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Il settimo sogno di giovanni
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E-book254 pagine3 ore

Il settimo sogno di giovanni

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Info su questo ebook

Giovanni d’Assisi, giornalista e scrittore di grandi capacità e sensibilità, è uno straordinario viaggiatore. Afghanistan, Syria, India, Palestina, Italia sono solo i luoghi fisici di un percorso che in realtà Giovanni compie dentro se stesso, alla ricerca del senso della sua vita.
Ad accompagnarlo e assisterlo in questo viaggio nel mondo dello spirito sono persone a lui legate da vincoli di affetto che hanno origine in un tempo non raggiungibile dalla sua memoria. Le complesse e a volte burrascose relazioni con Margherita, Isabelle, Chiara, Elizabeth, Francesco, Pierre, sono strumenti di cui si serve Colui che guida il destino delle creature per condurre anche Giovanni a fare una scelta che in realtà è tale solo in apparenza.
Ma a portare Giovanni sulla strada giusta per capire il senso della sua vita, di un amore perduto e di uno ritrovato saranno altri viaggi che lo condurranno in quelle regioni dello spirito dove i limiti della materia fisica sono superati, sia pure in sogni che hanno tutto il sapore della realtà.
In una Palestina lontanissima nel tempo, Giovanni avrà la possibilità di venire a conoscenza di vicende che ai più sono precluse (gli anni sconosciuti del Cristo e i giorni immediatamente precedenti e successivi la crocifissione) e la cui comprensione gli sarà utile per comprendere la sua missione.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2013
ISBN9788868551223
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    Il settimo sogno di giovanni - Nico Veladiano

    NICO VELADIANO

    Il settimo sogno di Giovanni

    Romanzo

    Prefazione di Enrico Ruggini

    Postfazione di padre Paolo Dall’Oglio S.J.

    Priore del Monastero di Deir Mar Musa (Syria)

    1^ riedizione integrata: settembre 2013

    ©Tutti i diritti riservati all’autore

    *******

    Questo libro è frutto della fantasia dell’autore.

    Tutti i personaggi, i luoghi, le organizzazioni, gli avvenimenti sono immaginari o utilizzati in un contesto immaginario. Ogni riferimento a fatti accaduti e persone realmente esistite è puramente casuale.

    *******

    e-mail dell’autore: cerchiofirenze1977@gmail.com

    GRAZIE

    a Pia e Irene

    per l’incoraggiamento e la comprensione

    a Enrico e Paolo

    per i preziosi spunti, prefazione e postfazione

    ai Maestri

    il cui insegnamento permea il romanzo

    a Giovanni

    per la foto di copertina

    a tutti coloro che scelgono di leggere queste pagine

    con l’augurio che possano essere piacevoli ma soprattutto utili

    In copertina

    Wakhan Pamir (Afghanistan)

    Con le nuvole in viaggio sul tetto del mondo

    Foto di Giovanni Pedrini

    A tutti coloro che guardano

    oltre l’apparenza

    Trust the dreams, for in them is hidden the gate to eternity

    (Fidatevi dei sogni perché in loro è nascosto il passaggio verso l'eternità)

    Jibran Khalil Jibran

    Prefazione

    a cura di Enrico Ruggini (*)

    Mi ha sempre colpito come la metafora del viaggio sia una delle preferite dagli scrittori quando gli argomenti si volgono a questioni che riguardano la parte più intima dell’uomo: il suo mondo interiore. Essi prendono a prestito il mondo di fuori per descrivere il mondo di dentro, e ogni avvenimento che si dipana nei loro libri, rimanda ad altri accadimenti, molto più significativi di quelli dai quali sono evocati.

    Frequentemente questa scelta narrativa implica un paradigma che è al tempo stesso un paradosso, e cioè che le vicende del fuori, ivi raccontate, anche quando sono drammatiche e travolgenti, sono solo vicende. Appaiono essere come una sorta di supporto esteriore e di occasione per misurare se stessi, in realtà, su un altro piano, ben diverso da quello sul quale le vicende si svolgono, ed enormemente più pregnante e decisivo per chi quelle vicende vive; e questo accade affinché il vivere di ognuno di noi, che di quelle vicende si riempie, abbia il suo significato, abbia un senso ulteriore e una sua spiegazione, anche quando le vicende del vivere di ognuno non sembrano averli, anche quando appaino casuali, fortunose, frequentemente ingiuste, talvolta insostenibili, talaltra inspiegabili.

