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Anno Domini 448
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E-book599 pagine8 ore

Anno Domini 448

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico 
Dall’autore di Anno Domini 367

Il nemico è alle porte: impugna la spada, combatti da eroe

448 d.C. L’impero romano si sta sgretolando. L’imperatore è debole. Molti romani ormai vivono sotto il dominio di re barbari. Politici furbi e generali ambiziosi si contendono il potere. E come se ciò non bastasse, dalla Germania arriva una minaccia ancora più scura: Attila, re degli Unni, sta raccogliendo le sue orde ed è determinato ad annientare Roma una volta per tutte. In tempi di grande pericolo e inganno, dietro ogni sorriso può celarsi un tradimento e ogni manica può nascondere un pugnale affilato. Toccherà a tre giovani tenere alto il sogno di Roma, la città più potente del mondo intero. E quando i loro destini si incroceranno, saranno chiamati a prendere le armi e far scorrere il sangue. Avranno una sola parola d’ordine: la salvezza dell’Impero, o la morte.

«Le storie s’intrecciano vorticosamente tenendoti incollato pagina dopo pagina. Ho perso parecchie ore di sonno ma facevo fatica a chiuderlo e aspettare il giorno dopo. Scritto veramente bene, l’autore è bravissimo nel descrivere i personaggi, gli ambienti, l’atmosfera di quel periodo... Davvero un gran libro.»
John Henry Clay
è docente di Storia all’università di Durham. Ha studiato all’università di York e ha lavorato come ricercatore all’Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna. La Newton Compton ha pubblicato i suoi romanzi storici Anno Domini 367 e Anno Domini 448.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9788854196452
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    Anteprima del libro

    Anno Domini 448 - John Henry Clay

    en

    1280

    Tutti i personaggi di questo romanzo sono immaginari o sono figure storiche le cui parole e le cui azioni sono immaginarie. Qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: At the Ruin of the World

    Copyright © John Henry Clay 2015

    The right of John Henry Clay to be identified as the Author of the Work han been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Francesca Noto

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9645-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    John Henry Clay

    Anno Domini 448

    omino

    Newton Compton editori

    A Edmund

    Haec verba

    Accipe fraterno multum manantia fletu,

    Atque in perpetuum, frater, ave et vale.

    Fu morte, per noi, dover vivere

    In mezzo a tali disastri

    E alla rovina del mondo.

    Sidonio Apollinare

    Anno Domini 448

    Cartina1

    L'impero romano nel 450 d.C.

    Cartina2

    La Gallia romana nel 450 d.C.

    cartina3

    Arles nel 450 d.C.

    cartina4

    Roma nel 450 d.C.

    cartina5

    Albero genealogico della famiglia dei Filagri.

    prologo

    Gli uomini dicono, per quanto si possa dare ascolto ai racconti degli uomini, che tutto cominciò con un mandriano. Costui aveva vissuto per tutta la vita in campagna, oltre il grande fiume Danubio. Da bambino, aveva guidato la mandria del suo pigro padre tra gli ampi pascoli e le montagne innevate di quella terra barbarica, e quando suo padre morì, il bestiame divenne suo.

    A quel punto, pensando di avere bestiame e mogli in abbondanza, e più figli del necessario, il mandriano iniziò a considerarsi un uomo importante, degno dell’attenzione del suo re. Ma quando andò a trovarlo, fu preso in giro prima ancora che entrasse nel palazzo. «Non hai niente da offrirgli», gli disse la guardia reale. «Ti credi ricco, ma la tua intera mandria non basterebbe per un singolo festino di questa sala».

    Il mandriano tornò a casa, umiliato. La sua prima moglie gli chiese cosa gli fosse successo. «Ho visto lo splendore del palazzo reale», replicò lui. «E ora guardo tutti voi e penso che sono un semplice popolano, poco più che un mendicante».

    La seconda moglie intervenne: «Fai un sacrificio agli dèi, e chiedi il loro aiuto».

    «E come possono aiutarmi gli dèi?», domandò lui.

    «Chiedi loro di darti qualcosa da offrire al re», suggerì la terza moglie. «Qualcosa di cui nessun altro uomo è in possesso».

    Così il mandriano, ascoltando quel saggio consiglio, si recò dalla sua mandria e scelse la bestia più bella che aveva. Alcuni dicono che era un bue adulto, altri una giovenca; quale che fosse, quando la trovò restò sconvolto, perché la vide zoppicante, e con una zampa anteriore coperta di sangue. «Questo è un cattivo presagio», borbottò l’uomo, tra sé e sé, mentre ispezionava la ferita. «Gli dèi mi stanno punendo per la pigrizia di mio padre». Poi vide che la ferita era stata causata da qualcosa di affilato, e che le tracce di sangue conducevano dall’altra parte del pascolo, fino a una collinetta in lontananza. Temendo che altri dei suoi animali potessero farsi del male nello stesso modo, l’uomo iniziò a seguire la traccia.

    Ben presto raggiunse una buca in cima alla collina, dove le tracce si interrompevano. Guardando all’interno, il mandriano vide qualcosa di scintillante. Corse subito a casa, a recuperare un piccone, e tornò indietro per tirare fuori dal terreno il misterioso oggetto. Ben presto capì che si trattava di una spada. Quando ebbe tirato fuori l’elsa, la afferrò e la divelse dalla terra, sollevandola verso il sole. Mai prima di quel momento aveva posato gli occhi su una lama così perfetta.

    Scintillava al punto che le sue mogli uscirono di corsa dalla casa. «È una spada degli dèi», dissero al marito. «Hanno risposto alla tua preghiera!».

    «Io non li ho pregati», ribatté l’uomo, «ma so perché mi hanno offerto questa spada».

    Non perse neanche un attimo e tornò al palazzo del re. Questa volta, la guardia lanciò un’occhiata alla spada e impallidì. Scortò subito il mandriano all’interno della grande sala. L’uomo si inginocchiò, quando vide il re seduto sul trono.

    «Vieni più vicino», lo invitò Attila.

    Il mandriano gli si avvicinò, offrendogli la spada nelle mani tese. «Mio re», dichiarò, «ho trovato questa spada sepolta nella mia terra».

    Gli occhi di Attila si fermarono sulla lama. Poi si alzò dal trono e brandì l’arma. L’acciaio brillava come fuoco, mentre lui se la rigirava in mano, sorprendendosi della bellezza e della perfezione di quell’oggetto, che superava qualsiasi cosa fosse mai stato costruito dall’uomo.

