Quaderni Amerini n°7
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Anteprima del libro
Quaderni Amerini n°7 - aavv
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatrosilfilo.it
ISBN 978-88-567-8052-9
I edizione elettronica ottobre 2016
Si ringraziano:
Il Comune di Vasanello;
Regione Lazio, Provincia di Viterbo, Università della Tuscia, Corriere di Viterbo;
Tutti i Concorrenti per aver onorato il Premio della loro presenza;
I componenti della Giuria;
Il gruppo editoriale Albatros Il Filo.
PREMIO AMERINO & QUADERNI AMERINI
Venerdì 16 settembre 2016 si è riunita la Giuria della settima edizione del Premio Amerino, concorso letterario nazionale in lingua italiana dedicato al racconto breve, a tema libero, organizzato dall’Associazione Culturale Poggio del Lago (Vasanello VT). Il bando è stato ufficialmente diramato il 1° gennaio, le iscrizioni si sono chiuse il 21 agosto. In data odierna, domenica 30 ottobre, giorno della premiazione, viene presentata questa Antologia.
Quaderni Amerini n° 7
raccoglie quelli che la Giuria ha ritenuto i migliori dieci racconti tra i molti pervenuti. Come di consueto nell’Antologia è indicata la graduatoria dei primi tre, con la motivazione della Giuria, ed è attribuito agli altri sette il quarto posto ex aequo.
1° classificato FUOCHI
Cristiano Caracci, Udine
2° classificato NON PIÙ DI UN ANNO
Marina Della Bella, Fano (PU)
3° classificato RIFLESSI E RIFLESSIONI
Paolo Pergolari, Castiglione del Lago (PG)
Quarti classificati ex aequo, ordine alfabetico dei titoli:
ANGELA
Monica Rossi, Chieri (TO)
BRANDELLI
Alessandro Caparesi, Roma
GHIGLIOTTINATO
Egidio Storelli, Caprarola (VT)
IL SENSO DEL BELLO
Claudio Chiuderi, Firenze
LATTE E SANGUE
Giovanni Larese, Belluno
MARCELLA
Tiziana Tomai, Taranto
NUDO DI DONNA
Franco Di Leo, Luino (VA)
LA GIURIA
Sandro Ricci - Presidente
Letterato
Gabriele Campioni
Letterato
Piera Cicuto
Letterata
Maria Luisa Di Marco
Editore
Massimo Fornicoli
Psicologo
Maria Giuseppina Libriani
Letterato
Ardelio Loppi
Giornalista
Paola Testa - Segretario, senza diritto di voto
PREFAZIONE
Sandro Ricci, presidente della Giuria
La parola letteraria
.
Compie sette anni il nostro Premio Amerino. Va avanti in modo abbastanza spedito, sospinto come sembra dagli spiriti santi e dai demoni dell’amore per la scrittura e la lettura. Vogliamo sperare che sia proprio questa passione a far accorrere verso di esso narratori e fabulatori, intrattenitori e tessitori di sogni, e non soltanto la mira di una vincita o il gusto della partecipazione.
Perché, lo ribadiamo, il fine del nostro modesto concorso è proprio quello di diffondere quest’amore, questa passione del raccontare, e poter acquisire con essa anche una maggiore consapevolezza critica. È attraverso le parole, in fondo, che noi abbiamo esperienza della realtà (in principio era il Verbo…); e la letteratura, nelle sue combinazioni ogni volta diverse di forma contenuto e stile, nel suo essere il risultato di una utilizzazione particolare, artistica
, delle parole, diventa pertanto, ovviamente nelle sue espressioni di maggiore rilevanza (quelle che resistono ai secoli e ai millenni), uno straordinario strumento di conoscenza.
Anzi, proprio la finzione letteraria, come ci ricordano tanti scrittori, può ricreare un ordine dal caos della vita reale, sfuggente e confusa, e restituirci di essa la verità, o almeno una verità che abbia un senso, che emerga come quella possibile dalle false verità che straripano dalla cronaca e dalla storia. Anche se, come la realtà, come la storia, anch’essa non è innocente; così come non è innocente il linguaggio, come non sono innocenti le forme e i contenuti, i segni e i suoni, i significanti e i significati. Proprio perché sono gli uomini, le loro azioni e le loro opere a proporli. E quindi ogni volta si ripropongono divenendo doverose domande, interrogazioni, dubbi, perplessità, che rimettono in discussione certezze e convinzioni consolidate.
