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Il piccolo negozio degli amori perduti e ritrovati
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E-book536 pagine7 ore

Il piccolo negozio degli amori perduti e ritrovati

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller La casa dei sogni

Alice Rose ha trascorso la sua vita desiderando di scoprire chi fossero i suoi genitori naturali. Quando era in fasce, infatti, è stata ritrovata nelle brughiere dello Yorkshire, vicino alla cittadina di Haworth. Dopo un’adozione finita male si è dovuta prendere cura di sé stessa, cercando un luogo che la facesse sentire a casa. E in effetti un luogo simile esiste: è la sua cucina. Quando annusa gli aromi di cannella e di limone o affonda le mani nella farina, ha la certezza di essere finalmente nel posto giusto. E così decide di aprire una piccola sala da tè a Haworth, sicura che questo passo segnerà l’inizio di una nuova vita. Gli amici infatti non tardano ad arrivare e tra loro c’è anche l’affascinante vicino di casa, che si offre di aiutarla a risolvere il mistero che coinvolge la sua famiglia. Ma la verità richiede spesso una buona dose di coraggio. Alice non vuole di certo sottrarsi alle prove che la aspettano, e sa che farà di tutto per conquistare il lieto fine che merita...

Non si aspettava di trovare il luogo perfetto per scrivere il suo lieto fine…

«Questo libro è l’intrattenimento perfetto per un pomeriggio di lettura. Un romanzo splendido che rievoca le sorelle Brontë.»
The Lady

«Trisha Ashley ci porta nelle brughiere inglesi e riesce a farci sentire a casa. Una lettura straordinaria.»
Writing Magazine

«Una delle più brave autrici in circolazione.»
Katie Fforde

Trisha Ashley
è nata nel Lancashire e ha studiato allo Swansea Art College. Oggi vive in Galles. È autrice di diversi romanzi femminili di successo, che hanno scalato le classifiche in Inghilterra. I suoi libri sono tradotti in Germania, Portogallo, Repubblica Ceca e Turchia. La Newton Compton ha pubblicato Cosa indossare al primo appuntamento, 12 giorni a Natale, La casa dei sogni e Un Natale indimenticabile.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734167
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    Anteprima del libro

    Il piccolo negozio degli amori perduti e ritrovati - Trisha Ashley

    1

    C’era una volta una favola

    Alice

    Autunno 1995

    Sono cresciuta sapendo di essere stata adottata, quindi la notizia non è mai stata una rivelazione sconvolgente ma solo una delle mie tante caratteristiche, come i capelli rossi e ricci, le sopracciglia scure e particolari, la sottile cicatrice quasi invisibile sul labbro superiore e gli occhi verde chiaro (come due chicchi d’uva spina bolliti, a sentire mia madre, anche se mio padre diceva che erano occhi da sirena, il colore del vetro verde bagnato dal mare).

    Da piccola passavo ore e ore seduta a dipingere con papà nel suo studio, che era una piccola dépendance nel giardino, mentre la sua voce profonda e gentile mi avvolgeva raccontandomi la dolce favola nella quale la mia giovanissima madre disperata era stata costretta ad abbandonare la sua povera, minuscola bimba nata prematura, sperando che qualcuno come la mamma e il papà l’adottassero.

    Anzi, come il papà, direi piuttosto, dato che alla fine mi ero resa conto che Nessa (aveva voluto che la chiamassi così e non mamma praticamente dall’attimo in cui ero stata in grado di formulare una frase) non aveva il minimo istinto materno: si era solo adeguata al desiderio di lui di avere una famiglia, fiera della consapevolezza di non essere in grado di dar vita a un bambino nemmeno se l’avesse voluto.

    «Una fatina malvagia aveva fatto un incantesimo alla piccola Alice, ma quando i bravi dottori le sistemarono il labbro, tutti convennero nel dire che era la principessa più bella dello Yorkshire», concludeva la sua storia, sorridendomi da sopra le sue tele. «Misero la fata cattiva in una gabbia, e tutti le lanciavano contro pomodori marci», suggerivo io, tirando fuori punizioni anche peggiori, perché alcuni dei libri di favole che mi aveva regalato la nonna paterna, tra cui uno dalle illustrazioni strane eppure meravigliose di Arthur Rackham, avevano un’enorme influenza sulla mia immaginazione. Avevamo vissuto vicino a nonna Rose, a Knaresborough, finché, quando avevo otto anni, non ci eravamo trasferiti in un paese ai margini di Shrewsbury, e ancora me la ricordo mentre mi leggeva la lunga, lunghissima poesia di Edith Sitwell sulla Bella addormentata quando mi metteva a letto. Lentamente scivolavo in quel mare di parole musicali, meravigliose, che mi raccontavano di streghe cattive e incantesimi.

    Tra le storie preferite della nonna c’erano Bambini acquatici e Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie – quest’ultima era anche una delle mie preferite, dato che la protagonista si chiamava come me. Pregai di poter avere le sue splendide copie antiche quando lei morì, e mio padre fece in modo che mi spettassero, anche se Nessa premeva per incaricare una ditta dello sgombero di tutta la casa. Era un’amante del minimalismo… tranne per quel che riguardava i vestiti, i gioielli e le scarpe che appartenevano a lei.

    La nostra casa era come una storia divisa in due parti, con la gran parte del disordine caotico e creativo concentrata nello studio di papà, una costruzione a sé stante che un tempo forse ospitava le stalle, finché lui non aveva sposato una strega cattiva travestita da ex cantante d’opera bellissima e appariscente che l’aveva bandito laggiù.