    «Ieri notte ho fatto un sogno», affermò allora Attila, con voce tonante. «Ho sognato che uno sconosciuto mi portava questa stessa spada. Oggi ho ordinato alla mia guardia che se un uomo con un’arma simile fosse comparso davanti alle mie porte, avrebbe dovuto condurlo a me. E ora capisco che non era un sogno, ma una profezia».

    «E qual è questa profezia, grande re?», osò chiedere il mandriano.

    Attila replicò: «Questa è l’antica spada di Marte, il dio della guerra, andata perduta da innumerevoli generazioni. Ora è stata condotta a me per queste ragioni: perché io sia invincibile in battaglia; perché possa distruggere l’impero romano, riducendolo in polvere; e perché sieda sul mondo intero come suo conquistatore e padrone».

    Questa, dunque, è la storia che raccontano gli uomini. Alcuni la considerano una fantasia, una storiella adatta ai bambini.

    Ma non sono quelli che hanno visto Attila ammassare le sue orde e cavalcare verso ovest. Non hanno mai visto i campi della Renania diventare neri per quanti erano i cavalieri, né hanno visto le torri delle sue città un tempo fiere crollare in rovina sotto i colpi delle macchine da guerra degli Unni, né hanno potuto sentire il pianto di donne e bambini condotti alla schiavitù e alla morte.

    Per quanto possa sembrare fantasiosa questa storia, la Gallia ne avrebbe scoperto la verità.

    i

    Vicus Helena, vicino Tournai, 448 d.C.

    Era un giorno perfetto per sposarsi: uno di quei giorni d’agosto in cui il cielo si estende alto e azzurro verso il sole, e non c’è una nuvola in vista. Era un giorno di brezza tiepida, dolcezza e aromi estivi, un bel giorno per galoppare nei prati, sentendo la terra salda sotto gli zoccoli del cavallo e riempiendosi i polmoni d’aria. Giorni come quello, secondo Ecdicio, erano fatti perché gli uomini ne godessero appieno.

    Per un attimo, soltanto per un attimo, i suoi pensieri vagarono lontani. A trecento miglia di distanza, oltre campi e foreste, fiumi e città, la mente lo riportò a un lago tra le colline, dove una brezza leggera sussurrava sull’acqua come la voce di un vecchio amico. Vide un riflesso danzante di colline, e sopra la riva, oltre le canne e i giunchi dove nidificavano i tarabusi, le pareti bianche della sua casa, e le figure intente a giocare delle sue sorelle e di suo fratello…

    L’istante svanì. Non era il momento giusto per quei pensieri. Ecdicio si concentrò sulla cinghia che gli affondava nella pelle sotto al mento, sull’elmo piantato sulla testa, sul peso della cotta di maglia sulle spalle. Le file di cavalleria davanti a lui, formate dai cavalieri più esperti del reggimento, erano immobili e silenziose, sotto la copertura degli alberi. Senza voltarsi, per non sembrare nervoso, Ecdicio sentì la presenza rassicurante degli altri ranghi accanto e dietro di lui. Cento uomini della Cavalleria Prima Gallica attendevano in perfetto silenzio, nascosti dietro una macchia d’alberi.

    Ora poteva sentire i rumori che venivano dall’altra parte del crinale. I Franchi dovevano aver attraversato il fiume. I tamburi si sentivano meglio, ciascuno con la sua eco tremante. Poi sentì, meno forti, flauti e cornamuse, e al di sotto del loro suono, anche le prime voci. I barbari ridevano e cantavano, ignari di quello che stava per accadere loro.

    Zefiro, avvertendo che il momento di correre era ormai prossimo, scosse la criniera con uno sbuffo e grattò il terreno con gli zoccoli, impaziente, ma si guardò bene dal nitrire. Ecdicio lo accarezzò sul collo per calmarlo. Con cautela, infilò tre dita nel sottogola dello stallone. Non c’era motivo di tanto nervosismo: la testiera non era troppo stretta. Quella mattina, nell’accampamento, il giovane aveva allontanato lo stalliere e aveva sellato da solo Zefiro, controllando ogni cinghia, chiusura e anello più e più volte, controllando che nulla potesse scivolare via o strapparsi nella concitazione dello scontro. Tuttavia, non poté trattenersi dal ricontrollare il fodero dei giavellotti dietro la sella. Per la terza volta, si assicurò di averlo lasciato aperto, e che ogni giavellotto fosse saldo all’interno, ma abbastanza lento da tirarlo fuori senza problemi, al momento giusto.

    Calmati, pensò. Devi sembrare una verginella terrorizzata nella sua prima notte di nozze. Riportò entrambe le mani sulle redini e prese un respiro profondo, cercando di calmare il cuore che batteva precipitoso nel petto. Lanciò un’occhiata al comandante in prima fila. Marezzature di luce scintillavano sull’elmo d’acciaio e bronzo dorato del tribuno, e sugli anelli immacolati della sua cotta di maglia. Era ormai mezz’ora che Maggioriano era immobile in quel modo, senza spostarsi di un dito, a fissare il crinale con la pazienza di una statua. Ecco come un vero soldato attende la battaglia.

    Osservare Maggioriano non lo aiutò. Ecdicio non riusciva a pensare ad altro che alla sua bocca secca. Avrebbe preso un sorso dalla fiasca, ma temeva di farsi sfuggire il tappo dalle mani tremanti. Si sentì assalire dai dubbi, e non era la prima volta. Forse non avrebbe dovuto insistere tanto con suo padre per farsi assegnare a quella legione. Certo, la Cavalleria Prima Gallica era l’élite dell’esercito, e Maggioriano era secondo per fama solo al conte Ezio in persona, ma Ecdicio non era mai stato in battaglia, fino a quel momento. Si sarebbe dovuto accontentare di un reggimento meno importante, e ottenere un minimo di esperienza. E se si fosse messo in cattiva luce? Sarebbero bastati il minimo errore, la più piccola esitazione, e Maggioriano l’avrebbe saputo. Un comandante come quello non avrebbe tollerato un cavaliere meno che eccellente, nel suo reggimento. Ecdicio sarebbe stato rimandato da suo padre coperto di vergogna. Da suo padre, il famoso e grande eroe e generale il cui nome era noto in tutta la Gallia.

