I Galli di Castel de' Doddi
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I Galli di Castel de' Doddi - Alberto Pestelli
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I
Benvenuti a Castel de’ Doddi
Castel de’ Doddi non può essere definito un grande e importante paese. Se lo andate a cercare sulle cartine geografiche, la ricerca può prolungarsi per ore senza ottenere alcun risultato. Solo chi possiede un navigatore satellitare ha qualche speranza in più di riuscire a raggiungerlo in qualche modo.
Questo minuscolo centro abitato, a una quindicina di chilometri da Brittole, di cui è frazione, si raggiunge tramite una stretta e ripida strada di montagna che chiamarla tale ci vuole molto coraggio. Come ce ne vuole, quando ci si avventura per essa, specialmente di notte o d’inverno quando c’è neve o ghiaccio. E quel giorno, per fortuna, la strada era pulita.
Mancavano meno di dieci giorni all’inizio della primavera, ma già si sentiva il profumo dell’attesa rinascita, anche se, in vetta ai monti, c’era ancora un po’ di neve ghiacciata che contribuiva a rendere l’aria del mattino fredda e umida. Presto sarebbe arrivata la bella stagione e quel grigiore sarebbe scomparso a favore di una tavolozza ricca di colori. Lo sapevano benissimo quei pochi ambientalisti ed escursionisti che si avventuravano in quella valle sperduta.
La stretta gola del torrente Brittole è un piccolo paradiso che andava preservato dalle invasioni del turismo di massa. Pure il sindaco, originario del paesello, era cosciente di tale problematica. In un’intervista rilasciata a un noto periodico di informazione e formazione ambientale, turistica e culturale, aveva detto al giornalista:
«Lassù? Solo turismo d’élite. A Brittole c’è chi sostiene di incrementare il flusso dei visitatori. Io sono contrario all’aumento delle masse. Non serve costruire alberghi, S.P.A., strutture sontuose. Lì si va solo per riposarsi e per camminare lungo i sentieri segnati dal Club Alpino. Ricordiamoci poi chi sono gli abitanti del paese… Non diamo loro altri problemi. I vecchietti di Castel de’ Doddi vogliono solo vivere dignitosamente in santa pace.»
Il brigadiere Antonio Ravalli arrivò a Castel de’ Doddi quella piovosa mattina di marzo. Lo accompagnavano l’appuntato Salvatore Galìa – siciliano di Trapani – e l’appuntato Ignazio Agus – sardo di Cagliari ma trapiantato a Fonni nel nuorese. I tre carabinieri si conoscevano da molto tempo. Avevano fatto parte dello stesso reparto nella missione di pace in Afghanistan.
I due isolani non erano esattamente quei due militari dell’arma integerrimi. Più per sbadataggine che per volontà, spesso si cacciavano nei guai, rischiando di coinvolgere il loro stesso comandante in faccende disastrose. Non erano stati un buon esempio per il resto della compagnia per le loro decisioni drastiche che qui non citeremo. Basti sapere che spesso eseguivano più gli ordini delle loro coscienze anziché quelli dei loro diretti superiori. In soldoni… facevano come gli pareva!
L’occasione per liberarsi di loro si presentò improvvisamente, quando al brigadiere Ravalli – in odor di promozione a maresciallo – fu assegnato il comando in uno sperduto paesino sull’Appennino tosco-romagnolo.
Per Agus e Galìa quel posto rappresentava una punizione per tutte le loro – tanto per dirla alla fiorentina – bischerate commesse. Invece, per il loro comandante, finalmente, il trasferimento rappresentava un trampolino di lancio per una dignitosa carriera e, soprattutto, un posto di riposo dopo tutti quei mesi di servizio in Afghanistan.
Nonostante tutto, per i due appuntati, anche solo per il fatto di prendere ordini da Ravalli, il trasferimento era di buon auspicio. Il brigadiere sapeva benissimo come trattare i due commilitoni.
L’auto di servizio – una vecchia Fiat Panda 4x4 – saliva con affanno l’ultima erta prima di arrivare a destinazione. Un’ultima curva e finalmente i tre furono in vista dello stretto ponte sul Fosso de’ Doddi prospiciente l’antica porta medievale.
Così apparve al brigadiere e ai suoi due aiutanti l’antico borgo di montagna. Adagiato su di un imponente sperone di roccia a ridosso di un alto poggio oltre i novecento metri sul livello del mare, sembrava dominare, come un’aquila maestosa, qualsiasi cosa o essere vivente, realtà o sogni. Come se questo piccolo mondo fosse uscito da una pagina di un libro di favole per bambini.
