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La lingua e la frontiera
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E-book265 pagine3 ore

La lingua e la frontiera

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Info su questo ebook

Ogni paese, ogni popolo, ha il suo “altro”, non realmente differente, ma specchio delle proiezioni collettive.
Con una scrittura sempre accessibile, con lo sguardo di testimone, oltre che di psicoanalista, Nazir Hamad prende parte nel dibattito contemporaneo, in particolare riguardo all’etno-psichiatria. In modo vivace e profondo, abborda i problemi posti dal nome di famiglia straniero, la questione della relazione con il padre, quella della lingua straniera e del poliglottismo e la sfida del mondo moderno all’identità musulmana.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2016
ISBN9788865125168
La lingua e la frontiera

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    La lingua e la frontiera - Nazir Hamad

    Nazir Hamad

    La lingua e la frontiera

    © 2016, Marcianum Press, Venezia

    Marcianum Press

    Edizioni Studium S.r.l.

    Dorsoduro, 1 – 30123 Venezia

    t 041 27.43.916 – f 041 27.43.971

    marcianumpress@marcianum.it

    www.marcianumpress.it

    Titolo originale: La Langue et la Frontière. Double culture et polyglottisme, Éditions Denoël, Paris, 2004

    Traduzione e curatela: Maria Teresa Maiocchi e Carmine Marrazzo

    Impaginazione: Tomomot, Venezia

    OASIS – LIBRI DI OASIS

    6

    ISBN 978-88-6512-484-0

    UUID: d25a4bc4-c6c3-11e6-8588-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione … non puoi più nasconderti…

    Prefazione

    Introduzione

    1. Il privato e il pubblico

    L’altro diverso non è quello che si crede

    Quando il riferimento divino crea la frontiera

    2. Riferirsi alla cultura come a una struttura di linguaggio

    Tradire un po’

    Se l’uomo è povero il suo desiderio può non esserlo

    Un approccio clinico

    La relazione speculare

    A quale Altro affidarsi?

    L’etnopsichiatria, o il riadattamento del soggetto al discorso del suo gruppo

    Essere della stessa cultura del proprio paziente è un vantaggio?

    Scacciare l’inconscio

    3. La verità storica in psicoanalisi

    I tre tempi costitutivi

    Il tempo storico

    Il tempo storico e l’uccisione del padre

    A ciascuno il suo Altro

    4. Il XXI secolo sarà religioso o…

    Quando non si ha fiducia nell’inconscio

    Sapere, ma in nome di chi?

    L’ironia non è un motto di spirito

    L’insostenibile disagio generato dalla mancanza di uscita

    L’appello al padre onnipotente

    5. Le frontiere dell’Altro

    Un approccio etnologico

    L’11 settembre ha partorito nuove frontiere

    L’integralismo non è appannaggio dell’Islam

    Il riferimento ai tratti culturali funziona come un meccanismo di difesa

    L’etnopsichiatria alla francese non è quella di G. Devereux

    Qualche sorpresa in rapporto alla comune appartenenza culturale

    6. La terra promessa

    Il corpo che viene rimpatriato

    Che cosa mette radici nel paese di accoglienza?

    Il corpo e il focolare

    Il ritorno del figliol prodigo

    Perpetuare una cultura morta

    Il legame alla terra

    7. Poliglottismo e psicoanalisi

    La lingua materna e la lingua di cultura

    Lo statuto della lingua di cultura

    La lingua materna e la rimozione

    La cura analitica, in quale lingua?

    Negoziare il rigore del super-io

    Relativizzare la questione dell’appartenenza

    L’inconscio è poliglotta

    8. Poliglottismo e psicoanalisi II

    Freud e le lingue straniere

    La dimenticanza del nome Signorelli

    Sbarazzare il linguaggio dal suo residuo materno

    Il bilinguismo è una realtà costante

    La cura è una lettura delle diverse lingue

    9. Poliglottismo e psicoanalisi III

    Le peregrinazioni dei significanti

    Il mutismo come divieto di attraversamento delle barriere della lingua materna

    Parlare la lingua di cultura come traduttrice

    Il Sinnliche (il sensuale)

    Quando la discriminazione razziale fa decadere la lingua materna

    Il padre umiliato

    10. Il viaggio del patronimico attraverso le lingue

    Trasgredire la legge del paese di accoglienza non è reato

    Fare la propria legge a partire dalla trasgressione della legge

    La fragilità del patronimico

    Quante generazioni devono passare perché il patronimico entri nell’anonimato?