    Un destino simile sarebbe stato troppo duro da sopportare. Tanto meglio cadere in battaglia.

    Fu distratto da un movimento in cima alla collina, quando il primo dei barbari comparve. Attraverso il fogliame, li vide arrivare a piedi, a cavallo o a dorso di mulo, su carri trainati da buoi, raggiungendo la cima del colle per prepararsi ai loro festeggiamenti. Alcuni tirarono giù dai carri delle tavole di legno e le sistemarono su dei cavalletti, mentre altri le riempivano di frutta e pane. Scaricarono barili di birra e montarono delle tende, ammucchiando fascine per i falò. Tre ragazzi piantarono un paletto nel terreno e vi legarono un paio di capre. Tamburi e cornamuse continuavano a riecheggiare, e iniziarono a comparire gli uomini in festa, che ridevano e ballavano, ubriachi. Dovevano essere almeno duecento, considerò Ecdicio, e altri ne stavano arrivando: guerrieri, donne e fanciulle inghirlandate, ragazzini che seguivano i genitori, servitori. Una folla, proprio come ci si sarebbe aspettati per dei festeggiamenti dedicati a una principessa.

    Era davvero un giorno perfetto per un matrimonio, considerò Ecdicio. Ma il terreno saldo, l’aria fresca e un campo aperto potevano servire a diverse cose.

    Maggioriano sollevò la destra, con le dita chiuse a pugno. Un fremito passò tra i ranghi, mentre gli uomini spronavano le cavalcature e si preparavano a muoversi. Quella mattina, il tribuno aveva detto che non ci sarebbero stati squilli di trombe a segnare l’inizio della carica, né grida di guerra. Niente che potesse allertare i nemici. La loro missione era farsi strada combattendo tra i ranghi dei guerrieri franchi che proteggevano la festa di nozze e catturare la principessa, nipote del re Clodione. Se l’avessero presa in ostaggio, Clodione non avrebbe avuto altra scelta che accettare un trattato di pace e pagare per la guerra che aveva iniziato, e sarebbe stata fatta giustizia.

    Maggioriano abbassò il pugno, e il reggimento uscì dalla macchia d’alberi. Fu il tribuno a guidare la carica, spingendosi avanti mentre le ali si trattenevano. Un centinaio di soldati galoppò in campo aperto, disponendosi a cuneo, in tutto nove file, con Maggioriano e altri due cavalieri in testa. Ecdicio, con movimenti decisi e resi fluidi dall’esperienza, tenne Zefiro in formazione, sapendo che il suo posto era a tre file dal fondo, al centro del cuneo, e tentando di non urtare i cavalieri sovreccitati che aveva intorno.

    Quando i Franchi si accorsero della cavalleria in avvicinamento, era troppo tardi. Non ebbero il tempo di organizzarsi. Alcuni brandirono asce e spade e si prepararono a combattere, ma per la maggior parte fuggirono, o barcollarono intorno, ubriachi fradici. I canti si fermarono e le risate si trasformarono in grida d’allarme.

    La carica perse di velocità quando le prime file si scontrarono con la massa caotica di barbari e carri. Ecdicio si ritrovò tra le ultime file, quasi costretto a fermarsi. Davanti a lui c’erano lame che si sollevavano e abbassavano di scatto e tende che crollavano, e cominciò a sentire le urla dei barbari, di donne e bambini calpestati nel caos. I suoi compagni iniziarono a imprecare e a gridare agli uomini davanti di avanzare, impazienti di raggiungere il centro dello scontro. Il cavaliere alla sua sinistra, di cui Ecdicio non riuscì a ricordare il nome, gli stava stretto addosso e cercava di spingerlo di lato per passare alla destra del cuneo. Ecdicio lo respinse con lo scudo, lottando per tenere fermo Zefiro. «Mantieni la posizione!», ordinò, furioso. Per tutta risposta, l’altro soldato strattonò le redini così forte verso destra da far nitrire di dolore il cavallo; Ecdicio fu costretto ad arretrare per evitare una bocca schiumante e piena di denti furiosi e un occhio scuro e terrorizzato; Zefiro scartò, spostandosi a destra e rischiando di disarcionare Ecdicio, che restò in sella con uno sforzo erculeo. Quando riuscì a rimettersi in equilibrio, vide che il soldato era ormai passato oltre. Imprecò, stampandosi nella memoria il volto di quell’idiota impaziente. Dopo lo scontro, ci sarebbe stato il tempo di sistemare la faccenda.

    Il resto dei ranghi più indietro stava cominciando a disperdersi, e i singoli cavalieri si lanciavano dietro i barbari in fuga. Ecdicio, rimasto pressoché da solo, li fissò, incredulo. Quella doveva essere l’élite della cavalleria romana, ma la disciplina era svanita nel nulla al primo contatto con il nemico. Che senso avevano avuto, allora, le interminabili settimane di esercitazioni?

    Sguainando la spada, spronò Zefiro dietro ai suoi compagni. Non appena raggiunse il crinale dell’altura, cercò di capire dove lo scontro fosse più concitato, ma non ci riuscì. Quella non era una battaglia.

    Carri e detriti erano sparsi sull’erba. Le due capre, ancora legate al loro palo, belavano terrorizzate. I falò che avrebbero dovuto cuocere la loro carne non erano mai stati accesi. Ecdicio vide gruppi di barbari che fuggivano spaventati giù per la collina, fino al fiume e al ponte, prima di essere raggiunti e travolti, ma molti erano troppo vecchi o troppo giovani. Alcuni cavalieri avevano smesso di inseguirli per smontare di sella e riempirsi le tasche, strappando ai cadaveri anelli e collane, o arrampicandosi sui carri per recuperare altri beni più preziosi. Altri avevano trovato un tipo diverso di bottino. Lì vicino, tre soldati, due a cavallo e uno a piedi, avevano circondato una ragazza franca dai capelli castani, con una ghirlanda di foglie estive intorno al collo. La pungolavano con i giavellotti, mentre lei piangeva, implorandoli nella propria lingua, incapace di fuggire. Alla fine, il soldato a piedi le strappò la ghirlanda dal collo, gettandola a terra e incombendole addosso.

