Il racconto è servito
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Anteprima del libro
Il racconto è servito - Letizia Finato
~ ♦ ~
Antipasto
~ ♦ ~
Gli antipasti non fanno parte della tradizione veneta, solo in era moderna sono stati introdotti.
La scelta è caduta su piatti poveri e frugali, che un tempo rappresentavano una merenda o una cena quando c’era poco a disposizione.
La polenta, compagna preziosa, assieme ai funghi, diventa una regina dorata.
Una regina che accompagna, con la sua versatile presenza, anche il saporito salame, principe degli antipasti veneti.
~ Un orco per Cesco ~
La natura dormiva sotto la terra scura. Il silenzio soffiava bianco. Sfocava le sagome dei tronchi chini sui fossati. Una foschia che all’imbrunire si faceva sempre più densa e cancellava dall’orizzonte la collina, come non esistesse.
L’aria era umida, sapeva di erba, terra e muschio. Odorava di funghi e foglie morte. A ogni respiro una fredda boccata, le sopracciglia aggrottate a seguire il volo degli ultimi passeri, le piccole mani aggrappate alle sbarre arrugginite del cancello.
Attendeva, attendeva il suo arrivo, come a ogni calar della sera, non perdeva mai la speranza di vederlo comparire, attraversare i campi ed entrare dal cancello.
L’anno prima l’aveva incontrato su in collina, nella contrada dei Neri, e ne era rimasto affascinato. La fisarmonica che suonava e la voce forte e limpida a narrare, ancora la sentiva quella storia nella sua testa, ancorata alla sua piccola anima.
Cesco? Cesco andiamo, vieni dentro che fa freddo!
Alle spalle la voce di una donna, lontana, quasi inconsistente.
Di nuovo il richiamo e, come si fosse destato da un sogno, Cesco rispose: Arrivo, mamma!
Strascicando i piedi, attraversò il cortile fino alla stalla. Girò la testa per l’ultima volta e poi spinse la sgangherata porta di legno che cigolò stridula sui cardini.
Eccoti!
esclamò la madre. Gli afferrò entrambe le mani e brontolò: Sono ghiacciate! Che ti vuoi ammalare?
Gli diede una leggera sculacciata e aggiunse: Vai! Vai a sederti sul fieno, là con il nonno.
Cesco corse verso il fieno e si tuffò.
Una nuvola di pulviscolo si sollevò e il profumo buono e intenso coprì per qualche istante l’odore della mucca e del suo vitellino.
Si alzò poi a sedere, con le gambe incrociate e il volto imbronciato. Aveva sette anni appena, i fratelli e cugini erano tutti grandi, alcuni addirittura già sposati. Si annoiava. Nessuno con cui giocare. Tutti a far qualcosa, tranne lui che aspettava solo il momento in cui la mamma gli avrebbe detto Ѐ tardi. Vai a letto!
Dal mucchio di fieno, il suo sguardo abbracciò tutta la stalla e poi si soffermò qualche istante sul padre che giocava a briscola assieme agli zii e a suo fratello. Un vecchio barile con sopra una tavola, a fianco un fiasco di vino e quattro bicchieri, le carte sbattute con energia, la pipa in bocca senza dire una parola mentre trasmetteva segreti segnali al compare di partita.
Quante volte aveva chiesto a suo padre di poter giocare, e quante volte il padre, con una risata, gli aveva risposto Sei troppo piccolo per le cose da uomini.
Distolse lo sguardo corrucciato e lo diresse verso l’unica finestra sporca e sfrangiata da sottili fili tessuti dai ragni, dalla quale ormai non penetrava più luce, quella luce fioca di fine giornata che bastava solo per filare, perché la filatura usava la memoria dei gesti e dei polpastrelli esperti della madre.
E come sempre sua madre era lì, anche quella sera, a filare la canapa assieme alla cognata. Muoveva il piede sul pedale della mulinea che con il suo cigolare chiacchierino dava il ritmo al loro pettegolare su Teresa, che aveva disubbidito al padre, e su Beppetta, che s’era vestita da uomo.
Sembrava facile far scendere il filo dalla roca ma anche sorprendente vedere quel groviglio di fili avvolti attorno all’attrezzo trasformarsi in uno solo, lunghissimo. A Cesco sarebbe piaciuto provare, ma già sapeva che sua madre non glielo avrebbe permesso e, in fondo, si vergognava di fare un lavoro da femmine
.