    Insomma, come potete vedere tendo a trasformare ogni avvenimento della mia vita in una fiaba dai risvolti tetri: è più forte di me!

    «Gettarono anche delle uova marce contro la fata cattiva», aggiunsi convinta, una volta, alla storia che ben conoscevo.

    «Be’, forse, ma solo finché lei non chiese scusa, e allora la liberarono», era intervenuto mio padre, compassionevole come sempre.

    Col passare degli anni avevamo aggiunto al racconto dettagli sempre più assurdi a ogni ripetizione, ma era stato un esercizio utile, perché ero cresciuta sapendo di essere stata abbandonata nel paese di Haworth, nello Yorkshire, e poi adottata, e la sottilissima cicatrice chiara che avevo era l’unica testimonianza rimasta del fatto che ero nata con il labbro leporino.

    Solo tempo dopo, ovviamente, mi resi conto che mio padre non poteva sapere se la mia madre naturale fosse giovane o meno, e inoltre, quando sviluppai una vera ossessione per la famiglia Brontë e per Haworth, capii che era assai improbabile che lei avesse salito in punta di piedi i gradini del Parsonage nel cuore della notte e mi avesse lasciata lì, sperando che lui e Nessa passassero poco dopo e mi raccogliessero. Voglio dire, all’epoca era un museo, quindi doveva essere chiuso, in più non era così che funzionavano le adozioni. (Sono tuttora sorpresa che abbiano scritto il nome di Nessa sul registro. Posso solo immaginare che avesse preso il sopravvento la sua preparazione operistica, e che questa le avesse fatto apparire irresistibile l’idea di lanciarsi nel ruolo della smaniosa madre potenziale).

    Ma mentre Nessa mi riservava qualche eccentrica dimostrazione d’affetto solo quando venivano a trovarci le sue amiche di Londra (una delle quali una volta diede a intendere con malizia che lei non avesse poi tutta questa voce nemmeno prima che l’intervento alle corde vocali mettesse fine alla sua carriera), avevo conosciuto l’amore vero da mia nonna e da mio padre.

    E poi avevo anche Lola, la mia migliore amica, e i suoi adorabili genitori, proprietari di una piccola tenuta vicino a noi, che coltivavano piante aromatiche per il commercio. Li aiutavamo a badare alle galline e alle capre, correvamo per i campi e imparavamo a cucinare nella lunga e fresca cucina piastrellata. In ogni istante della mia vita, la preparazione di prodotti da forno – ma anche solo il profumo della cannella e della frutta secca – ha sempre avuto il potere di infondermi un senso di calore e di tranquillità.

    Dunque, nel complesso, la mia fu un’infanzia idilliaca, anche se non appena gli ormoni ribelli dell’adolescenza entrarono in gioco, cominciai a scontrarmi sempre più spesso con Nessa.

    Eppure i dettagli più sottili del mio lontano passato non parvero avere importanza… fino al giorno in cui all’improvviso mio padre morì per un attacco di cuore che non gli diede scampo quando avevo quasi diciotto anni, e il mio mondo pieno di certezze e sicurezze mi crollò tutto intorno come un castello di carte.

    In una qualsiasi altra famiglia, la sua perdita avrebbe avvicinato me e Nessa; lei però non era tanto sconvolta dal dolore quanto piena di una rabbia esplosiva, quasi tutta indirizzata verso di me. Sviluppò un’ossessione per il denaro tale che subito dopo il funerale vendette tutto ciò che si trovava nello studio di papà (era un artista piuttosto conosciuto) a un collezionista americano senza neppure parlarne prima con me, chiudendo a chiave la porta in modo che non potessi nemmeno entrare lì dentro e trovare sollievo tra i dolci odori familiari della pittura a olio e della trementina.

    Era già abbastanza difficile così. Ma poi, con una fretta ancor più indecente, fece venire a vivere un altro uomo in casa nostra, una persona orribile, oltretutto, che quando lei non poteva vederlo si avvicinava a me con fare troppo amichevole e addirittura lascivo, spaventandomi; fu così che mi resi conto di essere di troppo in quella casa e che lei non vedeva l’ora che me ne andassi all’università, l’anno seguente.

    Il dolore per la perdita di mio padre era ancora vivo e non riuscivo a sopportare la presenza di un altro uomo al suo posto, così ebbi una lite terrificante con Nessa che culminò con me che le dissi che la odiavo e che sarei andata alla ricerca della mia vera madre. «Non potrà certo essere peggiore di te!», conclusi.

    «Sei una trovatella, cara, non hai la minima possibilità di rintracciarla», ribatté tagliente. «E se anche ci riuscissi, considerato che ti ha scaricata nelle brughiere in una gelida notte d’inverno, non credo proprio che ti accoglierà a braccia aperte».

    Chiusa in un silenzio sconvolto, la fissai mentre analizzavo le implicazioni di quanto aveva appena detto. «Non… non mi ha lasciata nel paese di Haworth, ma nelle brughiere, dove pensava che non mi avrebbero mai trovata?», chiesi infine.

    Nessa mi guardò e la sua collera diminuì un poco, trasformandosi in una sorta di malcelato piacere perverso che mi lasciò interdetta: sapevo che non mi aveva mai voluto davvero bene, ma fino a poco tempo prima ero stata convinta che provasse per me quel poco di affetto che la sua natura egoista le avrebbe permesso.