Sorgono e si presentano sempre nuovi problemi per le forme e i contenuti, che riguardano la comunicazione, l’ascolto e il sentire (di primaria importanza per coloro che sono stati deprivati dei privilegi del leggere e dello scrivere), la condivisione sociale, la comprensione. E interrogarsi diviene fondamentale necessità etica.
I RACCONTI
1° classificato FUOCHI
Cristiano Caracci, Udine
2° classificato NON PIÙ DI UN ANNO
Marina Della Bella, Fano (PU)
3° classificato RIFLESSI E RIFLESSIONI
Paolo Pergolari, Castiglione del Lago (PG)
Fuochi
1° classificato
Cristiano Caracci - Udine
Udine 24 agosto 1948 - È iscritto all’albo del Tribunale di Udine dove esercita la professione forense. Ha pubblicato il volume storico Né turchi né ebrei ma nobili ragusei (Edizioni della Laguna - 2004) e articoli sempre a sfondo storico su riviste specializzate quali Rivista di Storia del Diritto Italiano, Quaderni Vergeriani e Studia Historica Adriatica ac Danubiana. In campo narrativo ha pubblicato La luce di Ragusa (Santi Quaranta - 2005) con cui, nel 2006, vince il Premio Tanzella (VR); Due racconti ottomani (SBC Edizioni - 2009). Nel 2010 ha partecipato alla prima edizione dell’Amerino con il racconto Trireme coccodrillo
piazzandosi al terzo posto. Nel 2012 ha ottenuto il premio speciale della Giuria al concorso Città di Cattolica; Nel 2012 e nel 2014 si è piazzato al 4° posto nell’Amerino. Ed ecco finalmente il meritato trionfo in questa settima edizione.
Motivazione della Giuria
Per l’appassionata e accurata ricostruzione, ricca d’avventura e di emozioni, della vicenda personale e pubblica del poeta latino Cornelio Gallo (amico di Virgilio e da questi apprezzato e celebrato), prefetto imperiale d’Egitto su incarico di Augusto, coinvolto suo malgrado nelle lotte politiche del tempo; accusato per colpe e reati discutibili dal ceto senatoriale (indignato per quell’onore tributato ad un rappresentante del ceto equestre), caduto in disgrazia presso l’imperatore, processato e condannato all’esilio e alla confisca dei beni, praticamente costretto al suicidio. Un racconto in forma di confessione, di respiro epico e di grande forza visiva.
Neget quis carmina Gallo?
Virgilio, Bucoliche
Sono nato nell’agro aquileiese dove l’estate lavoravamo i campi in attesa del ritorno di nostro padre, dalla Gallia, per vederlo ripartire a primavera. Questo fino a quando l’età di lui non lo sciolse dagli obblighi militari consegnandolo alla famiglia.
Spesso occorreva raggiungere i mercati di Aquileia e noi bambini salutavamo la partenza di quei convogli con l’ambizione di visitare la città, famoso luogo di meraviglie. Il tempo stesso pareva misurato su quello della nostra capitale e io ho sempre saputo di essere nato centododici anni dopo la fondazione di Aquileia, mentre Roma era troppo lontana per dire ab urbe condita. La nostra urbs era Aquileia, emporio per ogni traffico, i moli del porto canale poco distanti dal mare Superiore.
Un giorno partimmo noi due soli, mio padre e io, che ormai ero un uomo fatto e dovevo conoscere la grandezza di Aquileia.
Ospiti di un greco, compresi cosa si intendesse per sfarzo levantino. Ogni sera un banchetto occasione di delizie sconosciute e non soltanto di quelle apparecchiate: nessuno badò alla giovane dai lunghi capelli biondi che mi trascinò nella stanza accanto, per poi riaccompagnarmi disinvolta al triclinio.