    Ecdicio voltò le spalle alla scena, cercando di ignorare l’ondata di nausea che gli rivoltava lo stomaco. Quei Franchi avevano invaso il territorio romano, si ripeté; avevano derubato e ucciso cittadini romani e ridotto in schiavitù intere famiglie. Quella era soltanto la giusta punizione per i loro crimini.

    Ripose la spada nel fodero, ritenendola in quel momento inutile. I pochi combattenti nemici nei dintorni erano già morti, riversi nell’erba insanguinata con le armi abbandonate nei pressi. Un ragazzo era raggomitolato su un fianco, con un giavellotto che gli trapassava il petto. Aveva il taglio di capelli tipico degli uomini franchi, con una lunga frangia sul davanti e corti sulla nuca, a parte il punto in cui il cranio gli era stato spaccato da uno zoccolo. Aveva ancora gli occhi aperti, di un azzurro inquietante e vivace.

    Un centinaio di metri più avanti c’era un folto gruppo di cavalieri esultanti, che sventolavano lo stendardo del reggimento; una stella blu con i contorni gialli in campo nero. Se lo stendardo era lì, Maggioriano non poteva essere molto lontano. Ecdicio si diresse da quella parte, oltrepassando a cavallo i corpi mutilati e sventrati dei caduti. Dopo pochi metri vide solo i cadaveri di vecchi, donne e bambini con indosso quelli che dovevano essere i loro abiti migliori. Erano stati tutti abbattuti senza pietà. L’odore gli ricordò la capanna del macellaio, nel suo villaggio, solo che era peggiore; al sentore del sangue si univa quello dell’urina e delle feci, insieme al puzzo della birra mezza digerita.

    Quando raggiunse il gruppo, Ecdicio vide al centro una dozzina di donne riunite insieme. Una di loro, piuttosto anziana, urlava contro i cavalieri. Ecdicio non comprendeva una parola di quella lingua, ma era ovvio che li stesse insultando. Maggioriano la fissò, impassibile, per poi rivolgere un cenno al primicerio Flacco, il suo secondo in comando. L’uomo smontò di sella e avanzò verso il gruppetto di donne. Afferrò per un braccio una delle più giovani, trascinandola lontana dalle altre, mentre con la mano libera teneva a bada la più vecchia che tentava di fermarlo. La ragazza era robusta, con il seno florido e le guance rosee, e indossava un lungo vestito bianco chiuso sulle spalle da due spille d’oro e granato, tra le quali pendeva una catenella di perle di vetro. Sembrava importante, per essere una donna barbara; di sicuro era la principessa. Si rifiutava di piangere o di mostrare la benché minima paura.

    «Legala e tienila qui», ordinò Maggioriano. «Assicurati che non le sia fatto alcun male». Poi fece per voltarsi.

    «E le altre donne, tribuno?», domandò Flacco.

    Maggioriano fece una pausa. Osservò per un attimo le prigioniere. Anche la più anziana aveva smesso di gridare, adesso. «Guai ai vinti», dichiarò.

    I soldati esultarono. Mentre Maggioriano si allontanava, Flacco urlò degli ordini. Due uomini legarono la principessa e la portarono via. Le donne rimaste furono legate per le mani a un carro, con i soldati che schiaffeggiavano quelle che si rivoltavano apertamente. I biarchi rimisero in ordine le squadre. Ecdicio osservò la prima squadra del reggimento smontare di sella e lasciare le redini alla seconda squadra. Erano più anziani, e dunque si sarebbero goduti le donne per primi.

    Il giovane si sentì salire in gola una boccata di bile. Era troppo; si rese conto che era sul punto di vomitare. Scivolò goffamente giù dalla sella. Non appena toccò terra con i piedi, sentì le gambe piegarglisi sotto al peso. Si afferrò al pomo della sella per ritrovare l’equilibrio, mentre la testa gli si annebbiava e le tempie gli pulsavano. Si sganciò la cinghia sotto la gola e si sfilò l’elmo, inspirando diverse boccate d’aria. Resta dritto, sciocco! Sono soltanto donne barbare! Hanno forse pianto per noi, quando i loro uomini hanno invaso le nostre terre e stuprato le nostre donne?

    Poi le donne iniziarono a urlare. Ecdicio non guardò in quella direzione. Doveva andarsene. Iniziò a muoversi, ma riuscì ad avanzare solo di qualche passo, prima di crollare in ginocchio. E con un lungo e violento conato, riversò sul terreno la colazione di quella mattina.

    Vomitò finché non si sentì lo stomaco del tutto vuoto. Davanti a lui, l’erba era imbrattata di grumi di pane, farinata e vino. Sputò l’ultima boccata di bile e sollevò la testa, passandosi la manica sulle labbra.

    Sentì uno sbuffo vicino all’orecchio, e il muso morbido di Zefiro gli sfiorò una guancia. Ecdicio sollevò una mano e lo accarezzò con delicatezza, chiudendo gli occhi. «Sto bene, ragazzo», borbottò.

    Poi si rese conto di una presenza alle sue spalle. Rialzandosi in fretta, si voltò e vide diversi uomini a cavallo che lo osservavano, a pochi metri di distanza. Uno di loro era il tribuno Maggioriano. Accanto a lui c’era un cavaliere dal volto solido e squadrato, con la pelle scura carica di rughe. Era il conte Ezio, comandante supremo dell’esercito d’Occidente.

    «Illustre patrizio», esordì Ecdicio, piegando d’istinto un ginocchio a terra e abbassando lo sguardo.

    «Mi sembra familiare», commentò Ezio.

    «Somiglia molto al padre», soggiunse una voce che Ecdicio riconobbe. Era quella di Egidio, tribuno degli Onoriani. «È il primogenito di Eparchio Avito».

    «Forse gli somiglia nel fisico», sbuffò Maggioriano. «Ma non mi sembra di aver mai visto Eparchio Avito mettersi in ridicolo sul campo di battaglia».

    Per un attimo, Ezio restò in silenzio. Le urla che provenivano dal carro erano meno violente, adesso, a parte quelle delle fanciulle più giovani. Ecdicio tenne lo sguardo basso. Ci si inginocchiava di fronte a un patrizio, e non ci si rialzava finché non era lui a dirlo.