    Anche in questa trilogia di Nico Veladiano, capitolo dopo capitolo, volume dopo volume, assistiamo alla medesima magia: un viaggiatore, che rimanda alla dimensione errante di ognuno di noi nella vita, attraversa terre a lui sconosciute, come per ciascuno di noi è sconosciuto il proprio territorio interiore; il protagonista, a mano a mano che vi si inoltra, ci prende confidenza e ne scopre le qualità e le leggi, proprio come accade a noi quando apprendiamo, attraverso i modi più vari, qualcosa di più di ciò che siamo; e vi incontra persone ed esperienze che secondo un imprevedibile progetto dell’anima trasformano questo viaggiare in un processo di conoscenza e di esperienza dal fuori al dentro, con una progressione che conduce il viaggiatore nel profondo di se stesso, spingendosi, nell’ultimo volume, fino alle soglie della realtà fisica, su quel confine presso il quale tutti ci portiamo ogni notte, dove la realtà si confonde con un’altra realtà, quella del sogno-non sogno, e dove talvolta è possibile cogliere aspetti dell’esistenza e frammenti di verità che nella veglia rimangono inaccessibili. E i significati che Veladiano ci fa intravvedere sono di quelli che fanno tremare le vene e i polsi, ma anche ci fanno sperare e immaginare scenari preziosi per l’anima, e ci offrono risposte ai nostri tanti perché.

    Convinti di aprire le pagine di un romanzo, scopriamo che veniamo condotti per mano, attraverso dialoghi e vicende appassionanti, a percorrere un cammino di conoscenza che a poco a poco rivela la sua natura e il suo intento spirituale.

    Nico Veladiano si è formato alla scuola del Cerchio Firenze 77 e moltissime delle considerazioni e delle rivelazioni che si incontrano sulle pagine di questi tre volumi, hanno a che vedere con quel sapere e con quel suo percorso. Attraverso i dialoghi monologanti dei suoi personaggi, Veladiano fa parlare una sapienza più alta della stessa storia narrata, benché, come accade appunto nella vita di ognuno di noi, quella sapienza risulti essere propria dei personaggi che, inconsapevolmente, la incarnano.

    Questo, che apprendiamo inoltrandosi nella lettura, è un punto cruciale del lavoro di Veladiano ed è anche la bellezza segreta dell’esperienza che ci viene svelata attraverso il racconto: quella, cioè, di incarnare qualcosa d’altro senza saperlo, qualcosa che è sia un destino che una saggezza, la quale supera di gran lunga i fatti contingenti nei quali è parzialmente espressa, e che ricollega le fila di tutto quanto accade ad ognuno di noi, secondo una logica che sfugge all’occhio superficiale, e anzi è spesso invisibile a qualunque occhio, ma che restituisce senso e dignità a qualsiasi cosa l’uomo incontri e viva. Nico Veladiano ci rivela come un’anima, una coscienza, un Sentire, ben più vasto di ciò che siamo capaci di manifestare, sia in realtà il noi stessi più numinoso: ciò che sta dietro e che raramente si mostra, ed è Noi oltre di noi. Un Filo d’argento lega ogni momento della nostra esistenza al suo senso più chiaro e lucente. E Solo il silenzio ne è giusta voce. Un silenzio che può trovarsi solo nella parte più intima del nostro essere, al confine con il Sogno, dove la realtà materiale sfuma in altre possibili, anzi certe, realtà. Su questa soglia, un poco alla volta, ci conducono i libri di Nico Veladiano; e se è vero che possono essere letti come avventurosi e piacevoli romanzi, possono anche rappresentare l’accesso a conoscenze più alte, quelle che impreziosiscono i rapporti e i dialoghi che il protagonista intrattiene con i vari personaggi nel corso del suo viaggiare fuori e dentro di sé.

    Ci sono molti modi di vivere un’importante esperienza interiore, per ognuno che l’abbia incontrata e fatta sua: tra coloro che decidono di non conservarla solo per se stessi, chiusa nel proprio scrigno segreto, e che scelgono di condividerla con generosità, come per restituire almeno un poco del tanto che si è ricevuto, vi sono alcuni, che ne abbiano il talento, i quali decidono di offrirla in maniera semplice, senza alcun intento di fare proseliti alla propria idea, accennandola senza pretese tra le righe di una storia, appena velata e facilmente accessibile a chi voglia coglierne il senso.

    Nico Veladiano è una di queste persone che, avendone il talento, hanno fatto questa scelta, e ci offrono come un dono il dono che è stato loro, e di questo non possiamo che essere grati, perché attraverso di lui questo, che potrebbe essere solo suo, giunge a molti altri, a tutti noi che lo leggiamo.