Durante uno di quei banchetti, i convitati sdraiati e per lo più ebbri, si alzò un giovane il quale, in un’atmosfera chiassosa e distratta, prese a recitare dei versi che mi capitò di ascoltare dal fondo della sala; posai quel pezzo di fagiano ma non fui capace di chiudere la bocca: conoscevo così la poesia, il mio cuore tremava e riconobbi la commozione di altri, ammutoliti improvvisamente.
Avevo incontrato Virgilio, rimasto amico anche nella lontananza e nei giorni disgraziati. Nulla fu più come prima ed egli, l’amico della poesia, sarebbe stato destinato a leggere ogni mio nuovo verso.
Nostro padre ci lasciò a fine inverno quando già sognava la primavera; ma rendo grazie perché gli fu risparmiata la follia delle idi di marzo.
Allora, sollecitato da tutti i partiti perché aderissi all’uno o all’altro, mi dedicai invece alla coltivazione dei campi, attento a non mostrare preferenze. Continuai a scrivere poesie d’amore inviandone i papiri a Virgilio il quale, neppure lo sapevo, a Roma mi lodava pubblicamente e quando un vecchio amico si complimentò, non credeva alla mia sorpresa. Era, quel tale, un uomo trasandato, di aspetto grassoccio, sudaticcio e quando parlava pareva dovere confidare fatti gravi, abbassava la voce, si avvicinava con la testa quasi ritorta per sussurrare una sciocchezza sputacchiando tra i denti neri e radi. Viscido, spiacevole e tuttavia, credevo, inoffensivo; disse quel Valerio Largo: mi compiaccio con te, Gallo; ho compreso come attendi il carro del vincitore per mutare argomento ai tuoi poemi. Rimasi di sasso.
Una visita di Virgilio, ormai poeta famoso, fu sorpresa graditissima, pure se, involontariamente, cambiò la mia vita.
Una sera, riuniti a cena, mi parlò sottovoce: - Amice, i veterani di Filippi attendono la consegna delle terre loro promesse e Ottaviano chiede esperti agronomi per le centuriazioni. Ben ti conosco per lealtà, onestà, esperienza e non nascondo come gli espropri potrebbero riguardarmi; accetta che io ti presenti e proponga al Principe, poi lavora pure in coscienza. -
E così fu fatto.
Dall’apprezzata attività di agronomo a Mantova dove accontentai i veterani e salvaguardai le proprietà di Virgilio, dall’incontro con il Principe, che mi suggeriva la pratica delle armi, riconoscevo la vita precipitarmi addosso, conducendomi sempre più vicino a Roma e ai suoi intrighi.
Allora Ottaviano mi volle dichiarare pubblicamente suo amico moltiplicando così la malevole invidia che mi circondava e obbligandomi sempre più con il Principe, il quale mi reclutò per l’ultima battaglia.
Epiro
Mentre si provvedeva alla flotta, prima di lasciare la città per il porto di Brindisi, ricevetti un’epistola di quel Valerio, volentieri dimenticato in Transpadania, il quale, citando un vecchio colloquio, scriveva suppergiù: Amice (naturalmente) mi compiaccio del tuo successo e delle responsabilità assegnate. Avevo visto giusto a raccomandarti di attendere il carro a te più adatto. Io stesso, pure meno dotato e ambizioso ad un cursus di onori, mi sono convinto per il partito del vero successore di Cesare. Così, per la nostra antica amicizia e i tuoi recenti onori, cui un poco ho contribuito con il mio consiglio di allora, mi permetto oggi di domandarti…
Indispettito, contrariato, buttai quella richiesta volgare di Valerio con il quale condividevo soltanto la patria, e senza pensarci più salpai per Durazzo.
Attraccati e guadagnato il campo di Ottaviano che riposava in una semplice tenda senza orpelli, dopo il doveroso omaggio, lo riconobbi affaticato ma certamente determinato.
- Amice - disse, - ti ritrovo con gioia e rendo grazie. A giorni lo scontro sarà inevitabile. Ti imbarcherai, quando sarà, sull’ammiraglia dove combatterai al sicuro, vicino all’esperienza del comandante. La giornata sarà nostra e si apriranno le porte di Alessandria, dell’Egitto intero, magari d’Arabia. Noi sapremo ricompensare la tua fedeltà. -
Pochi giorni dopo il mare di Azio e l’Egitto erano nostri.
