo di donna nell’aria – lo riconosce, è Chanel N° 5 – evoca in lui sottili corrispondenze con un passato che credeva di aver dimenticato. Poi, nell’istante in cui i loro occhi si incrociano, avverte il meccanismo del destino scattare all’improvviso, i sentieri interrotti della sua infanzia ricongiungersi con il presente. Capisce che quel destino porta il nome di Sienna, la nipote di Edward, l’erede della sua maledizione.

    Lungo l’asse Italia-Regno Unito, inizia così a delinearsi una nuova geografia temporale, una cartografia simbolica che trascende i confini fisici dello spazio e riversa il carico profetico di cui è depositaria sul piano di una temporalità stratificata, palinsesto dei secoli trascorsi e insieme coagulo di quelli a venire.

    Dopo Il segreto della miniera (2017), Elena Bianchi ritorna con La pergamena dei Cavalieri per raccontarci di una profezia che viene da lontano, di una parola che cavalca le dune della Storia millenaria rimbalzando, in ecolalia, da un’epoca all’altra, lungo la staffetta del tempo – è la parola che partecipa del tempo biblico, il non-tempo della narrazione mitica e primigenia, che affonda nella notte dei tempi, nella dimensione dell’eterno.

    Dagli albori oscurantistici del buio medievale all’inquietudine esoterica del tempo presente, La pergamena dei Cavalieri ripercorre la mitologia apostolica di una storia leggendaria, riconfigurandola alla luce del più moderno romanzo d’avventura.

    La ricerca dell’oggetto perduto – che sia l’arca per Indiana Jones, o, ancora più indietro, il senno sulla luna per Astolfo dell’Orlando furioso, o, come in questo caso, un’antica pergamena – rappresenta l’innesco narrativo tipico proprio del romanzo d’avventura, che qui si assottiglia al punto da ridursi alle criptiche parole di un frammento apocrifo. Prende così vita quell’inesausta corsa contro il tempo e il suo decorso dentro i labirintici itinerari del mondo di sopra e del mondo di sotto (riprodotto nella dimensione fantasmagorica della città vecchia), che è, contemporaneamente, inseguimento e fuga, corsa al palio e scampo da una morte certa.

    L’allegoria biblica dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse, che ha infervorato la fantasia escatologica di pittori, romanzieri, cineasti – da Albrecht Dürer a Vicente Blasco Ibáñez fino a Ingmar Bergman –, qui si libera degli eccessi di spiritualismo religioso che hanno attraversato tradizioni letterarie secolari improntate su ansie di palingenesi personali e desiderio di riscatto universale, per inseguire piuttosto le strutture narrative della detective story e del noir, fino a sfiorare alcuni meccanismi tipici del thriller psicologico. È la pergamena, e il suo contenuto, la vera protagonista del romanzo; nella decifrazione del suo messaggio consiste, invece, l’intero svolgimento.

    Lungo le strade di Edimburgo, fra Mary King’s Close e Grassmarket Square, percorrendo tutto il Regno Unito fino alle contee meridionali dell’Hampshire, in parallelo alla spazialità fisica pura si articola una geografia dei luoghi della memoria personale, un paesaggio interiore che mira alla ricostruzione di un passato sepolto e al suo disvelamento: ecco che allora, accanto alla recherche ordinaria, ne emerge una seconda, meno immediata, che guarda al recupero di un’infanzia perduta, occultata sotto strati di false verità e taciti segreti.

    L’atto della rivelazione – significato greco riposto nella parola apocalisse – non solo rappresenta la profezia di un futuro imminente quanto universale, ma è anche lo smascheramento di un passato personale, intimo, alterato: la Storia umana e la storia individuale coincidono. Il restauro filologico della pergamena trascritta in una lingua che non si lascia decifrare se non dal prescelto diventa infatti metafora del ripristino della propria memoria; e la memoria è una narrazione del passato che può, come ogni forma di racconto, essere falsificata e ricostruita a proprio piacimento.

    Fedeli al loro destino che li vuole con-sorti (dal latino cum-sortis, è chi condivide la stessa sorte), Alexander e Sienna ritroveranno l’uno nell’altra quella parte di sé che è stata loro contraffatta e, nelle loro solitudini reciproche, riscopriranno la possibilità di un’alleanza inattesa.