    Enrico Ruggini

    Firenze 12 novembre 2012

    *******

    (*) Enrico Ruggini: Laureato in Scienze Psicologiche dell'Intervento Clinico, formazione in Psicosintesi Clinica e Counselling. Docente di formazione in ambito sanitario e, specificamente, in area psico-oncologica. Si occupa prevalentemente di sviluppo personale in contesti pubblici e privati. Lavora in ambito oncologico e di fine vita. Conduce regolarmente gruppi di approfondimento sistemico (familiare, aziendale, di equipe) e costellazioni, in varie città italiane, e all'estero Tiene conferenze e partecipa a convegni nazionali e internazionali, su temi inerenti la crescita evolutiva e i sistemi di relazione.

    Lunedì 4 luglio 2011 - Deir Mar Josef (Syria)

    Erano trascorsi otto anni da quando avevo salito gli stessi, faticosi scalini che dallo spiazzo adagiato ai piedi dello sperone roccioso portano alle possenti mura del monastero di Deir Mar Josef, già fortezza romana fino al IV secolo dopo Cristo e, da quel tempo, luogo di preghiera ed eremitaggio. Ora, alle sei di un pomeriggio in cui la calura faceva fremere l’aria, guardavo, immobile, lo stesso percorso che avrei dovuto fare per arrivare alla mèta.

    Mentre il rombo dell’asfittico motore del taxi che dall’aeroporto di Damasco mi aveva portato fino ai piedi della scalinata si spegneva in lontananza e un silenzio irreale si impadroniva dei luoghi, aumentava di pari passo la sensazione di essere l’unico vivente di un mondo abbandonato.

    Un fremito di inquietudine accompagnò l’emergere del ricordo di quel mezzogiorno di un giorno del giugno 2003 quando, con il cuore colmo di angoscia e speranza, mi accingevo ad incontrare padre Pierre Avignon, priore del monastero, indicatomi come la persona che avrebbe potuto condurre una efficace trattativa per liberare l’amica Chiara, impegnata per un’organizzazione umanitaria, rapita qualche giorno prima a Mogadiscio da un gruppo integralista islamico.

    Erano stati giorni, settimane terribili che avevano aperto scenari profondamente nuovi nella vita di molte persone, compresa la mia.

    Calato sulla testa il cappellino di tela e caricato sulle spalle il pesante zaino, varcato il cancello in ferro battuto, poggiando il piede sul primo del 360 scalini che mi avrebbero condotto al traguardo, lo sguardo fu attratto dalla solita, vetusta teleferica che assicurava il trasporto dei viveri fino a un piccolo spiazzo a ridosso del monastero. Pensai ai molti progetti di cui nel corso degli anni mi aveva ripetutamente parlato Pierre, del quale ero divenuto grande amico. Probabilmente molti, forse gran parte, erano rimasti nel cassetto dei sogni. Questa almeno era la sensazione. Nei prossimi giorni avrei avuto modo di sapere.

    Fino a qualche mese prima migliaia e migliaia di persone di ogni fede, accorrevano da tutto il mondo per trovare una sia pur breve, magari brevissima accoglienza sotto la simbolica tenda di Abramo, vessillo della sacra, millenaria ospitalità di quelle mura.

    Pensai che nonostante il grande afflusso di gente, offerte e contributi non dovevano essere stati sostanziosi se lavori necessari, come la sostituzione della teleferica, non erano stati eseguiti. Ma, alla luce di quanto stava accadendo, probabilmente anche la scala delle priorità andava rivista in funzione delle diminuite esigenze.

    In pochi mesi tutto era cambiato: la primavera araba che dall’inizio dell’anno scuoteva il mondo islamico affacciato sul Mediterraneo, stava cambiando la geopolitica di terre che sembravano caratterizzate da una relativa stabilità.

    Rivoluzioni, morti, centinaia, migliaia di morti il prezzo che gli arabi, soprattutto i giovani arabi, stavano pagando per rovesciare regimi che sembravano saldamente radicati nei loro privilegi, sorretti da possenti apparati di sicurezza.

    Una rivoluzione anomala, supportata e per certi versi guidata dai social network, che contrariamente alle previsioni degli immancabili profeti di sventura sembrava, almeno al momento, non scivolare verso una deriva di integralismo islamico.

    Il monito evangelico di guardarsi dalla rabbia dei poveri, in questa situazione sembrava quanto mai appropriato.

    Anomalia nell’anomalia, la Syria al momento non pareva trovare una propria via: la piazza ogni venerdì, dopo la preghiera nelle moschee, si sollevava e trovava, settimana dopo settimana, nuovo alimento, nuova forza, ma un apparato di regime tentacolare e ben radicato sembrava, sia pure faticosamente, in grado di tenere relativamente sotto controllo la situazione, anche se ciò veniva pagato con il sacrificio di vite umane.