Allora un centurione mi scortò alla tenda dell’Augusto, ed egli stesso mi porse uno sgabello, che eravamo soli.
- Amice - attaccò, - tu stesso comprendi come Roma deve contare su alleanze e confini sicuri in Africa mentre il Nilo saprà garantirci enormi forniture di grani. L’Egitto va pacificato, sconfitti gli ultimi Tolomei e ogni sorta di ribelle. Abbiamo perciò deciso di costituire la provincia d’Egitto a tutela del potere romano sulla costa, nel delta e lungo il Nilo e cercare alleati o vittorie in Arabia: abbiamo destinato per ciò tre legioni complete. -
Tacevo senza comprendere il motivo di quella conversazione.
- Ti imbarcherai per Alessandria dove i nostri ordini e cospicue forze ti avranno preceduto. Su ogni affare, civile e militare, eserciterai il nostro imperium col titolo di Prefetto d’Egitto cui sei fin d’ora nominato. -
Rimasi di pietra, poi lo fissai a lungo e balbettai: - Cesare l’onore è troppo grande, le mie capacità assai modeste, non sono nobile per esercitare un simile incarico, ma di semplice ceto equestre. -
- A questo pensiamo noi, et de hoc satis. -
E si passò a trattare il merito.
Virgilio, subito informato, indirizzò al Prefetto d’Egitto una lettera augurale e di saluto senza mancare di suggerimenti e informazioni. Riferiva come a Roma, tra i senatori, prendeva forma un partito contrario a Ottaviano ma, troppo debole per colpirlo direttamente, intendeva fare danno ai collaboratori di lui. Tra questi era considerato Cornelio Gallo, proveniente da famiglia di semplice ceto equestre, mentre un Prefetto si sarebbe dovuto scegliere tra loro stessi senatori.
Virgilio indicava il nome del senatore Marco tra i complottisti, che alla lettura degli acta diurna con la mia nomina, aveva pubblicamente detto di potere fare conto, nelle terre di Aquileia, su un buon cliens, tale Valerio Largo, il quale avrebbe saputo riferire di me ogni cosa: natali, parentele, integrità morale e comportamenti pregressi.
Di stare in guardia, raccomandava Virgilio, essendo l’invidia nemico assai temibile.
Egitto
Dopo una difficile traversata si entrò nel porto di Alessandria. Eravamo attesi da un gruppo di dignitari riccamente vestiti e quando i vogatori, alzando i remi, portarono la nave a sfiorare il molo, si fece avanti un uomo anziano che, chinandosi in misura esagerata, salutò in latino. Allora ricambiai in lingua greca, ad alta voce, guadagnandomi un sorriso del vecchio e la simpatia degli egizi, i quali in coro salutarono ave Cesare!
Da quella prima notte e per l’interno soggiorno in Alessandria siamo stati ospiti nella casa del vecchio Aristotele, il nobile più facoltoso della città che ci aveva accolto al porto: e chiamare sfarzosa la sua villa era una diminutio.
Migliaia di palme circondavano la domus come fosse un’oasi, e quelle enormi foglie smorzavano la luce del sole mutata in colore verde riposante, mentre la temperatura diveniva una carezza fresca. Ancora più sorprendente era entrare nella villa, dove, da grandi finestre velate con candidi tendaggi di lino a larga trama mantenuti fradici da un costante gocciolare dalla volta, l’aria come un sollievo si spandeva nelle sale.
Mi affidarono a una schiava mulatta, giovane bellissima, colta perfino e parlava greco. Non l’ho mai vista vestita e quindi ricordo bene come fosse snella, occhi verdi chiarissimi, capelli d’ebano che poggiavano su spalle ben tornite in un contrasto di colori: la pelle, gli occhi, i capelli, a non dire altro e, certo, me ne innamorai e molti sarebbero stati i versi scritti nel ricordo di lei.
Godevo l’oriente.
Ma vennero i giorni della partenza per il meridione lontano e misterioso. Si doveva navigare risalendo la quieta corrente del Nilo salpando da Alessandria con un grande numero di imbarcazioni venduteci a non poco prezzo; per giorni guardai quelle barche cariche di legionari animali armi e di quanto necessario, staccarsi dai moli verso l’avventura. Riservai per me l’ultima nave, convinto di poter meglio controllare l’integrità del convoglio, mentre a Roma i soliti detrattori parlarono di ritardo per cupidigia di piaceri.