    Infine, Ezio parlò. C’era una nota di piacere nella sua voce, perfino di divertimento. «Rimandatelo a casa. Sarà suo padre a occuparsi di lui».

    ii

    Bordeaux, regno dei Goti

    I fatti erano questi. Tre giorni prima delle calende di agosto, un’ora dopo l’alba, Lupo il mercante si era messo in viaggio con il suo carro verso il mercato cittadino. Portava con sé sedici anfore di vino nordafricano, e suo figlio di dieci anni era seduto accanto a lui. Avevano attraversato il ponte sul fiume, e quasi raggiunto l’altra riva, quando l’ultimo arco della struttura era crollato. Lupo era riuscito a saltare e a mettersi in salvo, afferrando il bambino appena in tempo. Ma il carro era caduto nel fiume, portando con sé il bue che lo trainava e il carico. Le anfore si erano schiantate, il vino era svanito nell’acqua. Il bue si era spezzato le zampe anteriori e avevano dovuto abbatterlo, prima che un gruppo di uomini potesse staccarne la carcassa dal carro e trascinarla a riva. Sebbene per grazia divina Lupo fosse vivo e così anche suo figlio, aveva perso il carro, il bue e i beni in cui aveva investito tutto il denaro che gli rimaneva.

    L’oratore Sedato raccontò i fatti davanti ai giudici del foro, e si interruppe per scuotere la testa, dispiaciuto. Poi si asciugò la fronte usando il bordo del mantello. E infine, con squisito tempismo, sollevò un indice. «Questa è una tragedia, è ciò è ovvio», dichiarò. «Ma vi chiedo: di chi è la colpa?».

    La fila di giudici – il vescovo Frontino, il primo amministratore civico, i due magistrati cittadini e il conte Ulfila, che rappresentava il re, lo osservarono dalla pedana, in attesa della risposta. Sedato si girò verso la folla che riempiva il foro, puntando il dito in mezzo alla gente per poi voltarsi lentamente. Quel dito continuò a muoversi davanti ai volti silenziosi delle persone, sino a fermarsi su due figure sedute su una panca separata, vicino ai giudici. Si trattava degli edili, i consiglieri responsabili dei lavori di manutenzione delle strutture cittadine, che di solito avrebbero dovuto essere seduti in mezzo ai giudici. Ma quel giorno erano loro a dover essere giudicati, perché accusati di negligenza dal mercante, in quanto non si erano preoccupati delle condizioni del ponte.

    Ma Sedato abbassò l’indice. «Concittadini», riprese, «perché dobbiamo dare la colpa a qualcuno? Questi due edili davanti a voi sono noti per la loro buona reputazione, per aver sempre fornito un servizio impeccabile alla città. In tutta Bordeaux, i loro nomi sono pronunciati con rispetto. Anzi, in tutta l’Aquitania. Non avevano forse già cominciato a riparare il ponte? E allora, vi chiedo, perché dobbiamo dare loro la colpa? La disgrazia conduce alla rabbia, questo è vero. Quando ci succede qualcosa di male, è normale che ci infuriamo, come animali feriti, senza neanche guardare dove colpiamo. Ma se, per questo, una disgrazia deve condurre a un’altra disgrazia, chi ne gioverebbe? Questi uomini innocenti non dovrebbero soffrire per la sfortuna di un altro uomo. Ebbene sì, miei concittadini, ho detto sfortuna. Lo dico e lo ripeto; e Dio non ha forse protetto lo sfortunato Lupo, così che lui e il figlio sopravvivessero al disastro indenni? Dovremmo ringraziare Dio per la Sua misericordia, non cercare di rovinare il buon nome di due brave persone. Se condanniamo questi due uomini innocenti, dove finiremo? Dovremmo forse accusare anche il bue, per essere stato troppo lento ad attraversare il ponte? Dovremmo condannare Nettuno per furto, in quanto l’oceano ha inghiottito il vino versato?».

    Quelle assurdità provocarono le risate della folla e dei giudici, perfino del vescovo. Ma non tutti sembravano divertiti. I due edili ricordarono di mantenere un’espressione seria e dispiaciuta, per ottenere la compassione della folla. L’avvocato dell’accusa, che si agitava sul suo sgabello sul bordo della pedana, in attesa di poter parlare, sembrava troppo nervoso per reagire. Accanto a lui c’era il suo cliente, lo sfortunato Lupo, con il viso rosso per il caldo estivo e per la rabbia impotente. E, sul limitare del foro, all’ombra del portico, in mezzo a un gruppetto di studenti, un ragazzo sputò nel canale di scolo.

    «È finita», borbottò. «Lupo ha perso».

    Il suo tutore, un uomo calvo e con il viso da topo di nome Concordio, gli lanciò uno sguardo di rimprovero. «Zitto, Arvando», scattò. «Osserva e ascolta. Ritengo che, alla veneranda età di sedici anni, potresti ancora avere qualcosa da imparare da chi è più anziano di te, non ti pare?».

    Gli altri studenti lo fissarono. Un paio dei più giovani ridacchiarono. Il ragazzo più vicino al tutore gli lanciò uno sguardo di puro disprezzo, sbuffando forte dal naso arricciato. Quello era Ponzio Leonzio, il più anziano della classe dopo Arvando, alto per la sua età e con le spalle di un lottatore. Veniva dalla famiglia più ricca di Bordeaux, e si assicurava in ogni modo che nessuno dei compagni lo dimenticasse mai.

    Arvando decise di ignorare sia Leonzio che quel vecchio sciocco del tutore, e portò l’attenzione su Sedato, che non aveva ancora finito di arringare la folla. Era un oratore famoso, che accettava di occuparsi di casi legali solo raramente, quindi quando lo faceva attirava sempre molta gente, e gli insegnanti in città cancellavano le normali lezioni per portare gli studenti a sentirlo. Arvando non poteva negare che fosse uno spettacolo imperdibile. Sedato era un vero maestro nella sua arte, oltre che un intrattenitore nato, e non sbagliava mai una mossa. Era un vero peccato che al momento stesse usando quel suo talento per difendere due ovvi colpevoli.

    «E ora, l’arringa finale dell’avvocato dell’accusa», disse Concordio. «Osservate, ragazzi».