    Forse non erano le decine di migliaia di morti di cui l’efficace macchina della disinformazione avversa al regime parlava, ma di sicuro il sangue stava scorrendo e non si intravedeva una soluzione nel breve periodo anche perché le aperture del giovane presidente Bashar al-Asad sembravano trovare scarso consenso tra chi puntava ad un radicale cambiamento e forse erano boicottate da quello stesso apparato di regime che godeva di enormi vantaggi e non aveva nessuna intenzione di passare la mano.

    Ero curioso di conoscere l’opinione di Pierre, che dal suo osservatorio privilegiato, grazie anche a una fitta rete di amicizie locali e internazionali ad alto livello, aveva qualche elemento in più per intuire l’evolversi della situazione. Sicuramente ne avremo parlato, pensai, ma non questa sera.

    Non mi sentivo molto in forma. Nemmeno la mattinata trascorsa a vagare, senza meta, tra colori e odori dell’affollatissimo bazar di Damasco, mi avevano sollevato il morale.

    Non facevo fatica ad ammettere a me stesso di stare attraversando una situazione psicologica di insoddisfazione e inquietudine che nemmeno il lungo colloquio di una settimana prima con l’amico Francesco, abile psicoterapeuta nel quale ho una incondizionata fiducia, era riuscito ad attenuare.

    Certamente Francesco mi aveva dato degli elementi su cui riflettere, ma la cosa di cui avevo maggior necessità era un luogo, fuori dal mondo, in cui cercare di fare ancora una volta chiarezza sulla mia vita. E Deir Mar Josef era il posto che pensavo ideale.

    L’idea mi era balenata improvvisa, proprio mentre stavo parlando con Francesco e l’amico mi stava suggerendo di dedicare qualche giorno a me stesso, lontano da situazioni che avrebbero potuto distrarmi. Pensai a un monastero ed istantaneamente mi tornò alla memoria quel posto isolato della Syria. L’avevo sempre definito un luogo dello spirito. Proprio quello che mi ci voleva.

    Se riesci ad arrivarci!, fu l’unico commento di Francesco, riferendosi alla difficile situazione che sta attraversando quella terra.

    Invece l’ambasciata syriana di Roma fu particolarmente solerte nel mettere il visto sul passaporto. Evidentemente doveva essersi quasi azzerato il flusso dei turisti e loro volevano dare un’impressione di normalità.

    Damasco, effettivamente, mi era parsa assolutamente tranquilla. Probabilmente qualche migliaio di turisti in meno, nelle vie cittadine, non si notava mentre qui, a Deir Mar Josef, l’assenza di auto e pullman nella grande spianata, sotto il promontorio roccioso del convento, faceva ben comprendere che la situazione era cambiata.

    Una decina di minuti dopo, mentre affrontavo l’ultimo tratto di salita, vidi l’imponente figura di Pierre stagliarsi nello spiazzo dove terminava la scalinata. L’avevo avvertito del mio arrivo e qualcuno, che dall’alto aveva scorto quel solitario viaggiatore, era andato a informarlo.

    Quand’era nel suo monastero indossava normalmente la tunica color sabbia che caratterizzava l’ordine monastico da lui fondato. Avevo, fin dalla prima volta che ero arrivato a Deir Mar Josef, pensato che l’abbigliamento adottato fosse particolarmente appropriato a uomini del deserto come si definivano lui e la decina di confratelli e consorelle che dividevano l’impegnativa scelta di vivere in quel luogo.

    L’abbraccio fu caloroso e spontaneo come ad ogni nostro incontro. Non era trascorso molto tempo dall’ultima volta che ci eravamo visti. Nell’autunno precedente, di passaggio a Roma, era stato nostro ospite a cena.

    Ci aveva aggiornato sui suoi progetti, sugli innumerevoli spostamenti da una parte all’altra del mondo per tenere conferenze, partecipare a seminari, diffondere quella cultura dell’accoglienza e del dialogo che rappresentava la bandiera della sua vita e della sua comunità.

    Una voce profetica, pensai, che veniva dal deserto e che, purtroppo, parlava in un deserto affollato da milioni di individui sordi alle sue esortazioni.

    Perché non vai alcune settimane in Syria con lui? - aveva suggerito la mia compagna Isabelle, affascinata anche lei dalla spontaneità e dall’idealismo di Pierre -. Sicuramente potrai essergli utile a magari anche trovare lo spunto per qualche altro articolo o un nuovo libro.