    «Tuo padre non ha mai voluto che ti dicessi la verità, ma credo sia stato un errore. E forse lei era un po’ svitata e pensava che qualcuno ti avrebbe trovata davvero», suggerì, credo intuendo dalla mia espressione di aver esagerato.

    «No, se mi ha abbandonata di notte in una terra tanto inospitale è evidente che sperava che morissi e che nessuno mi trovasse mai», dissi intontita, perché l’incantesimo della favola di mio padre ormai era stato fatto in mille pezzi e non c’era verso che potesse essere riparato. Mi sentivo svuotata, sola e perduta… e non voluta, non desiderata da nessuno al mondo.

    «Ti odio!», gridai con improvvisa foga mentre calde lacrime mi riempivano gli occhi. «Perché non sei morta tu invece di papà? Ah, no, tu non potevi avere un infarto, perché non hai un cuore. Non mi hai mai amata come la madre di Lola ama lei».

    Lei scrollò le spalle. «Immagino che Dolly abbia desiderato dei figli, cosa che io non avrei mai provato nemmeno se avessi potuto averne. Tuo padre mi ha dato l’assillo finché non ho accettato l’adozione, e quando ci hanno proposto una neonata era al settimo cielo. Solo che ti avevano appena operata al viso e con quei capelli color carota non si può dire che fossi proprio una delizia, mia cara».

    Ora che si erano aperte le cateratte della sincerità, divenne impossibile mettere un freno alle rivelazioni dolorose, così ne aggiunsi una anch’io: le dissi che il giorno prima, mentre lei era fuori, il suo viscido nuovo amante aveva cercato di baciarmi e aveva fatto dei commenti fuori luogo.

    «Serpe bugiarda nel mio seno!», mi aveva gridato lei contro, furiosa, aggrappandosi alle sue generose rotondità come se fosse appena stata morsa da un aspide. E anche se ovviamente non mi credeva (ed era proprio per questo che non gliel’avevo detto prima), da quel momento in poi la rottura tra noi fu irreparabile.

    L’alba mi trovò su un pullman diretto in Cornovaglia, nella borsa il denaro che Lola aveva ricevuto per il compleanno e che mi aveva prestato per aiutarmi a tenermi a galla. Portai con me solo una valigia, lasciando alla sua custodia tutti i miei tesori più preziosi, tra cui i libri della nonna e un piccolo ritratto di me in colori a olio dipinto da mio padre.

    Lola voleva dire a sua madre cos’era successo, ma le avevo fatto giurare di mantenere il segreto finché non avessi trovato un lavoro e un posto in cui vivere.

    «All’inizio starò in un bed and breakfast, e poi ci sono tanti alberghi e bar in cui posso trovare un lavoretto nell’attesa di avere qualcosa di stabile», le assicurai.

    Ispirata da alcune vecchie storie di mio padre sulla scuola di Newlyn e dalle nostre vacanze in Cornovaglia, avevo elaborato un’idea romantica secondo cui mi sarei unita a un collettivo artistico, dove avrei coltivato le mie aspirazioni a diventare scrittrice e pittrice; tuttavia, tempo dopo capii che non era solo un’idea poco realistica, ma anche che ero in ritardo di qualche decennio.

    La cruda realtà fu che al mio arrivo, nel tardo pomeriggio di un giorno di bassa stagione, molti locali erano chiusi per l’inverno e nessuno cercava personale, il che non mi diede altra scelta se non trascorrere la prima notte raggomitolata in un capanno sul lungomare… e in brevissimo tempo la mia immaginazione iperattiva popolò gli angoli più bui di goblin che borbottavano minacciosi e di creature terrificanti che sembravano arrivate dalle opere di Hieronymus Bosch.

    Quando il vento freddo fece volare un bicchiere di carta lungo la passeggiata, pensai che fossero i tonfi di passi di corsa, e perfino il dolce e costante sussurro del mare mi sembrava una conversazione crudele a proposito di me.

    Avevo cominciato a scrivere delle rivisitazioni in stile moderno di favole, fiabe e storie folkloristiche, con in più un pizzico di horror, ma a guardar bene, questa principessa non era affatto una ragazza fichissima capace di salvare sé stessa ma una povera bimbetta smarrita e piena di paura che aveva un bisogno disperato di un bel principe… ma anche di uno brutto, bastava che fosse gentile.

    Che diamine, ero pronta a farmi bastare una rana che fosse anche solo un pochino amichevole.

    Le lacrime mi rigavano il viso e rabbrividii, mentre il vento freddo aumentava d’intensità e mi abbracciava le gambe.

    Poi, all’improvviso, sentii il ticchettio regolare di tacchi alti e l’abbaiare agitato di un cagnolino. Non ebbi il tempo di raggomitolarmi meglio nel mio angolo buio, perché il cane corse dentro e mi trovò.

    Si accese una torcia e socchiusi gli occhi di fronte al fascio di luce accecante, ma ebbi il tempo di cogliere la sagoma esile e per nulla minacciosa dietro di esso, così il battito del mio cuore rallentò.

    «Ehi, Ginny, che cosa hai trovato?», disse una voce femminile marcata da un leggero accento delle Highlands in tono sorpreso. «Una bambina?».

    *

    Dopo aver passato tanti anni a scacciare gli eventi di quella notte terrificante dalla mia mente, è strano che proprio ora, tornata a vivere con mio padre a Upvale, all’improvviso io li ritrovi, pronti ad assalirmi.

    Ho deciso di scrivere un racconto dettagliato di quanto accadde e di sottolineare i motivi perfettamente logici che mi portarono ad agire in quel modo, nella speranza di esorcizzarlo. La mia coscienza è, com’è sempre stata, assolutamente pulita.