    I rischi in cui incorre il patronimico

    Lo pseudonimo e il rimosso

    11. Il patronimico al rischio delle altre lingue

    Quando il nome diventa quel che significa

    Quando l’Altro non supporta l’intacco

    Quando la cultura d’accoglienza priva il nome dei suoi punti di riferimento abituali

    L’integrazione impossibile

    12. Quando il tessuto simbolico si lacera

    Un’alleanza logica

    L’odio e lo smarrimento

    Il tra-due è da nessuna parte

    Fottere

    Il padre della realtà

    Il maiale è l’unico interdetto che ancora tiene

    Una traversata del deserto

    13. Il velo islamico

    Il prezzo da pagare

    La Fatima, un’immagine di Epinal

    Il velo, tra Dio e il diavolo

    14. Il soggetto nell’Islam

    È scritto

    Responsabilità individuale e dimissione soggettiva

    Leggere in nome dell’Altro

    Il soggetto è là da sempre

    La verità, un andirivieni tra il contingente e il trascendente

    L’inconscio del Profeta

    Sono solo un uomo

    L’ingiunzione di leggere

    15. Il testo originario

    La lingua originale

    Lo spostamento pulsionale verso il sonoro

    Conclusione

    Nazir Hamad

    La lingua e la frontiera

    Doppia cultura e poliglottismo

    MARCIANUM PRESS

    Introduzione … non puoi più nasconderti…

    "Ora, dato che la batteria dei significanti, in quanto è, per ciò stesso è completa, tale significante non può essere altro che un tratto che si traccia col loro cerchio senza potervi essere contatto. […] Come tale esso è impronunciabile, ma non così la sua operazione, perché questa è ciò che si produce ogni volta che viene pronunciato un nome proprio: il cui enunciato è uguale alla sua significazione".

    J.Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), corsivo nostro.

    Il reale, dirò io, è il mistero del corpo parlante, è il mistero dell’inconscio.

    J.Lacan, Ancora, 1972-73

    Il testo che viene qui introdotto è una presa di posizione originale nel dibattito odierno tra sofferenze e contraddizioni implicate dall’ondata migratoria e le diverse sfumature della sua ’‘estraneità". Parlare della migranza, della sua impossibile domanda di integrazione come della sua ‘pericolosità’ avvertita, implica forme adeguate della riflessione, capaci di dar voce all’esperienza del soggetto oltre che – o accanto – alla sociologia del terrore che la massa migratoria inevitabilmente comporta. Non a caso dunque le circostanze di questa edizione italiana del testo di Nazir Hamad sono provocate da un luogo di sapere e di elaborazione che – dalla sua angolatura – ne ha potuto apprezzare la rinnovata attualità e il merito scientifico: la Scuola Internazionale di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro (XXVIII Ciclo) dell’Università di Bergamo, coordinato dal prof. Giuseppe Bertagna. Nella sua multidisciplinarità, annunciata fin dal titolo e nella sua filosofia d’azione concreta, la Scuola porta il segno di una prospettiva aperta, che si vuole più efficace, nel rapporto – che è strutturale – tra le configurazioni complesse di legame sociale che oggi il lavoro e il suo ‘mercato’ sempre di più mettono in evidenza e le pratiche formative dell’operatore, nella doppia presa di questo genitivo. Il testo proposto testimonia in effetti la stretta relazione tra le condizioni operative del lavoro della consultazione – non affatto lineare nelle sue forme né standard nei suoi contenuti – e la formazione dell’operatore a un ascolto che possa puntare al soggetto al di là dell’individuo.