    Fu proprio come Arvando si era aspettato. L’avvocato dimenticò di inchinarsi davanti ai giudici, ricordandosi di farlo solo a metà della sua frase d’apertura, il che gli fece dimenticare dove era arrivato, restando in silenzio per un attimo di totale imbarazzo. Quando ricominciò a parlare, lo fece borbottando, annaspando a ogni respiro e senza guardare nessuno negli occhi. Anche il discorso era poco ispirato, pieno di banalità su un pover’uomo che faticava a dare da mangiare a una famiglia che moriva di fame; un uomo le cui speranze, come il suo vino, erano ormai disperse nel nulla. Concordio sbuffò a quell’immagine patetica, imitato subito dopo da Leonzio. Qualcuno, dalla folla, cominciò a fischiare. Il mercante Lupo sembrava prossimo a scoppiare per l’umiliazione.

    Più ascoltava, più Arvando si sentiva sopraffare dalla rabbia. L’intero processo era una farsa. Un avvocato decente avrebbe vinto facilmente. Quei due edili erano ben noti per la loro reputazione, proprio come aveva detto Sedato: peccato che si trattava di una gran brutta reputazione. Tutti sapevano che erano negligenti, pigri e crudeli. Ma uno di loro si era sposato con una donna della famiglia di Ponzio Leonzio, e i Ponzi erano come tutte le altre famiglie aristocratiche. Quando venivano minacciati davanti ai giudici, chiudevano i ranghi, riunivano le forze e ingaggiavano l’avvocato più costoso che potevano trovare. Nel frattempo, l’avvocato dell’accusa di sicuro aveva bisogno di qualsiasi misera paga il povero mercante potesse dargli, ma era altrettanto ovvio che non fosse in grado di affrontare quel processo. Non voleva pestare i piedi a quella famiglia.

    Quei due edili, del resto, non erano peggiori di tanti altri. Lo stato fatiscente di quel ponte era noto da anni a tutta la città, eppure nessun edile fino a quel momento aveva fatto mai nulla. I Ponzi e altre famiglie nobili che avevano un posto in senato non si curavano affatto del bene pubblico. Pensavano solo alle loro ville in campagna e alle loro vaste terre. Quando venivano in città, era solo per passeggiare nel foro in mezzo a frotte di ammiratori adulanti, o per richiedere sgravi immeritati di tasse a favore di qualche ufficiale del governo, o, come quel giorno, per distruggere in pubblico qualsiasi povero cittadino che osasse sfidarli.

    Proprio come un tempo avevano schiacciato la famiglia di Arvando. Era accaduto trentacinque anni prima, molto prima della sua nascita, ma Arvando avvertiva ancora l’ingiustizia di quel crimine come se l’avesse visto con i propri occhi. Come se fosse stato lui, invece di suo nonno, a essere mandato in esilio durante le Grandi Invasioni, quando Goti, Vandali e Alani erano sciamati in tutta l’Aquitania e avevano distrutto e saccheggiato quelle terre. Insieme a migliaia di altre persone, i suoi nonni avevano cercato rifugio lì a Bordeaux. Alla fine le guerre erano cessate e quell’angolo dell’impero era stato consegnato ai Goti. Il governo dei barbari aveva portato la pace; ma quando il nonno di Arvando aveva provato a riprendersi la casa della sua famiglia, dopo essere stato lontano per cinque lunghi anni, aveva scoperto che la modesta casa dei suoi avi era stata occupata da un funzionario romano che diceva di essere alle dipendenze del re dei Goti. La proprietà era rimasta vuota per troppo tempo, così gli era stato detto. Era dunque diventata di proprietà del fisco imperiale, ed era stata consegnata ai Goti come parte del trattato di pace.

    Quella era la storia ufficiale, almeno. Ma la verità era che una famiglia aristocratica del luogo si era indebitamente appropriata della casa e delle terre rimaste incustodite. Avevano creato dei falsi documenti di proprietà, e poi, ansiosi di ingraziarsi i nuovi governanti, avevano offerto quelle proprietà ai Goti. Il nonno di Arvando si era rivolto ai giudici, ma era stato accusato di essere stato lui a falsificare i documenti. I costi legali l’avevano quasi mandato in rovina. La sua non era mai stata una famiglia ricca, ma era benestante e rispettabile, con una lunga storia di onesto servizio nella burocrazia imperiale fin dai tempi di Diocleziano. Ma a quel punto, tutto era cambiato. Non avendo più una proprietà, dai ranghi dei cavalieri erano finiti nella classe degli humiliores, meri bifolchi agli occhi della legge.

    La famiglia di Arvando aveva vissuto in quella città, da allora. Soltanto sacrificando tutto ciò che era rimasto, e accettando di vivere in un tugurio di tre stanze sopra i moli, i suoi erano riusciti a pagargli gli studi. Cinque anni prima, il ragazzo aveva visto suo nonno morire, vecchio e distrutto nel corpo e nello spirito. Sua nonna l’aveva seguito poco dopo. I suoi genitori avevano dovuto seppellire il suo fratellino e la sua sorellina, quando si erano ammalati di dissenteria e non avevano potuto pagare un medico. E ora rimanevano soltanto lui, suo padre e sua madre, oltre alla speranza di un futuro che il giovane avrebbe potuto costruire per loro.

    Le urla e i fischi della folla riportarono Arvando al presente. L’avvocato dell’accusa aveva concluso la sua inefficace arringa e stava tornando mestamente a sedersi. Sebbene i giudici fingessero di parlottare tra loro, la sentenza era ormai certa. Gli edili sarebbero stati scagionati, e il mercante Lupo non avrebbe ottenuto nulla. Ovviamente, pensò con amarezza Arvando, i Ponzi sarebbero stati abbastanza ricchi da ripagarlo senza alcun problema, ma accusando gli edili di incompetenza, Lupo li aveva fatti infuriare, condannandosi così all’umiliazione pubblica. L’ingiustizia di quella storia gli faceva rivoltare lo stomaco. La folla sembrava provare la stessa rabbia: gli insulti rivolti all’avvocato dell’accusa non venivano dal fatto che la gente fosse dalla parte degli edili, bensì dimostravano la delusione per un’arringa così inutile. Il popolo di Bordeaux non amava i Ponzi. Gli mancava solo il coraggio di dirlo ad alta voce.

    Concordio ordinò agli studenti di radunarsi intorno a lui. I nove ragazzi obbedirono, tutti tranne Arvando, che rimase appoggiato alla colonna del portico. «Dunque», cominciò il tutore, osservando un giovinetto dopo l’altro, «avete visto come ha fatto Sedato a vincere la causa? Il suo avversario non era assolutamente alla sua altezza. L’eloquenza, ragazzi miei, è la forza che governa il mondo».