    2

    The Bonny Banks

    Il mio cavaliere in Burberry scintillante era Edie, la proprietaria di un piccolo albergo del luogo, che stava facendo fare una passeggiata serale al suo cagnolino, un Pomerania. Era una donna d’affari vivace, intelligente, di quasi sessant’anni, un metro e cinquantasette di tenace determinazione scozzese, ma con un debole per i senzatetto e i randagi.

    «No, non direi proprio una bambina», dichiarò quando mi alzai in piedi sovrastandola in altezza, e poi, non appena le feci un rapido sunto della mia situazione, mi portò subito al suo hotel.

    Arrivate lì mi fece scongelare con una zuppa calda e mi mandò a dormire in una stanza vuota tra quelle riservate al personale di servizio, all’ultimo piano, con il suggerimento di non preoccuparmi perché la mattina seguente tutto mi sarebbe sembrato meno grave.

    Quando il giorno dopo ebbi la possibilità di chiamare Lola per farle sapere che stavo bene, mi confessò che si era spaventata e aveva raccontato a sua madre tutto, perfino dov’ero diretta.

    «Però non sapevo di preciso dove andavi», spiegò. «Solo che era la Cornovaglia».

    «Ci ho messo molto più di quanto pensassi ad arrivare qui, così quando ha iniziato a far buio mi sono detta che era meglio scendere alla prima fermata lungo il mare», dissi.

    «La mamma ha detto che avrebbe preferito che ne parlassi subito con lei, vuole che torni indietro e che vieni a vivere da noi finché non andremo all’università, Alice».

    «È davvero gentilissima, ma non voglio più andare all’università», risposi. «Ho accettato di iscrivermi ai tirocini per diventare insegnante solo perché non mi veniva in mente nessuna alternativa quando mi hanno respinta all’Accademia di Belle Arti».

    Se le facoltà artistiche cercavano qualcuno, a quanto pareva non era una ragazza con un’estrema somiglianza con la musa preraffaellita Lizzie Siddal ma che disegnava un mondo contemporaneo fatto di riferimenti alle favole con un tocco horror in pittura a inchiostro e acqua, una sorta di Arthur Rackham da incubo. Forse avrei potuto provare a prendere una laurea in Letteratura e Scrittura creativa, ma non ne vedevo il senso: leggevo ogni libro su cui riuscivo a mettere le mani e non si poteva certo dire che le mie interpretazioni moderne delle fiabe tradizionali non fossero creative.

    A quel punto dissi a Lola che alloggiavo in un piccolo hotel sul lungomare chiamato The Bonny Banks e che la proprietaria, Edie, mi avrebbe messa alla prova su vari lavori per decidere a quale fossi più adatta.

    Avevamo già scoperto che non avrei rifatto i letti.

    In breve scoprimmo che nemmeno le pulizie erano il mio métier (ero troppo propensa a perdermi in sogni a occhi aperti), e neanche servire ai tavoli, dato che non solo ero molto riservata, con le labbra carnose che mi davano un’aria sempre imbronciata, ma quando mi decidevo a dire qualcosa, dimostravo una mancanza di tatto senza pari. Forse ero troppo abituata a dare rispostacce, considerando che ero cresciuta insieme a Nessa, esperta in commenti caustici e taglienti.

    Credo che Edie cominciasse a temere che il suo brutto anatroccolo non si sarebbe mai trasformato in un cigno guardabile, finché non trovai il mio elemento: le cucine. Grazie agli insegnamenti ricevuti dalla mamma di Lola, ero in grado di preparare torte e pasticcini favolosi e se anche i miei pensieri si perdevano in qualche terra di fate mentre, con la testa tra le nuvole, impastavo burro e farina, probabilmente era un bene, perché nei miei dolci c’era sempre un tocco di magia.

    Come c’era da aspettarsi, fu Dolly, la mamma di Lola, a venire a trovarmi un paio di settimane dopo. Anche se sapevo che avrebbe detto a Nessa dove mi trovavo, non aveva ancora provato a contattarmi, quindi immaginai che il mio destino non le interessasse.

    Non pensavo certo che la Strega Malvagia si mettesse a cavallo della sua scopa e volasse laggiù per verificare come stavo, eppure per me fu un altro abbandono. Prima quello della mia madre naturale, poi quello di papà (anche se lui non aveva colpa per essere morto, ero lo stesso in collera con lui), e adesso Nessa mi aveva lasciata andare alla deriva. O forse mi ero spinta da sola alla deriva e lei aveva solo deciso di non lanciarmi un salvagente.

    Scoprii che la mia ultima considerazione era quella giusta. Dopo aver scambiato due parole con Dolly, Edie mi portò fuori a prendere un tè e mi spiegò che era andata da Nessa non appena avevo detto a Lola dove fossi.

    «Credevo di trovarla preoccupatissima per te e che sarebbe stata sollevata sapendo che stavi bene», disse. «Invece mi ha detto che hai rivolto al suo fidanzato accuse così infamanti che non ti vuole più in casa sua».

    «L’ho fatto, ma era la verità».

    «Sì, le ho risposto che non sei mai stata una persona che racconta bugie, e che se avevi detto che lui ci aveva provato con te, allora doveva essere vero».

    «Hai detto fidanzato?», chiesi. «Quindi sposerà quel mostro?»

    «Così sembra, e appena avranno venduto la casa si trasferiranno a Londra. C’è già il cartello di un’agenzia immobiliare in giardino».