    Per una sorta di sintesi della tematica affrontata, che faccia da chiave di lettura delle diverse contestualizzazioni proposte dal testo, l’Autore, di lunga formazione alla scuola di Jacques Lacan e di Françoise Dolto[1], pone – ci sembra – la questione dell’Altro del linguaggio in quanto sempre portatore dell’‘altra’ lingua … e della sua complessa partnership col soggetto.

    Come – e perché – parlarne ‘scientificamente’ è la scommessa del libro qui introdotto e tradotto.


    [1] Ora nell’ambito di Association Lacanienne Internationale, vedi qui di seguito l’Introduzione di Charles Melman.

    L’Altro, in presenza e in assenza

    L’Altro, come luogo del linguaggio e del sociale ne conviene anche la sociologia attenta alla relazione è anche l’Altro come luogo delle origini, il luogo primordiale, che – sempre percorrendo questa via linguistica – ha visto il sorgere stupefacente delle prime parole nella bocca cinguettante del bambino, come nota il grande Benveniste. Dall’inizio l’infans gioca, gioca con il misterioso cristallo della lingua cui lo sta introducendo l’Altro, Altro, luogo mitico e misterioso della sua prima appartenenza umana, che dal funzionamento biologico dei suoi bisogni apre al suo essere di desiderante, a quella che da subito è la nostalgia di un oggetto che si sottrae, come mostra l’esperienza, che – con Freud come con Agostino – è esperienza di un radicale de-siderare, dall’etimo evidente[1] di questo termine, radicato nella lontananza stellare dell’oggetto, nello svuotamento della presenza che si fa assenza salutare, presentificando ciò che manca: condizione perché dalla nostalgia si accenda del nuovo, che sempre è ex nihilo: "… l’uomo fabbrica il significante e l’introduce nel mondo – in altri termini, si tratta di sapere quel che egli fa plasmandolo ad immagine della Cosa, mentre essa è caratterizzata dal fatto che ci è impossibile immaginarcela"[2]. Questo libro ci conduce a cogliere tutta la portata di questa impostazione clinica, teorica, etica.

    Non a caso, sono le vaghe stelle dell’Orsa, che bene dicono la ricordanza assoluta, leopardiana, che dallo spazio arcano delle tante luci trasmigra nella lontananza – perduta – del passato. Per questo ogni ricordanza è in fondo acerba, come è acerbo il mistero delle cose per il ‘giovane favoloso’… E che gli irraggiungibili testimoni celesti siano sul paterno giardino scintillanti sembra far segno che non c’è rimedio familiare, custodia generazionale, che sia riparo alla nostalgia di un tempo che è per definizione spento

    Come dunque non farne, di questo Altro mitico primordiale, un ostacolo, che trattiene il soggetto in una nostalgia materna disorientante, in un disadattamento che lo ‘sposta’, che lo trattiene rispetto alle performances che sempre di più gli vengono richieste, rispetto alle necessità di una quotidiana efficienza, che non dà luogo e spazio – nemmeno nella clinica, quando punti al puro inquadramento diagnostico in stile DSM[3] – ad una elaborazione della sua storia e della sua posizione simbolica? Vecchiumi della psicoanalisi, si dice…

    Questo testo, nella ricchezza dei rimandi teorici e soprattutto nella preziosità dei resoconti clinici, nel dialogo vivo delle cure condotte nell’incontro con culture non omologate, mostra l’esatto contrario, mostra la freschezza e la irrinunciabile attualità del discorso analitico nell’affrontare questa problematica della frontiera, dell’estraneo che sta al di là, non solo per la via di una clinica competente, ma per la sua articolazione a temi teorici, su cui il filo dell’autore è sempre teso, e soprattutto a una questione etico-politica decisiva: l’insopportabile della differenza, in quanto la psicoanalisi vi può operare. Certo non nella ripetizione rituale dei suoi modelli e setting standard, ma nell’invenzione di setting realistici, che permettano un ascolto della posizione del soggetto come vivente attraverso la risorsa del suo essere parlante, la risorsa della lingua, la risorsa di una particolarità che, insperatamente, attraverso la differenza, fa legame. Per quale strano escamotage?