    Per uno come te - aveva prontamente risposto l’amico - di lavoro ce ne sarebbe molto. C’è tantissima gente che mi scrive, soprattutto via mail. I due, tre cooperanti che lavorano al monastero non riescono sempre a rispondere e poi non hanno molta esperienza. Potresti anche dare una mano con i turisti. Un mese a Deir Mar Josef sarebbe utile a noi e anche a te.

    Condivido pienamente - aveva aggiunto Isabelle rivolgendosi a Pierre - negli ultimi anni ha smesso di viaggiare, fa il pensionato a tempo pieno. Si limita a scrivere qualche articolo di tanto in tanto, quando glielo chiedono. Passeggia e legge. Non è da lui. Giovanni può ancora fare e dire molto!

    Sì, quello che sostiene Isabelle è anche vero - risposi - però non ho più l’età per un lavoro come quello che ho fatto per decenni. Bisogna lasciare spazio ai giovani, ma soprattutto sono cambiati i giornali. La gente legge poco, gli articoli devono essere brevi, gran parte delle notizie, interviste comprese, vengono acquistate attraverso le agenzie. Gli approfondimenti sono rari. Le guerre spesso vengono raccontate da corrispondenti che vivono in hotel lontani da dove si combatte veramente. È un mondo nuovo e deve essere gente nuova a raccontarlo. Con il lavoro di giornalista, come lo facevo io, ho chiuso.

    Allora ti aspetto - aveva detto Pierre - salutandoci prima di ritornare nel convento di cui era ospite. L’indomani sarebbe partito verso gli Stati Uniti dove era atteso per un ciclo di conferenze in varie università.

    Vedi che ho accettato il tuo invito - dissi a Pierre terminato l’abbraccio di saluto - un po’ in ritardo rispetto al tuo invito, ma sono arrivato!

    No, non era cambiato nulla dalla mia precedente visita. Almeno questa era la prima impressione. Il solito ingresso, alto un metro e venti, che costringeva a passare quasi carponi nel varco a elle ricavato nell’imponente mura di cinta, probabilmente lo stesso di quando il complesso era una fortificazione romana, al confine sud dell’impero. Stessa anche la tenda di Abramo, il grande cortile-terrazzo coperto da un enorme telone, in cui si sbucava dopo aver superato il varco. A mancare era solo la gente. Il monastero era tornato alle origini, quando solo una manciata di monaci eremiti lo popolava e accoglieva i rari pellegrini senza chiedere provenienza, destinazione, origine e religione. L’ospitalità fine a se stessa, l’ospitalità di Abramo, l’ospitalità che praticava Pierre anche quando migliaia di visitatori all’anno salivano la dura scalinata ed erano accolti e sfamati. Nulla veniva chiesto, l’obolo era lasciato alla generosità del viandante. Ora come allora.

    Sì, pensai, qui il tempo è davvero diverso. Probabilmente sono giunto nel posto giusto.

    Tra poco ci sarà il rito della messa serale - disse Pierre, interrompendo il corso dei miei pensieri - se vuoi puoi partecipare. Suono la campanella e ci troviamo tutti in chiesa. Dopo avremo modo di parlare. Mi racconterai cosa ti ha portato qui.

    L’amico si spostò di pochi passi e, dopo aver tirato con energia la corda della campanella fissata in alto sulla parete della chiesa prospiciente il breve slargo che dava sul cortile principale, si levò i sandali entrando, secondo l’usanza arabo-siriaca, a piedi nudi in chiesa.

    Nel giro di pochi minuti una decina tra monaci e monache fece ingresso alla spicciolata in chiesa. Notai anche un ragazzo e una giovane, in jeans e maglietta, scendere da una precaria scaletta in legno che dal cortile portava ad una serie di locali, al primo piano, sopra la cucina, che ricordavo essere adibiti ad uffici. Probabilmente erano gli unici due cooperanti rimasti in quel periodo di crisi. Se in precedenza ce n’erano altri, avevano preferito rientrare in patria per non trovarsi magari bloccati dagli sviluppi di una situazione che poteva anche sfociare in una guerra civile.

    Mi levai le leggere scarpe da trekking e entrai poggiando i piedi sui soffici tappeti orientali che coprivano l’intero pavimento. Mi accoccolai in disparte, a gambe incrociate, osservando, nella tenue luce con cui era illuminata la chiesa, Pierre che con paramenti del rito cristiano-siriaco iniziava la celebrazione della messa.

    Dopo un po’ mi chiesi se fossi l’unico a non comprendere le parole del rito, dato che Pierre usava la lingua ufficiale del monastero, l’arabo. Forse anche i ragazzi che pensavo cooperanti, seduti con la schiena appoggiata ad una larga colonna, erano nella mia

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