    Da Roma al Regno Unito, l’ingresso ex abrupto di un tempo ibrido, a cavallo fra il 1944 e il 2019, concorre a scardinare l’assetto spazio-temporale del capitolo d’apertura sull’Inquisizione cinquecentesca, lasciandolo sospeso come un sentiero interrotto, ma solo apparentemente. In realtà, l’eco del Cinquecento ritorna cucito nella sottotrama del presente a condizionarne le cause e gli effetti, lungo un piano narrativo che si svela duplice: non solo quello reale dell’azione scenica ma, al contempo, anche quello impalpabile della coscienza finiscono per sovrapporsi lungo il fil rouge di Arianna (qui, metaforicamente, la voce narrante) nell’articolazione di un labirinto temporale, dove il Minotauro che ruggisce al suo centro è l’incarnazione dei propri spettri e delle proprie paure.

    Veronica Lombardi

    CAPITOLO 1

    Roma,

    Caput mundi

    Novembre 1593

    Sebbene il sole non fosse ancora sorto, fra Lorenzo Donati si stava già aggirando tra gli stretti vicoli di Roma per raggiungere il luogo dell’appuntamento, che gli era stato indicato il giorno precedente, direttamente dal commissario dell’Inquisizione fra Valerio Alfieri.

    La sera prima aveva deciso di trattenersi fino a tardi nel suo piccolo ufficio del Palazzo dell’Inquisizione, con l’intento di espletare quel fastidioso lavoro arretrato che da settimane giaceva sulla sua scrivania.

    Il tempo era trascorso più velocemente di quanto avesse immaginato e, vista l’ora tarda che era sopraggiunta, aveva deciso di far riposare lì le sue stanche membra.

    Giusto qualche minuto!, si era detto, prima di crollare addormentato sopra i libri che ricoprivano completamente il piccolo scrittoio di legno che, sistemato nel centro della stanza, ne occupava gran parte dell’angusto spazio.

    Le ore erano trascorse inesorabili e, al suo risveglio, si rese conto che rischiava di fare tardi all’appuntamento con il commissario dell’Inquisizione.

    Nella piccola toilette, posta vicino alla finestra, si sciacquò velocemente il viso sul quale erano ancora impressi i segni lasciati dai libri che aveva utilizzato come cuscino. Mise in bocca un paio di foglie di menta, dopodiché uscì frettolosamente dall’ufficio.

    Doveva raggiungere il ghetto di Roma in tempo per l’ora stabilita, altrimenti l’Alfieri si sarebbe infuriato con lui e, suscitare la rabbia di quell’uomo era proprio l’ultima cosa che desiderava fare in quel momento.

    Erano ormai trascorsi cinque anni da quando era divenuto un consultore dell’Indice, e mai nessun inquisitore aveva richiesto la sua diretta assistenza prima di quel giorno.

    Il suo lavoro consisteva nel leggere accuratamente tutti i testi che gli venivano consegnati, con lo scopo di accertarsi che non fossero pericolosi per la fede. Non aveva mai preso parte a un’indagine, e non riusciva a comprendere perché quella volta fosse necessaria anche la sua presenza.

    Erano le 6:45 del mattino, il buio della notte si stava diradando e cominciava a cedere il passo ai raggi del sole. Anche se, nonostante non vi fossero nuvole a ostacolarne il passaggio, sicuramente il loro calore non sarebbe stato sufficiente a riscaldare quella gelida giornata.

    Fra Lorenzo aveva appena raggiunto Ponte Sant’Angelo, quando una sferzata di vento freddo lo colpì improvvisamente, facendogli rimpiangere l’accogliente tepore del proprio ufficio.

    L’inquisitore aveva fatto mettere a sua disposizione una carrozza, che lo conducesse fino a Via del Portico d’Ottavia, dove si sarebbero dovuti incontrare. Lorenzo aveva rifiutato la comodità della carrozza, preferendogli una lunga passeggiata fino al luogo designato, solo per avere il piacere di poter osservare i magnifici fregi dei palazzi signorili romani, sebbene adesso non fosse più tanto convinto di aver fatto la scelta giusta.