Sorrise Ravalli osservando il suo nuovo posto di lavoro. Sì, sembra davvero un posto fatato… pensò. Si voltò verso il conducente dell’auto e disse improvvisamente: «Ignazio, per cortesia, fermati un attimo. Voglio scendere e osservare questo posto. È stupendo quassù!»
L’appuntato obbedì e parcheggiò l’auto proprio nel bel mezzo della strada. Sapevano che non sarebbe transitato nessuno. Scesero dal mezzo vetusto tutti e tre e iniziarono a guardarsi attorno.
A sinistra, dove si ergevano le non troppo alte mura di levante, c’era un poderoso balzo roccioso. Sotto al quale, giù a valle, scorreva rabbioso il torrente Brittole che imponeva il nome all’omonimo paese a quindici chilometri di distanza.
A destra, al termine delle alte mura di ponente, si apriva un’ampia radura erbosa a ridosso di un immenso e fitto bosco di conifere e latifoglie. Il prato era diviso in due parti dal fosso de’ Doddi che confluiva, dopo aver superato il ponte e quindi un’alta cascata, nel torrente sopra menzionato.
Ravalli inspirò la frizzante aria del mattino. Le sue narici captarono un’infinità di profumi dispersi nell’aria. Poi ributtò fuori l’inspirato credendo di espellere tutte le negatività accumulate durante gli anni di servizio in luoghi a lui non congeniali. Sorrise di nuovo. Era raro vederlo contento. Il posto gli stava trasmettendo serenità. Era consapevole che la sua vita sarebbe totalmente cambiata. Forse sarebbe addirittura ingrassato perché sapeva che la zona era famosa per le sue rinomate trattorie e i suoi vini. Si lisciò la barba ruvida. Poi si toccò la testa calva. Sì, nuova vita… per i capelli non posso farci niente, ma la barba va ritoccata. Diverrà un pizzo curato e corto. Intanto si comincia così. Il resto verrà da sé! Pensò il brigadiere abbassandosi per osservare il suo volto allo specchietto laterale della Panda. Si guardò negli occhi. Verde bottiglia, come quelli di sua madre. Occhi da sciupafemmine… Tu le donne le ipnotizzi! E poi la tua statura e la tartaruga fanno il resto… Gli aveva detto un giorno di qualche anno fa sua sorella al mare, ospiti di amici in comune. Sì, sì… per ora ho sciupato ben poco…, pensò ancora. Si guardò attorno. Agus era sul ciglio della strada intento ad ammirare il panorama. Non era il classico esempio di uomo sardo che tutti hanno in mente. Anche se non come lui, Ignazio era alto e ben piazzato. Visto di spalle poteva essere scambiato per un lottatore temibile, ma, se lo si osservava in volto, ispirava solamente simpatia e dolcezza. Sembrava più giovane di quel che la sua carta d’identità narrava. Aveva una capigliatura foltissima e riccia che riusciva a domare a stento con il pettine. Ti ci vuole il forcone d’un contadino…, gli aveva detto una volta Ravalli scherzando, con una punta d’invidia. Lui aveva così ribattuto: «Sono la mia croce… non faccio a tempo a tagliarli che ricrescono in un batter d’occhio. Tanto vale tenerli lunghi. Si stancheranno di allungarsi e di arricciarsi…»
Già… proprio per questo motivo sei stato più di una volta punito. Capelli troppo lunghi!, pensò Ravalli ricordando le varie volte che l’appuntato era stato messo simbolicamente in guardina durante il servizio in Afghanistan.
Si avvicinò all’appuntato sardo e disse: «Uno spettacolo mozzafiato…»
«Vero. Mi sembra di essere tra i monti della mia isola. Mi sento a casa quassù!»
«Lo immagino. Ma lo sai che, poco più a est di qui, è passato il divin poeta?»
«Chi?», chiese Galìa che si trovava poco distante sul ciglio opposto della strada intento a svuotar la vescica.
«Dante Alighieri, ignorante… non hai studiato la Divina Commedia?», disse Agus.
«Che palle… sì, sì, l’ho studiata, come no!», sbottò il piccolo appuntato siciliano risentendosi per le parole di scherno del collega sardo.
«Forza! Smettetela di scornarvi e risaliamo in macchina. Ci stanno aspettando in paese», ordinò il brigadiere.
«Un attimo… fatemi finire!», protestò Galìa ancora occupato in faccende fisiologiche.
«Ma quanta ne fai?», gli domandò Ignazio.
Il siciliano non gli rispose. Si limitò a mugugnare qualche incomprensibile parola nel suo dialetto.
Dei tre