Finalmente apparve la maestosità di Tebe dove attendeva il centurione Luciano, capo di una piccola guarnigione di veterani esperti e combattivi. Mi compiacqui e chiesi di brindare al successo ma Luciano, imbarazzato, rispose come egli avesse proibito il vino ma gli agrumi sono ottimi e abbondanti. Sorridendo mi dichiarai d’accordo e lodai quell’uomo di ferro il quale certo, aveva dovuto contrastare anche le proteste dei propri soldati. Gli domandai allora, se il giorno seguente mi avrebbe accompagnato in una visita ai famosi templi dell’antica capitale nilota. Mi pare come Luciano arrossisse per poi impallidire; comunque non rispondeva e, mio malgrado, amichevolmente lo sollecitai.
- Prefetto - disse lui, - mentre ci accingevamo ad attraccare a Tebe, si videro degli uomini, coperti da strani cappelli, uscire dal tempio e avviarsi lentamente verso il deserto. Attraversata la fascia fertile lungo il fiume, invece di fermarsi continuarono il loro cammino nella sabbia bollente, nel calore insopportabile del sole. Prefetto, non ritenni di inseguire quel gruppo di pazzi, erano una decina, perché apparivano innocui mentre lo sbarco chiedeva tutta la mia attenzione ignorando ancora, allora, quale accoglienza la popolazione ci avrebbe riservata; ma li continuavo a guardare allontanarsi senza cambiare passo fino a scomparire nel vento del deserto.
- Mi ero ripromesso anche io di visitare il giorno successivo, il tempio gigantesco abbandonato da quegli uomini e altri templi al di là del Nilo. La guardia mi svegliò la notte e, uscito dalla tenda, vidi lo spettacolo spaventoso dell’edificio ardere con fiamme più alte delle colonne. Le tenebre erano illuminate dal fuoco e tutti, l’intera notte, si attese invano il fragore dei crolli. Venne l’alba e realizzammo di come il rogo fosse stato privo di calore e quando il sole si alzò da oriente, dove si era diretto quel gruppo di pazzi, le fiamme si spensero, mostrando il santuario intatto, neppure annerito.
- Pochi di noi, Prefetto, tra tutti i legionari sperimentati in battaglie di Gallia, di Illirico, di Spagna, pochi di noi, la mattina, ci recammo al tempio dove nessun segno riconoscemmo del rogo. Il mistero si era diffuso nel campo e ogni statua antica pareva osservarci con severità e riconoscemmo sculture di aspetto di uomo o di donna con teste di cani, uccelli, gatti, coccodrilli e altri animali.
- Finalmente si presentò alla mia tenda un vecchio assai rugoso per l’età e il sole, tranquillizzato dalle nostre pacifiche intenzioni, il quale, piuttosto stentatamente, disse di parlare greco offrendosi da interprete per un compenso esorbitante di cui, io credo, neppure conoscesse il valore. Ridotto a ragione su tale aspetto, lo interrogai di cose militari ed egli riferì che nessuna banda del disciolto esercito dei Tolomei era presente almeno fino alla prima cateratta ma, naturalmente, non potevo dargli credito. Quindi domandai del tempio, delle persone volontariamente disperse nel deserto e del misterioso incendio. Il vecchio cominciò a tremare e, sedutosi su una pietra balbettò di un dio Amon, di una dea Mut, di sacri scarabei e ripeteva di cicli del giorno, del Nilo, della vita, della notte quando comandano le donne e le dee Iside, Mut, Maat, Nut, Bastet (ho dovuto scrivere la lista). Ma da temere disse era l’assenza della luna, l’assenza del ciclo, quando i sacerdoti possono parlare con le sepolture. A quel punto decisi di attendere la prima notte di luna nera per visitare il magico tempio.
- Giunta quella notte, in tre, al primo buio, dall’alto di una costruzione semidistrutta, cominciammo l’osservazione del tempio di Luxor, apparentemente incendiatosi. Presto tra