    Il freddo gli stava facendo rallentare il passo e, come se questo non fosse abbastanza, un tarlo nella testa continuava a distogliere la sua attenzione da quegli splendidi manufatti.

    Perché l’Alfieri aveva richiesto proprio la sua assistenza?

    Tra tanti consultori aveva fatto espressamente il suo nome. Questo aveva destato in lui un fastidioso sospetto al quale, nonostante i molti tentativi, ancora non era riuscito a fornire una valida spiegazione.

    Prima di allora non aveva mai avuto l’occasione di incontrare l’Alfieri faccia a faccia e, sinceramente, non ne aveva mai sentito il desiderio. Quello che aveva sentito dire sul suo conto gli era stato sufficiente per decidere di stargli il più lontano possibile.

    Lorenzo era solo un consultore dell’indice, svolgeva il proprio lavoro con passione e dedizione, ma non conosceva appieno i metodi e gli strumenti utilizzati da un commissario dell’Inquisizione per giungere alle conclusioni che avrebbero determinato se un uomo fosse colpevole di eresia o meno.

    Per quanto ne sapeva lui, generalmente gli inquisitori romani non erano dei fanatici violenti, almeno non quanto lo erano quelli dei Regni vicini.

    Le voci che provenivano dal Regno di Spagna, ad esempio, narravano di un’Inquisizione spietata e terrificante. Tuttavia, in fondo al proprio cuore, lui preferiva immaginarsi il Sant’Uffizio dell’Inquisizione Romana come un tribunale giusto.

    Un tribunale impegnato nel valutare le denunce pervenute con estrema accuratezza prima di decidere se agire contro l’accusato.

    Un tribunale che non seguiva ciecamente le molte denunce anonime, o quelle dichiarazioni che i testimoni non intendevano giurare, fatte solo con lo scopo di poter trarre dei vantaggi dalla loro collaborazione con l’Inquisizione.

    Non era uno stupido, era a conoscenza del fatto che, al pari degli altri Regni, anche a Roma gli inquisitori ricorrevano alla tortura per ottenere delle confessioni da parte dei sospettati.

    Cercava di giustificare quei metodi, pensando che si trattasse di un mezzo per accertare la verità utilizzato solo in quei casi estremi in cui, pur essendo certi della colpevolezza dell’imputato, si disponeva solamente di prove indiziarie.

    Pur disprezzando la tortura, in cuor suo si confortava convincendosi che quello non era utilizzato come mezzo principale per scoprire la verità.

    Ovviamente le persone comuni non condividevano le idee di Lorenzo.

    Anche il più fervente dei cristiani si ritrovava a tremare come una foglia quando un inquisitore bussava alla sua porta.

    Tuttavia, Lorenzo era un frate domenicano con un proprio compito nella grande macchina dell’Inquisizione e, per mettere a tacere la propria coscienza, preferiva immaginare che gli inquisitori romani fossero persone giuste, che agivano in difesa della Chiesa in cui lui stesso credeva fermamente.

    Fra Valerio Alfieri però non rientrava tra quelle persone giuste.

    Secondo le voci, che provenivano dai consultori dell’Indice che avevano avuto a che fare con lui, l’Alfieri non era una persona ligia alle regole. Molto spesso dava adito proprio a quelle denunce alle quali molti altri non avrebbero dato importanza, magari solo perché ne avrebbe avuto un tornaconto personale. E i metodi che utilizzava per ottenere le confessioni erano tutt’altro che semplici indagini.

    Era famoso per la propria intransigenza e, non appena perveniva tra le sue mani una denuncia di eresia nei confronti di qualche ignaro cittadino, agiva d’impulso e con violenza. Senza indugiare su inutili inchieste ed eventuali prove a discarico.

    Si premuniva di far arrestare il sospettato, facendolo rinchiudere nelle prigioni di Sant’Angelo, e sequestrare tutti i suoi beni, nell’attesa che fosse giudicato colpevole.

    Perché quella era sempre stata l’unica sentenza che il tribunale aveva emesso nei confronti delle persone che l’Alfieri aveva fatto arrestare.