    Ebbi una fitta di tristezza, non tanto per la casa, quanto per lo studio in giardino, che conteneva così tanti ricordi felici di papà. In ogni modo, però, ormai tutto ciò che c’era là dentro doveva già essere stato caricato in un container e spedito in America.

    «Non riesco davvero a capire come una madre possa comportarsi così», disse Dolly scuotendo il capo con tristezza; qualche sottile ciocca setosa dei suoi capelli bianco-biondo si sfilò da un fermaglio a forma di farfalla di madreperla e le scivolò lungo il viso. «Aveva già preparato degli scatoloni con tutti i tuoi averi e stava per regalarli a un negozio di seconda mano, ma per fortuna le ho detto che li avrei tenuti da me. Adesso sono nella mia soffitta, anche se Lola ti ha mandato alcune cose che ha pensato potessero servirti».

    «Sei molto gentile», le dissi con gratitudine, desiderando – e non per la prima volta – che fosse lei mia madre e non la Strega Malvagia.

    «Tesoro, ti vogliamo tutti bene. Sai che puoi venire a stare da me anche subito e poi partire per il college insieme a Lola in autunno, vero? E durante le vacanze ovviamente sarai la benvenuta da noi».

    Ero così commossa che mi sentii chiudere la gola. Le sue parole arrivavano dal cuore, ne ero sicura. Eppure non volevo essere il pezzo del puzzle sbagliato nel quadro della loro famiglia felice, quello diverso dagli altri e che doveva riuscire a adattarsi in qualche modo.

    «Me la caverò», le assicurai. «Vivrò qui in Cornovaglia e lavorerò, e prima o poi potrò permettermi una casa mia. E poi ci sono lezioni serali d’arte e gruppi di scrittura in cui posso entrare… mi piace stare qui».

    Ed era vero, perché era un posto favoloso. Certo, non era il mio posto, non come lo era stato il nostro paese vicino Shrewsbury. Nessun luogo poteva esserlo.

    Nemmeno Haworth, che un tempo era stata l’Avalon che avevo desiderato e al tempo stesso temuto di visitare, un terrore nato dal sospetto che non potesse reggere il confronto con le storie rassicuranti di mio padre a proposito di come ero stata abbandonata. Dato che avevo scoperto di essere stata lasciata nelle brughiere, lontano forse chilometri e chilometri, potevo venire da ovunque.

    Tuttavia mi stabilii in Cornovaglia per qualche anno, anche se le mie radici restavano comunque appena sotto la superficie del terreno.

    Edie divenne una buona amica, nonostante la differenza d’età tra noi, e la famiglia di Lola mi diede sostegno e un rifugio in cui potevo sempre tornare, sicura di essere accolta a braccia aperte.

    Non ebbi più alcuna notizia della Strega Malvagia, dopo che la casa fu venduta e lei se ne fu andata a Londra. Era come se per tutti quegli anni avesse solo fatto finta di essere mia madre… e in effetti, in fondo, era proprio così. Le era stato dato quel ruolo, ma la rappresentazione era durata più a lungo di quanto lei avesse sperato.

    Lola andò all’università nell’autunno seguente per studiare Storia, ma invece che proseguire gli studi e seguire un corso di perfezionamento per l’insegnamento come voleva, si era innamorata di uno storico in visita che era più vecchio di suo padre ed era andata a vivere a Hampstead dove aveva cresciuto tre bambine. Diceva che Harry, suo marito, aveva un animo giovane e il suo stesso senso dell’umorismo, e quando lo conobbi scoprii che era proprio così. Erano davvero anime gemelle, e anche se le stelle non erano allineate sulla loro età, erano pronti a prendere tutta la felicità insieme che il destino avrebbe loro concesso.

    Nel frattempo io passavo da un lavoro all’altro: preparavo dolci in un caffè, facevo la chef pasticcera in un grande albergo, costringevo la glassa a dar vita a fantasie commestibili per un pasticcere… un po’ di tutto, insomma. Ogni tanto tornavo da Edie, dove la mia stanza era sempre pronta e io ero sempre la benvenuta.

    Nel tempo libero presi lezioni di pittura e imparai ad accettare che il mio talento trovava una migliore applicazione nelle illustrazioni che nelle belle arti, provai a inserirmi in alcuni gruppi di scrittura e socializzai in un pub per artisti con un gruppo di amici bohémien e spesso transitori.

    Fu lì che alla fine conobbi Robbie e mi innamorai di lui… anche se all’epoca ero così abituata ai miei spazi che non riuscii mai ad andare a vivere con lui. Avevo risalito la china lentamente: prima una stanza in affitto, poi un monolocale e infine un appartamentino. Non era facile trovare qualcosa di economico in una località turistica coi pochi soldi che avevo.

    Robbie somigliava un pochino a mio padre, credo, perché era un omone allegro e rassicurante, sempre pronto a dare caldi abbracci dal potente effetto consolatorio. Era un dentista, incredibile ma vero, anche se la sua grande passione erano il surf, il kayak, il deltaplano o qualsiasi sport dai risvolti pericolosi. Avevo sempre paura di perderlo, ma non nel modo in cui accadde davvero, quando emigrò in Australia.

    Non era il tipo da impegnarsi in modo permanente, e anche se mi chiese di seguirlo laggiù non appena si fosse stabilito, non avevo creduto nemmeno per un attimo che dicesse sul serio. E poi, io non ci volevo andare. Voglio dire, con la mia pelle chiara da fantasma, i capelli rossi e il fastidio anche solo per un tiepido sole, per sopravvivere in un Paese caldo avrei dovuto fare la vita di un vampiro.