    Arvando scoppiò a ridere. Davvero quell’uomo pensava che fosse così stupido da credergli?

    «Per caso qualcosa ti sta divertendo, Arvando?»

    «Non so molto del resto del mondo, maestro, ma a me pare che Bordeaux sia governata dai Ponzi, non dall’eloquenza».

    «Ma i Ponzi hanno ingaggiato Sedato per la sua eloquenza», controbatté Concordio. «Quindi ho comunque ragione». Accennò un sorriso. «E ora, ragazzi, come vedrete quando il vescovo Frontino leggerà la sentenza…».

    «E la giustizia, maestro?», lo interruppe Arvando. «Non dovrebbe essere la giustizia, a governare il mondo?».

    Concordio lo fulminò con lo sguardo. «L’eloquenza è un mezzo che va usato per la causa della giustizia. E ora fai silenzio, Arvando. Perché ogni lezione con te deve abbassarsi a questioni di filosofia morale?».

    Arvando si zittì, sconvolto dalle parole del maestro. Abbassarsi a questioni di filosofia morale? Aveva davvero pronunciato quella parola, come se la moralità fosse un argomento vergognoso? Si guardò intorno, ma gli altri studenti non sembravano essersi resi conto di nulla. Del resto, non avrebbe dovuto sorprendersene: erano troppo piccoli, alcuni di loro non avevano neanche dodici anni, e il vecchio grammatico li teneva facilmente in pugno. L’unico che sostenne il suo sguardo fu Ponzio Leonzio, che gli rivolse un’occhiata carica di disprezzo e trionfo. Ecco quello che succede quando uno come te pesta i piedi alla mia famiglia, sembrava dire. Ricordatelo bene, bifolco.

    Arvando non riuscì a trattenere più la rabbia. Qualcuno doveva fare qualcosa. Uscì da sotto il portico e prese a farsi strada intorno alla folla che continuava a mormorare e bisbigliare. Avrebbe dato a Leonzio una lezione che non avrebbe più dimenticato.

    Si fermò davanti alla folla, dove i cittadini più facoltosi tendevano a riunirsi durante quel genere di eventi. Nessuno gli prestò attenzione. Del resto, con il suo metro e mezzo di statura, era abituato a essere ignorato finché non decideva il contrario.

    Sulla pedana rialzata, i giudici fingevano ancora di consultarsi, ma ben presto avrebbero emesso il verdetto. Da un lato della panca, accanto al vescovo, c’era il conte dei Goti. Rappresentava il re nelle cause pubbliche, ed era l’unico dei giudici a non essere sotto l’influenza dei Ponzi. «Una parola al conte!», esclamò Arvando. «Permettetemi di dire una parola al conte Ulfila!».

    Per quanto fosse basso ed esile, Arvando aveva una voce potente quando voleva farsi sentire. Ulfila stava parlando con il vescovo, ma al sentire il proprio nome rialzò lo sguardo. Passò solo un attimo, prima che gli uomini intorno ad Arvando capissero che era stato lui a parlare, e quando se ne resero conto, la sorpresa di sentire un tono così imperioso da un ragazzino tanto giovane e di bassa statura gli fece guadagnare quel prezioso momento di silenzio di cui aveva bisogno. Si scostarono per fargli spazio.

    «Nobile conte», esordì Arvando, «ti imploriamo per ottenere la protezione del tuo signore, il generoso re Teodorico, gloria dei Goti!».

    Uno dei magistrati romani prese la parola. «Tieni a freno la lingua, ragazzo. Questa è una causa pubblica, non un’udienza privata del conte».

    Arvando lo ignorò. «Nobile conte, mi appello alla tua bontà».

    «Sei forse sordo?», esclamò il magistrato. «Stai creando scompiglio nell’udienza».

    Il conte Ulfila sollevò una mano. «Lasciatelo parlare», dichiarò, con un latino dal pesante accento goto. «Chi sei, ragazzo?».

    La folla si era zittita. Il vescovo e gli altri giudici fissarono il ragazzo con un misto di fastidio e stupore. «Sono un umile cittadino di Bordeaux, nobile conte. Una persona poco importante e non appartenente a una famiglia aristocratica, che implora il re, a nome di questa città, perché sia protetta».

    «Protetta da chi?»

    «Dalla rovina del tempo. Nobile conte, è stato il tempo a distruggere il ponte. È il tempo che blocca il nostro porto, che fa a pezzi le nostre strade e le nostre mura». Indicò gli edili, ancora seduti sulla loro panca. «Questi onorevoli uomini hanno combattuto invano contro l’invincibile nemico. Ma cosa possono fare due uomini, contro un avversario tanto infaticabile? Ogni cittadino di Bordeaux conosce il loro profondo senso del dovere, la loro condotta onesta e proba». Qualche risata sommessa si levò dalla folla, quando qualcuno capì il sarcasmo che impregnava quelle parole. Ora fai attenzione, si disse Arvando. Non volare troppo vicino al sole. «La nostra città sta andando in rovina, nobile conte. La grazia di Dio ha permesso a Lupo e a suo figlio di salvarsi. Ma quanto tempo passerà prima che contiamo delle vittime? Se solo Bordeaux avesse un benefattore che potesse davvero proteggerne gli abitanti! Noi ci impegniamo molto per soddisfare il nostro re e pagare le tasse. Ma cosa ne viene di utile al re Teodorico, se i mercanti finiscono in rovina e non per loro colpa?»

    «Gli edili stanno facendo riparare il ponte», rispose Ulfila. «Che altro si può fare?»

    «L’onorevole Sedato aveva ragione. Qui non dobbiamo cercare qualcuno a cui dare la colpa. Non sto dicendo che il buon Lupo merita un risarcimento: come potrebbe esserci un risarcimento, se non è colpa di nessuno? Lui è un uomo fiero e onesto. Non si metterebbe mai a implorare nessuno. E allora saremo noi a implorare per lui. Ti prego, fa’ che il re gli conceda non un risarcimento, ma un gesto di generosità. Permetti al re di mostrare quanto il suo cuore sia addolorato dalle sventure del popolo che gli si affida. Si dice che Giulio Cesare, venuto una volta a sapere che un mercante che portava il vino al suo esercito era naufragato sulla costa della Gallia, subito ripagò all’uomo il costo della nave e del carico. Un atto nobile, degno di un uomo come Cesare! E cos’è un carro di vino, a paragone di una nave intera? Con questo dono generoso, Lupo potrà salvarsi dalla rovina, e lui e suo figlio potranno continuare a pagare le tasse per molti anni a venire, ringraziando Dio per la bontà del grande re Teodorico». Estese entrambe le mani verso Ulfila, con i palmi verso l’alto, nell’universale gesto della supplica. «Imploriamo il re!».