    Quelli erano tempi difficili, il solo pettegolezzo su una possibile accusa di eresia nei confronti di qualcuno avrebbe leso in maniera quasi irreparabile alla reputazione del malcapitato. Figuriamoci cosa avrebbe comportato l’essere rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo per mesi.

    Ma all’Alfieri non importavano quei piccoli dettagli, erano minuzie che non toccavano minimamente la sua persona.

    Lui agiva e basta.

    E se riusciva a trarne qualche vantaggio, era anche meglio!

    Fra Lorenzo sapeva che avrebbe dovuto ignorare tutte quelle chiacchiere, per evitare di farsi condizionare lasciando che il proprio giudizio venisse offuscato da dicerie senza fondamento, ma erano così tante e insistenti che non riusciva a non tenerne conto.

    Era già arrivato a Campo de’ Fiori, senza mai smettere di pensare a cosa avesse spinto l’Alfieri a richiedere la sua assistenza.

    Tra l’altro non avrebbe potuto scegliere un giorno peggiore per chiedere di me?!, pensò improvvisamente.

    Suo nipote compiva sei anni e lui gli aveva promesso che sarebbe andato a trovarlo. Adesso non era più tanto certo che sarebbe riuscito a trovarne il tempo.

    Immaginava gli occhi delusi di quel bambino, già fin troppo grande per la sua età, mentre chiedeva alla madre perché lo zio non fosse passato almeno per fargli un saluto veloce.

    Lorenzo era l’unica figura più simile a un padre che avesse mai conosciuto, dato che Giovanni, il vero padre, era morto un paio di mesi prima della sua nascita.

    Giovanni e Lorenzo erano gemelli. I due fratelli erano molto legati tra di loro, anche se avevano intrapreso strade diverse.

    Lorenzo aveva seguito la propria fede ed era diventato un frate domenicano, mentre Giovanni aveva rilevato la bottega da sarto del loro padre.

    Ben presto era divenuto lui stesso un bravo e stimato sarto, la sua attività rendeva bene, ma l’arrivo di un figlio gli aveva messo ansia. Desiderava essere per lui il migliore dei padri. Avrebbe voluto viziarlo e accudirlo come se fosse stato un piccolo principe, senza mai fargli mancare nulla.

    Furono proprio quell’ansia e il desiderio di far vivere una vita agiata al proprio figlio a convincerlo ad accettare la grossa commessa che lo condusse fino a Venezia, con lo scopo di selezionare personalmente il pregiato velluto veneziano che gli occorreva per soddisfare l’ordine.

    Aveva conosciuto sua moglie, Vittoria Bordignon, proprio durante un viaggio a Venezia. Ora si trovava a dover tornare in quella città per far vivere agiatamente il figlio tanto desiderato, che quella stessa donna avrebbe dato alla luce di lì a pochi mesi.

    Già da diverso tempo non gli capitava più di lasciare la città per acquistare nuove e pregiate stoffe. Nei viaggi precedenti aveva conosciuto i proprietari delle botteghe dove preferiva rifornirsi e non solo era riuscito a strappare loro un ottimo prezzo per le stoffe che gli occorrevano, ma era anche riuscito a ottenere che fossero loro stessi a inviargliele ogni volta che lui avesse avuto bisogno di nuova merce.

    Aveva così creato una rete di fornitori fidati, ai quali Giovanni si limitava a inviare una missiva con su indicato ciò che gli occorreva. A loro stava l’onere di reperire e consegnare il materiale richiesto, ricevendo in cambio il compenso pattuito in precedenza.

    Quella commessa, però, era troppo importante e redditizia da lasciare che altri decidessero per lui. Se qualche furbone gli avesse inviato della merce di qualità scadente, non soltanto Giovanni non sarebbe stato pagato per il proprio lavoro, ma si sarebbe anche ritrovato a dover risarcire il cliente per la mancata consegna.

    Vittoria aveva cercato in tutti i modi possibili di dissuadere il marito dall’intraprendere quel viaggio. Era un cammino pericoloso, temeva per la sua incolumità e non voleva che partisse, soprattutto adesso che aspettavano il loro adorato bambino.

    Giovanni non volle sentire ragioni.