    Il giorno in cui partì, lasciandomi in pegno il suo vecchio Maggiolino corroso dalla salsedine con delle margherite hippie dipinte su una fiancata, mi parve di essere stata abbandonata ancora una volta.

    Eppure, come mi fece notare Lola quando andai a Londra insieme a lei e Harry poco dopo la partenza di Robbie, la mia vita era stata anche costellata di una serie di fortunate coincidenze: da neonata ero stata trovata viva dopo essere stata esposta agli elementi, avevo avuto un padre meraviglioso e Edie mi aveva salvata la primissima sera del mio arrivo in Cornovaglia da chissà quali pericoli.

    «E tu e la tua famiglia mi siete sempre stati vicini», aggiunsi con gratitudine. «Non sono triste per Robbie, adesso mi rendo conto che non eravamo una coppia poi così unita e non saremmo mai approdati a un matrimonio o a una famiglia, anche se abbiamo avuto dei momenti belli insieme».

    Ripensai ai più di dieci anni trascorsi in Cornovaglia e aggiunsi, sorpresa: «Sai, quando mi sono trasferita quaggiù non immaginavo che avrei passato la vita nelle cucine dei locali! Non so perché ma ero convinta che sarei riuscita a guadagnarmi da vivere scrivendo e dipingendo».

    «Ma hai venduto qualche quadro e ti hanno pubblicato alcuni racconti», mi disse Lola incoraggiante.

    «Ho abbandonato l’idea di cercare di vendere i miei quadri perché in cuor mio so di non essere abbastanza brava, e tutti i miei romanzi sono stati rispediti al mittente».

    «Trovo che i tuoi dipinti siano splendidi, ma forse si rivolgono a un mercato di nicchia», suggerì lei, piena di tatto. «In più immagino che i lettori non siano ancora pronti alle favole da adulti in stile noir. E se provassi a cambiare direzione?».

    Così feci, anche se non nel senso che intendeva lei. Nella primavera del 2007 caricai ogni mio avere nel vecchio Maggiolino e partii alla volta della Scozia per andare a lavorare nel Climber’s Café di Dan Carmichael.

    *

    Ripensando alla mia adolescenza, mi stupisce che sia stata in grado di guidare fino a Blackdog Moor ancora debole e tremante per lo shock, e che abbia saputo affrontare il dedalo di stradine piene di buche nell’oscurità che precedeva l’alba.

    Mio padre mi aveva regalato la Mini solo da poche settimane, dopo che avevo superato l’esame per la patente al primo colpo, un’auto che era il mio gioiellino… o almeno lo era, finché non era stata macchiata per sempre dagli eventi di quella notte.

    L’Orrore – non riuscivo a pensarla come una bambina – era avvolta in un tappetino di pelle di pecora un tempo bianco ed era distesa immobile e silenziosa davanti al sedile del passeggero. Immaginavo che fosse morta, dato che dopo quei primi deboli vagiti non aveva dato segni di vita, e ciò mi provocava un sollievo incredibile. Mi sentivo come Frankenstein, inorridita dalla creazione mostruosa che era il risultato della mia prima – ed ero decisa a farla restare anche l’ultima – storia d’amore, dell’estate precedente.

    Se solo mio padre ne avesse scoperto l’esistenza, quell’essere avrebbe potuto distruggere il mio futuro fatto di certezze e tranquillità; ma ero assolutamente determinata a far sì che non accadesse mai.

    3

    Il caffè della tristezza

    Il trasferimento dalla Cornovaglia alla Scozia fu l’apice di una serie di eventi, non ultimo il mio ventinovesimo compleanno e il fatto che vedevo i trent’anni incombere all’orizzonte come una nuvola un tantino minacciosa.

    In più, dopo essere emigrato, Robbie mi aveva cercata soltanto nei brevi intervalli di autocommiserazione, in preda ai fumi dell’alcol, che intervallavano una serie di bellissime fidanzate australiane dalle gambe lunghe. (Quando, tempo dopo, diventammo amici su Facebook, ebbi anche modo di vedere quelle ragazze, dato che caricava tutta la sua vita personale sul suo profilo).

    I miei amici locali si trasferivano, si sposavano o mettevano su famiglia – a volte facevano tutte e tre le cose – mentre io non avevo nessuna occasione importante e meno che mai un compagno. Così, quando Edie decise di andare quasi in pensione, mettendo in vendita l’hotel e comprando un piccolo albergo sulle montagne in cui era nata, mi sentii ancora più sola e a un punto morto. Fu proprio allora che trovai l’annuncio di Dan, che cercava un aiuto in cucina per il suo Climber’s Café in un paese non troppo lontano da Edie.

    Dan aveva dieci anni più di me ed era più basso di me di due o tre centimetri, ma aveva una personalità forte e carismatica, oltre a essere una leggenda delle scalate di cui perfino io avevo sentito parlare. Con i capelli biondi irti e gli occhi azzurri vivaci, lo trovai subito attraente, ma ci volle comunque quasi un anno – e un anello di fidanzamento – per convincermi che il lieto fine non esisteva soltanto nelle favole e ad andare a vivere nella sua casetta vittoriana accanto al locale.

    Avrei dovuto aspettarmelo. Cominciarono a passare gli anni senza che stabilissimo una data per il matrimonio né mettessimo in cantiere la famiglia tutta mia che tanto desideravo… infine lui rimase ucciso durante un’arrampicata per uno stupido programma televisivo su delle rocce costiere che aveva già scalato più di dieci volte.