    Quasi all’istante, la folla gli fece eco. Una voce ripeté quella frase. E poi molte altre, finché tutto il foro non riecheggiò di quelle stesse parole, che risuonarono tra i portici. Imploriamo il re. Imploriamo il re. Il vescovo si accostò al conte e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, non molto contento dell’accaduto. Il conte sembrava esasperato. La gente iniziò a spostarsi verso la pedana, affollandosi intorno ad Arvando e nascondendolo. Lui fece un passo indietro, scivolando tra due uomini che non fecero caso a lui, e abbassò la testa. Non gli fu difficile disperdersi in mezzo alla gente senza essere riconosciuto.

    Il coro cessò soltanto quando il conte si alzò dalla panca, sollevando in aria le braccia. «Ho udito la vostra supplica», affermò. Strizzava gli occhi, nel frattempo, cercando invano il ragazzo che aveva fatto scatenare la folla. Arvando non poté trattenere un sorriso, nel notare la sua espressione confusa. «Il re Teodorico è generoso», continuò Ulfila, rivolgendosi a tutti i presenti. «Parlo in suo nome, e giuro davanti a Dio che l’onesto Lupo riceverà un dono generoso».

    Arvando non restò ad ascoltare gli applausi e le grida di giubilo. Aveva dimostrato a Leonzio quello che desiderava dimostrargli, e gli bastava. E poi aveva fame ed era ora di tornare a casa.

    Era quasi arrivato al portico sul lato sud del foro quando si ritrovò davanti Concordio. «Non esiste nessuna storia come quella che hai raccontato su Cesare», borbottò il tutore.

    Arvando si strinse nelle spalle. «Be’, adesso esiste».

    «Pensi che sia accettabile raccontare bugie nel tentativo di inseguire la giustizia?»

    «È sempre meglio che raccontarle per perseguire l’ingiustizia».

    Concordio fece una smorfia di rabbia. «Non hai più bisogno delle mie lezioni. È evidente che non ho altro da insegnarti, visto che ti interessano solo trucchetti e rivolte. Che Dio ti aiuti».

    Arvando lo oltrepassò, ignorandolo.

    «Non troverai mai un patrono, in questa città», gli gridò dietro il vecchio tutore. «E sarò io stesso ad assicurarmene!».

    Il ragazzo tornò a casa attraversando la rete di stradine del mercato dietro ai moli. I pescivendoli lo chiamavano, facendogli notare secchi pieni di anguille ancora vive, cesti pieni di merluzzi, tavoli coperti di aragoste e razze; i ragazzini lo inseguivano con vassoi di ostriche appena pescate, condite con l’aceto, che gli fecero brontolare lo stomaco. Li ignorò tutti, ripensando con rabbia alle parole di Concordio. Quell’idiota senza cervello, che parlava come se a lui interessasse più di avere un patrono, che della giustizia.

    Cercò in tutti i modi di calmarsi. Aveva appena ottenuto il più grande trionfo della sua giovane vita, facendosi seguire da un’intera folla e aiutando un innocente con il mero uso della parola. Perché permettere a Concordio di rovinarglielo? Nonostante tutti i suoi sforzi, era ancora nervoso quando raggiunse il vicoletto che conduceva alla sua casa, e si fermò prima di imboccarlo. Non voleva mettere di malumore i familiari con uno dei suoi momenti neri, o deluderli confessando che Concordio l’aveva espulso dalla classe. Decise quindi di incamminarsi lungo un’altra strada che conduceva ai moli.

    Era ormai tardo pomeriggio, e gli ultimi pescherecci stavano rientrando, ammainando le vele mentre i marinai lanciavano le cime agli aiutanti sui moli. Arvando si avvicinò a un punto tranquillo della zona, sedendosi su un grosso mucchio di corde. Nessuno gli prestò attenzione. Il ragazzo inspirò la pungente aria del fiume, ascoltando le grida e le risate degli uomini nei dintorni, lo stridio rauco dei gabbiani, lo sciabordio delle onde sulle rocce coperte di muschio, più in basso. Chiuse gli occhi. Lentamente, sentì la frustrazione abbandonarlo.

    Aveva davvero importanza il fatto che Concordio lo avesse espulso? Le sue lezioni di grammatica sarebbero comunque finite entro poche settimane. In autunno avrebbe iniziato il corso di retorica con un altro professore, e tre anni più tardi sarebbe stato pronto a cominciare la sua carriera legale. Un giorno, Concordio non sarebbe stato altro che un ricordo fastidioso del passato.

    Riaprendo gli occhi, Arvando guardò verso sinistra, seguendo con gli occhi il corso del fiume verso sud. In fondo, perché restare a Bordeaux? Cent’anni prima, era stata la più grande città di cultura della Gallia, famosa in tutto l’impero per i suoi poeti e i suoi insegnanti. Ma ora non faceva neanche più parte dell’impero. I suoi edifici si stavano sgretolando, le sue antiche glorie erano ormai dimenticate. Non c’era alcun futuro, lì. Se fosse saltato su una delle chiatte che risalivano il fiume, entro una settimana avrebbe raggiunto Tolosa, la capitale del regno goto. Certo, il re Teodorico era un illetterato e non gli interessava la cultura – del resto era un barbaro – ma comunque aveva bisogno di uomini colti per poter gestire il proprio regno. Di certo ci sarebbero stati dei professori di retorica, a Tolosa, per non parlare delle grandi opportunità che una città del genere avrebbero potuto offrire a un giovane avvocato. E soprattutto, i Ponzi non avrebbero avuto alcuna influenza, laggiù. Sarebbe stato un nuovo inizio. Avrebbe potuto parlarne con suo padre. Sempre che avessero avuto abbastanza denaro per vivere, era certo che ai suoi non sarebbe affatto dispiaciuto di lasciare Bordeaux.

    Mentre

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