    «Quei soldi ci fanno comodo…» le disse. «Potremo comprarci una casa più grande. Magari con un cortile, dove far giocare il piccolo Flavio in tutta tranquillità!» Ovviamente lui non conosceva ancora il sesso del nascituro, ma desiderava così tanto avere un erede maschio che aveva già trovato un nome per lui.

    Alla donna non restò che accettare la volontà del marito. Timorosa per la sua incolumità, lo baciò e gli sussurrò: «Almeno promettimi che farai attenzione!»

    Così, dopo aver chiesto a Lorenzo di prendersi cura della sua famiglia durante il periodo in cui sarebbe stato lontano da casa, Giovanni partì per quel viaggio che non gli avrebbe mai permesso di fare ritorno.

    La comitiva composta di altri quattro commercianti, alla quale si era aggregato per correre meno rischi durante il tragitto, fu assalita da un gruppo di briganti durante la notte.

    Giovanni era di ritorno verso casa, mancavano pochi giorni e avrebbe finalmente riabbracciato i suoi cari, inoltre sarebbe arrivato in tempo per assistere alla nascita di suo figlio.

    Era felice come non mai.

    Tutto era andato bene.

    A Venezia aveva fatto buoni affari, acquistando anche più di quanto avesse realmente bisogno, dopo essere riuscito a strappare un ottimo prezzo per il materiale che gli occorreva. Era soddisfatto e impaziente di riferire le buone notizie alla moglie.

    Quella notte, insieme ai suoi compagni di viaggio, decise di correre il rischio di fermarsi a dormire in aperta campagna.

    Mancava loro solo un giorno di cammino per raggiungere la città, e nessuno era intenzionato a perdere tempo per cercare una locanda che potesse ospitarli.

    Quell’azzardo fu fatale.

    Mentre tutti dormivano, compreso l’uomo che sarebbe dovuto restare di guardia, furono aggrediti da un gruppo di briganti.

    Sovrastati, sia dal numero di persone sia dalle armi che avevano con sé, i commercianti si videro costretti a cedere subito alle minacce degli assalitori.

    Diedero loro tutti i soldi che avevano guadagnato vendendo le proprie merci o, come nel caso di Giovanni, quelli che gli erano rimasti dopo gli acquisti effettuati, sperando di avere salva la vita.

    Non ci fu nessun atto di magnanimità nei loro confronti.

    In breve tempo i loro corpi insanguinati si ritrovarono sdraiati a terra, privi di vita.

    Fra Lorenzo fu devastato dalla notizia della morte di Giovanni.

    La sua fede fu messa a dura prova. La sua anima era combattuta, per qualche tempo pensò anche di abbandonare la carica di frate domenicano, per andare in cerca degli assassini di suo fratello.

    Desiderava vendetta per quel fratello che non c’era più!

    Una stupida idea dettata dall’impulsività e dal dolore, ma non riusciva a darsi pace per la perdita subita.

    Poi nacque Flavio.

    L’amore per quel nipote così piccolo e indifeso fece ritornare la serenità nella sua vita, ravvivando la fede che credeva di aver perso per sempre.

    Decise che si sarebbe preso cura di lui e di Vittoria come meglio avrebbe potuto, mantenendo la parola data a Giovanni prima che partisse.

    Con il passare del tempo si affezionò a quel bambino al punto tale da considerarlo quasi come figlio suo.

    Allo stesso modo fra Lorenzo divenne una figura importante per Flavio e per Vittoria. Era sempre presente quando avevano bisogno di lui, e quel giorno avrebbe preferito trascorrerlo in loro compagnia, anziché assecondare la volontà dell’Alfieri.

    Era ancora assorto nei propri pensieri, quando una voce fastidiosa lo riportò al presente, facendogli notare che era arrivato sul luogo dell’appuntamento.

    «Siete in ritardo!» lo sgridò l’Alfieri senza neppure degnarlo di uno sguardo. Totalmente assorto nel compito di mostrare delle carte alle due guardie che stavano al suo seguito, non sprecò neppure un attimo del proprio tempo con Lorenzo.

    «Sono solo cinque minuti!» Fra Lorenzo non

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