Un colpo, due colpi, tre colpi sulla porta della stalla, fecero sobbalzare Cesco e interruppero il gioco e il cigolare della mulinea.
Il suono di un flauto svelò il mistero e, ancora prima che qualcuno si alzasse per andare ad aprire, Cesco scivolò giù dal mucchio di paglia, si precipitò alla porta, e levò il chiavistello.
Era arrivato finalmente, come promesso, Cesco saltellava dalla gioia. Gianino il cantastorie errante era giunto alla fattoria dei Berdin, con il suo carico di storie e di notizie da luoghi lontani tra fantasia e realtà.
Fecero spazio nel punto più accogliente della stalla. La sedia buona fu sua assieme a un buon bicchiere di vino, un bel pezzo di formaggio e un tozzo di pane, che la mamma di Cesco s’era affrettata ad andare a prendere in dispensa.
Appena si fu rifocillato gli si accolsero attorno in attesa di viaggiare con lui attraverso i suoi racconti.
Gianino strizzò l’occhio a Cesco, che s’era seduto a gambe incrociate in prima fila, proprio davanti al cantastorie.
Mi ricordo di te
disse Gianino, con una risata Ti piacciono le storie paurose, vero? E allora, te ne racconto un’altra
Le prime note stridule della fisarmonica, una musica tetra, preannunciarono una cupa atmosfera, e Cesco si ritrovò a rabbrividire per l’eccitazione ma anche per la paura.
La storia che vado a narrare è iniziata ma non è ancora finita, il terrore scorre ancora nei luoghi, perseguita le genti e dilaga attraverso le parole
iniziò a raccontare Gianino, ma poi si interruppe e raccomandò severo a voi tutti la racconto, ma tenetela segreta, altrimenti un giorno vi raggiungerà.
Un breve giro di fisarmonica e poi riprese a raccontare: C’era una volta un bambino…
si girò verso Cesco e aggiunse Sì, un bambino, come te, aveva circa la tua stessa età.
Cesco sorrise.
Ah! Non sorridere fanciullo, la storia non è lieta, la storia è paura infinita, ti tormenterà a lungo, sei sicuro di volerla sentire?
chiese in un teatrale tono burbero.
Qualcuno ridacchiò. Cesco si girò verso i parenti, alzò il mento e con spavalderia rispose: Sì, la voglio ascoltare!
Ti ho avvisato… te ne pentirai
sibilò Gianino, che riprese a suonare la stessa melodia tragica di poco prima con ancora più intensità e iniziò a recitare…
"Era un bimbo molto bello,
birbante come un gatto,
vivace come un fringuello.
"Lassù sulle montagne, nella piccola contrada, vivevano tutti sereni, finché un giorno iniziarono i problemi.
Nella notte si sentivano i lupi ululare, di giorno i corvi gracchiare, ma l’urlo più mostruoso era di un orco spaventoso.
Peloso come un orso, il grugno di un porco, un’enorme gobba sul dorso,
sulle mani grandi come badili, sfoderava affilati artigli,
la sua fame era senza fine, si nutriva delle tenere carni di bambini e bambine.
Era un bimbo molto bello,
birbante come un gatto,
vivace come un fringuello."
Tacque e tornò a suonare la fisarmonica, la melodia più pressante, ripetitiva, come fosse bloccata all’interno della storia, e Cesco, con gli occhi scuri, spalancati e immensi, ascoltava.
"I formaggi non si potevano più mangiare, erano tutti andati a male,
non si stendeva più il bucato, ogni volta veniva sporcato da quell’essere immondo, perfido e iracondo.
Nessun più poteva lasciare i bimbi giocare
di quel mostro avevano paura, ancor di più nella notte oscura,
quando la luna scompariva al di là del monte e due orrendi occhi rossi apparivano all’orizzonte.
Era un bimbo molto bello,
birbante come un gatto,
vivace come un fringuello."
Il suono della fisarmonica rallentò, divenne quasi un lamento. Con voce tragica e lamentosa, come se un’angoscia profonda gli lacerasse il cuore, Gianino concluse il suo racconto.
"Non c’è pane e non c’è vino, piange, piange il fratellino
funghi e castagne il bimbo coraggioso andò a cercare, così mamma si poté sfamare
una, due volte, ancora e ancora, ritornando a tarda ora.
Ma l’orco ha denti aguzzi e naso fine, la sua fame è senza fine così arrivò quel triste giorno in cui il bimbo non fece più ritorno. Per giorni e giorni