    Stava affrontando il difficilissimo tratto per salire Gannet Rock su Lundy Island per la prima puntata. Laggiù è possibile arrampicarsi soltanto prima di aprile, o verso la fine dell’anno, e lui aveva scelto l’inizio di marzo. Io ero in collera con lui perché si era dimenticato che il 2 era il mio compleanno e sembrava pensare che non sarebbe stato un problema festeggiarlo in ritardo… Dopo, non riuscii a darmi pace perché le ultime parole che avevo scambiato con lui erano state piene di rabbia… e poi, per quanto assurdo, rimasi ancora furiosa con lui, ma perché mi aveva abbandonata per sempre.

    Era così pieno di vita, allegro e carismatico… non riuscivo proprio a credere che non l’avrei più visto entrare dalla porta da un momento all’altro.

    Mi aveva sempre chiamata Raperonzolo per scherzo, ma non avrei mai potuto aiutarlo a salire in cima a quella torre… e poi non era morto per mancanza di abilità nella scalata, ma per colpa di un grosso pezzo di roccia che si era staccato ed era caduto dall’alto, spazzandolo via come un moscerino. Era stato uno dei suoi amici a spiegarmelo: la pioggia e il ghiaccio dovevano aver scavato in segreto una fessura minuscola nella roccia, e Dan aveva avuto la sventura di scegliere proprio quel momento per salire.

    Alla fine la collera sparì e i miei vecchi amici, il Dolore e la Disperazione, presero il suo posto, per non parlare dell’ormai fin troppo familiare senso di abbandono. Avrei voluto potermi lasciare andare alle emozioni, gettarmi a terra e ululare come un cane, invece fui costretta a metterle da parte e concentrarmi sull’organizzazione del funerale di Dan e di tutti i miei sogni, affrontando un minuto, un’ora, un giorno alla volta.

    Il giorno prima del funerale riaprimmo il caffè e io preparai una montagna di cibo in cucina, convinta che tutti gli amici di arrampicata di Dan venissero lì dopo la cerimonia, alcuni giungendo da molto lontano: era molto popolare.

    Ero ancora in preda al dolore e alla disperazione, leniti e consolati almeno in parte dai profumi familiari di pimento e buccia di limone essiccata, dal suono della frusta di metallo che sbatteva le uova in un composto giallo e spumoso e la sensazione del burro e della farina tra le dita mentre le impastavo formando delle piccole briciole dorate.

    Avevo appena tirato fuori dal forno l’ultima teglia quando Jen, la direttrice del caffè, mi disse che c’era qualcuno che voleva parlarmi. Pensai che fosse Edie. Mi aveva chiamato quando aveva saputo dalla televisione, ed era da lei passare alla prima occasione. O forse era un amico di Dan, che si era precipitato lì tornando da una scalata per porgere le condoglianze.

    La donna che mi aspettava seduta a uno dei tavoli del locale, però, non era niente di tutto ciò. Doveva avere almeno dieci anni più di me, all’incirca l’età di Dan, e aveva il viso abbronzato dalle lampade, le sopracciglia sottili come fili e capelli biondi con un paio di centimetri di ricrescita scura sulla scriminatura. Non ho mai capito se sia un dettame della moda o meno.

    Una cosa era certa, però: non poteva essere una compagna di scalata di Dan, e se era una venditrice venuta a convincermi a prendere la sua ultima linea di pasticci congelati, aveva scelto il giorno sbagliato (e poi io li preparavo freschi).

    Non si alzò quando mi avvicinai, così mi sedetti di fronte a lei. Non avevo programmato di sedermi, ma ero in piedi da ore e non ricordavo nemmeno quando avessi avuto appetito l’ultima volta, tanto che all’improvviso avevo sentito cedere le ginocchia e la sala aveva cominciato a vorticare.

    «Sono Alice Rose. Voleva parlarmi?», le chiesi. «Nel caso volesse vendere qualcosa, non è un buon momento e…».

    «Ah, non sono qui per vendere qualcosa», rispose, scrutandomi incuriosita. «Sono Tanya, la moglie di Dan, anche se dopo che ci siamo lasciati ho ricominciato a farmi chiamare col mio cognome, Carter».

    Qualcosa scattò nella mia mente. Sapevo che Dan era stato sposato molti anni prima, ma era molto giovane e la cosa non aveva funzionato. Non avevano avuto figli e si erano separati di comune accordo.

    «Capisco, sei la sua ex moglie, giusto?», dissi. «Io…».

    «Moglie», mi interruppe, decisa. «E ora, vedova!».

    La fissai senza capire, ma sentii quelle parole passare oltre la nebbia di cupa disperazione che mi avvolgeva, la mia cortina di inconsapevolezza. «Ma… non è possibile, eravamo fidanzati! Stavamo per sposarci».

    Prima o poi, certo… perché in quel momento mi tornarono in mente tutte le volte in cui lui aveva rimandato, senza fissare una data.

    «Prima avrebbe dovuto divorziare da me, e anche se sono passati oltre dieci anni dall’ultima volta in cui l’ho visto, sapeva benissimo dove mi trovavo e non si è mai deciso a chiedermelo. Così, quando ho sentito dire in televisione che il famoso scalatore Dan Carmichael era morto in un incidente – devo dire che è stato abbastanza scioccante venirlo a sapere così – ho immaginato che non si fosse nemmeno preso la briga di stilare un nuovo testamento. Nel qual caso», aggiunse trionfante, «sarebbe stato tutto mio. E quando ho chiamato il nostro vecchio legale, mi ha confermato che avevo ragione».