    Per le cliniche dei riduttivismi diagnostici il problema è piuttosto qui e ora… E la storia del soggetto è meglio non farla troppo emergere, non impicciarsi delle vicissitudini dei suoi legami oggettuali o dei suoi traumi, per far sì che il pezzo discordante, che fa sintomo, sia immesso di nuovo e al più presto nella macchina sociale, ormai nemmeno più produttiva. Dal che tutto funzioni del Discorso del Padrone, alla sua forma più recente, quella del che tutto si venda del Discorso del Capitalista[4], una pratica della cura che punti alla non uniformità del soggetto, alla sua risposta singolare – singolare non è difforme – rompe gli assetti, i setting regolati su una terapeutica puramente riadattiva, che suppone una sotterranea armonia del villaggio globale, armonia che attutisce se non elimina le differenze, fino a farle scomparire in una specie di occultamento simbolico, che finirà prima o poi per farle riemergere in un reale indomabile. L’incendio ancora non sopito delle banlieux parigine lo ha mostrato in modo inquietante ad ogni buon francese, per citare solo l’esempio più leggibile sociologicamente.

    Il libro di Nazir Hamad è dunque scritto proprio sulla frontiera di un reale esplosivo, e lo tratta attraverso lo strumento più semplice e insieme più alto che la civiltà abbia a sua disposizione, da sempre, il suo essere parlante, la lingua, competenza creativo-comunicativa del dire. Non sempre consapevolmente per le pratiche sociali, nemmeno in quelle dell’ascolto e della cura, è in quanto parlante che il soggetto trova le risorse, per vivere nei legami, per attivarne e separarsene degnamente, e dunque la risorsa di una vita che non sia di sola sopravvivenza.


    [1] Dal latino sidus, sideris (probabilmente da Eidos, forma – anche nella tradizione platonica – o anche da una radice Sid, Svid, …, splendere, con prefisso de, sottrattivo, di lontananza) in ogni caso imparentato con con-siderare: quasi non si avesse la possibilità di disporre degli astri: cfr. G. Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 122.

    [2] Cfr. J. Lacan, Il seminario Libro VII, L’etica della psicoanalisi (1960-61), Torino, Einaudi, 1994, p.159. Corsivo nostro.

    [3] DSM è l’acronimo del Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, punto di riferimento della diagnostica psichiatrica basato sulla ricorrenza statistica con cui leggere i sintomi, raggruppandoli in base alla loro frequenza, a differenza della impostazione più strutturalista della clinica psichiatrica classica. Per una critica – anche dall’interno – delle derive cui questa standardizzazione conduce, nelle sue varie versioni (siamo alla n.5). vedi Aut aut, La diagnosi in psichiatria, n. 357, Milano, Il Saggiatore, 2013, in particolare gli articoli di Frances Allen, che figurava tra gli autori delle prime versioni del DSM, e di Fulvio Marone, psicoanalista, dirigente psichiatra nel Centro di Salute Mentale di Scampia (ASL Napoli 1).

    [4] Cfr. J. Lacan, Il seminario Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), Torino, Einaudi, 2000: La società dei consumi ha senso in quanto, all’elemento umano tra virgolette, viene dato come equivalente omogeneo un qualsiasi più-di-godere prodotto dalla nostra industria – un più-di-godere, in realtà, fasullo (p. 97). E, quanto al discorso del capitalista, Lacan in Italia, En Italie Lacan, Milano, La Salamandra, 1978, in particolare la conferenza Del discorso psicoanalitico, tenuta a Milano il 12 maggio 1972.

    Percepire la differenza

    La differenza che non arriva a nascere al simbolico, che non arriva ad elaborarsi in qualche forma discorsiva, in forma di legame articolato, torna nel reale dello scatenarsi di quella aggressività che, per Freud, nel suo fondamentale Disagio della civiltà[1], è nome per così dire ‘sociale’ della pulsione di morte. La differenza è nome di quella estraneità radicale che sorge nel profilarsi dell’altro, che subito lo fa monstrum, poiché è lo sguardo dell’altro che lo fa vivere e insieme morire, monito – anche qui, secondo etimo: monstrum insospettabilmente viene da monere – di ‘timore per la sua stessa integrità’, dicono i dizionari, ma anche – più sottilmente – esso monito implica un imporsi al pensare, un doversi concepire nella mente, perché non vi è presente prima, potremmo dire, inedito. È il nuovo inquietante dell’Unheimliche freudiano[2] potemmo dire. Il diverso che non si assimila. Interessante del resto che monstrum venga dalla stessa radice di mens… Quel che lo fa guardare come spaventevole e pericoloso – proprio ciò che lo rende in-guardabile, nel senso di in-immaginabile – è anche ciò per cui va considerato, riconosciuto, mentalmente assunto, accolto secondo un tempo, necessitante dunque di un tempo in più, di un momento per comprendere che permetta di contenerlo, di elaborarlo.

    Hamad tocca questo punto dell’Unheimliche dall’interno delle cure, a proposito della lingua d’adozione come lingua che svuota e neutralizza l’esplosività insopportabile, incendiaria, della lingua materna se ascoltata dall’altrove in cui oggi si è. Ed è quel che rende paradossalmente meno accessibile l’aggancio transferale. Osservazione clinica assai interessante, che ci sposta nella concretezza di una direzione della cura che deve tener conto della migranza come esperienza che rinnova le condizioni di accesso all’inconscio e dunque gli stili di offerta implicati dal discorso della psicoanalisi. In questo senso è molto importante il distinguo forte che Hamad compie rispetto alla etnopsichiatria contemporanea, malgrado la tradizione psicoanalitica in cui si è situato un autore di riferimento di questa impostazione come George Devereux, la cui strumentazione proviene in parte dalla psicoanalisi, e forse per questo oggi travalicato dall’accento posto invece sul lato culturale dell’ etno. Proprio questo fornisce a Nazir Hamad la possibilità di una differenziazione, di stabilire un gradino interno alla lettura etnopsichiatrica, rispetto a cui le pratiche messe in atto, specialmente questa impostazione dell’ascolto, costituiscono una interessante lavoro di confine, valorizzare il quale consente una coralità disciplinare che occorre ripristinare, al di là di inclinazioni più debitrici all’appartenenza culturale, che fa resistenza, che fa paradossalmente ostacolo allo scambio più profondo che ogni lingua in realtà mette in gioco per il locutore, al di là della sua particolarità linguistica, in-comunicante a livello del senso.

    È che parlare è sempre parlare a… È l’indirizzarsi a qualcuno, a uno, particolare, che mette in gioco quello che chiamiamo soggetto dell’enunciazione, il vero soggetto dice Lacan, il soggetto dell’inconscio che travalica l’enunciato e fa segno al di là. C’è dunque sempre una dimensione enunciativa da rintracciare nel dialogo. Non il senso ma il senziente, se così si può dire. Non il parlare di qualcosa ma il dire soggettivo, che è dire a qualcuno. Dove il ‘semplicemente ascoltare’ prende un rilievo strumentale molto potente, come nel caso di un giovane operatore di queste pratiche che rilevava proprio questo movimento clinico cruciale, riportando le parole di un utente di complicata cultura mediorientale, sensibile e particolarmente elaborativo[3]. Arrivato da poco in Italia, dopo una vicenda complessa e un lungo travagliato cammino, non ha quasi nessuna conoscenza della nostra lingua. Si presenta a causa di un diffuso malessere, accompagnato da un amico traduttore, cosa non abituale, in Servizi che dispongono di esperti mediatori culturali. Lui si esprime assai male in italiano, dice, sembrando patire la cosa in prima persona. E così, sorprendendo l’operatore, a un certo punto, preso evidentemente in un aggancio transferale,

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