    «Non può essere vero!», gridai, ma nel momento in cui pronunciavo quelle parole ricordai che l’avvocato di Dan, il signor Blackwell, mi aveva telefonato proprio il giorno prima chiedendomi di dare un’occhiata tra i documenti di Dan per verificare se ci fosse un testamento più recente rispetto a quello che aveva lui. Ero stata troppo sconvolta dal dolore per farlo, però, e perfino per domandarmi cosa potesse prevedere quello vecchio.

    «Quando ci siamo fidanzati, Dan mi ha detto che si sarebbe preso sempre cura di me, qualsiasi cosa fosse successa», mi resi conto che stavo dicendo. Mi sembrava di vivere un’esperienza extracorporea. O forse un’esperienza fuori di testa.

    Lei scrollò le spalle. «Non faceva mai nulla a meno che qualcuno non lo costringesse. Voglio dire, mi era arrivata la notizia che viveva con una donna, ma qualsiasi uomo normale avrebbe chiesto il divorzio a sua moglie prima di fidanzarsi di nuovo, no?».

    Non risposi. Non ne ebbi la forza, perché quell’ultimo colpo mi arrivò come l’abbandono definitivo della mia vita, spazzando via il mio cuore e le mie speranze come una tempesta di ghiaccio. Negli ultimi tempi ci eravamo detti che dovevamo fissare la data per il matrimonio, avevamo parlato di mettere su famiglia… mentre lui sapeva benissimo di essere ancora sposato con un’altra persona.

    E adesso, nonostante l’impegno messo in quel locale e nella creazione di una casa accogliente, non avevo alcun diritto su tutto ciò. Ogni cosa sarebbe finita nelle mani della donna seduta davanti a me, che tamburellava con i suoi avidi artigli turchesi sul tavolo mentre si guardava intorno.

    «Vivevamo in un vecchio cottage in affitto a una sessantina di chilometri da qui, ma a quanto pare gli affari gli sono andati bene. Mi pare di capire che anche la casa accanto sia sua?».

    Non aspettò che le rispondessi, non aspettò un bel niente, ma non era importante, perché ero raggelata, fin dentro il cuore. Quella di cui parlava non era una casa qualsiasi, ma la mia casa, il luogo in cui dopo tanto tempo avevo cominciato a mettere le mie incerte radici.

    «Il caffè può rimanere aperto, così quando ci sarà la ratifica del testamento potrò venderlo come impresa in attività. Immagino che il mio arrivo sia un tantino sconvolgente per te», aggiunse, lanciandomi un’occhiata spazientita dato che continuavo a restare chiusa in un silenzio sconvolto.

    «Meglio fare un inventario di tutto subito, però, così potrò sapere cosa c’è qui dentro».

    Saprai cosa manca quando me ne sarò andata, vorrai dire, pensai.

    Tirò fuori un grande blocco dalla borsa costosa. «Puoi accompagnarmi a fare un giro e dirmi quali oggetti appartengono a te», suggerì.

    «Neanche morta!», esclamai: alla fine la collera aveva rimesso in movimento la lingua. «Non ho alcuna prova che tu sia chi affermi di essere, e ancor meno dei diritti che vanti su questo posto. Dan mi aveva detto che avrebbe fatto in modo che fossi protetta, nel caso gli succedesse qualcosa, quindi…».

    «Ah, scoprirai che ti ho detto la verità. Ho solo pensato che potevo risparmiarmi un altro lungo viaggio fin quassù per fare l’inventario e appuntare la presenza di oggetti di valore», disse. Poi, dando uno sguardo a uno dei miei quadri appeso alla parete vicina, aggiunse con disprezzo: «A quanto pare i gusti di Dan in fatto di arte erano peggiorati molto».

    Quel dipinto era uno dei suoi preferiti. Adorava quegli strani kite surfer simili a goblin che vorticavano nel cielo su ali di carta, ignari del fatto che sotto di loro una lupa stringeva tra i denti i cavi cui erano legati e correva trascinandoli con sé.

    Pensai che quell’immagine fosse un’ottima rappresentazione del momento che stavo vivendo, e a quel punto, come se la lupa avesse appena dato uno strattone al mio cavo, mi alzai così all’improvviso che il pesante tavolo in legno di pino si rovesciò, inchiodando la moglie di Dan a terra.

    Fermandomi solo per sganciare il mio quadro dalla parete e mettermelo sotto un braccio, uscii nell’alba gelida con ancora indosso la divisa da chef.

    La porta sbatté alle mie spalle attutendo il flusso costante di insulti che mi gridava dietro Tanya, che si rivelò, come avrebbe subito puntualizzato Dan, una vera scaricatrice di porto.

    *

    Alla fine lasciai la stradina stretta e dissestata imboccando il sentiero che portava a Oldstone, una roccia spoglia e sottile su una collina sui cui lati consumati dalle intemperie erano incisi simboli antichi.

    Era una sporgenza naturale su un piccolo altopiano, anche se un tempo vi era stato creato intorno un piccolo cerchio di altre pietre dritte, il cui scopo era ormai ignoto, che col tempo erano andate distrutte e ora venivano utilizzate solo come sedili dagli escursionisti stanchi.

    Dato che lì vicino passava un sentiero di montagna molto frequentato, dalla fine della primavera fino all’inizio dell’autunno erano numerose le persone che passavano di lì. Nei primi mesi dell’anno, invece, quando ancora c’era la brina che scricchiolò

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