Lutero e il diritto: Certezza della fede e istituzioni ecclesiali
Di Nicola Reali
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Pur tuttavia, l’identificazione di un profilo evangelico del diritto mondano non è assente negli scritti di Lutero, e neppure la
definizione degli strumenti giuridici che debbono essere conservati nella chiesa.
Come può dunque convivere in Lutero la convinzione dell’inutilità del diritto con la consapevolezza che persino la comunità cristiana non può farne a meno? Il volume tenta di rispondere a questa domanda.
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Idee per un’antropologia teologico-pastorale Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
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Anteprima del libro
Lutero e il diritto - Nicola Reali
Nicola Reali
Lutero e il diritto
Certezza della fede e istituzioni ecclesiali
© 2017, Marcianum Press, Venezia
In copertina:
Lutero brucia la Bolla papale di minaccia di scomunica e il Corpus iuris canonici (incisione su legno del 1557 di artista anonimo)
Impaginazione e grafica: Massimiliano Vio
ISBN: 978-88-6512-531-1
UUID: e097713e-50fd-11e7-9fb3-49fbd00dc2aa
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Indice dei contenuti
Prefazione
Introduzione
Capitolo I - Esiste un fondamento teologico al diritto civile?
1. Verso la Gerusalemme celeste
2. Due regni, due governi
3. Il duplex usus legis
4. Il diritto naturale: fondamento della città terrena
Capitolo II - Il mistero della presenza del diritto canonico nella chiesa
1. Giuristi, cattivi cristiani
2. Spirito e struttura
3. I giuristi non sono poi così dei cattivi cristiani
4. Sacramentum fidei
5. Il diritto canonico come avvenimento dello Spirito
Capitolo III - Mentre io bevevo birra, Dio riformava la Chiesa.
FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO SAN PIO X
IUS CANONICUM – MONOGRAFIE
18
Ai miei genitori e a mio fratello
Prefazione
di Eilert Herms
Nota all'autore [1]
500 anni fa Lutero ha suscitato una discussione critica e costruttiva sulla prassi del sacramento della penitenza (e con essa dell’intera prassi sacramentale) nella chiesa occidentale. Sorprendentemente, questa sollecitazione si è rivelata una messa in questione così radicale di tutte le istanze coinvolte da condurre alla perdita di una disciplina ecclesiale condivisa, che dura fino al presente. Nel frattempo è divenuto chiaro a uno sguardo di fede retrospettivo che tale perdita non è stata creata hominum confusione, bensì è stata imposta alla cristianità Dei providentia [2] . Ciò comporta – da ambo le parti – la consapevolezza che, fatta salva la separazione disciplinare, entrambe le comunità condividono, al di là di tale separazione, la reale unità della chiesa di Gesù Cristo, de facto non perduta e che continua a sussistere trasversalmente. Infatti, dal punto di vista cattolico, si ritiene che ci sia anzitutto solo una reale chiesa di Gesù Cristo (la chiesa cattolica gerarchicamente costituita sotto la guida del successore di Pietro, il vescovo di Roma) e, quindi, che la separazione disciplinare del sec. XVI sia avvenuta all’interno di quest’unica chiesa [3] , rendendo così evidente sia che la reale unità della chiesa vada al di là dei confini della cristianità che vive in comunione col vescovo di Roma [4] sia che i cristiani non in comunione col papa appartengano alla chiesa cattolica romana (UR, 3.2). Parimenti, dal punto di vista riformato, si riconosce apertamente fin dal 1530 (e da allora lo si è sempre ripetuto) che la reale unità della chiesa di Cristo comprende l’intera cristianità che celebra i sacramenti conformemente alla loro istituzione e insegna il Vangelo in purezza: il che accade anche nelle comunità che vivono in comunione col vescovo di Roma. Di conseguenza, anche per questa parte della cristianità occidentale, vale ciò che tempo addietro un’autorevole voce romano-cattolica ha espressamene costatato: nella storia la reale – non perduta – unità della chiesa di Gesù Cristo è un’unità determinata « attraverso diversità» [5] e, perciò, stabilita proprio attraverso differenti gradi di comunione col vescovo di Roma.
Questa consapevolezza ha avuto un influsso sull’interesse teologico reciproco di entrambe le componenti del cristianesimo occidentale [6] . Negli ultimi decenni – forse in ritardo, ma comunque in modo evidente – è stato posto in primo piano l’interesse per l’autogiustificazione di ogni parte nei confronti dell’altra e l’attenzione a osservare l’altra parte come appartenente alla reale unità storica della cristianità e perciò anche come appartenente alla storia della propria comunità. In questo contesto si colloca anche il presente studio di Nicola Reali, il quale, mediante il sottotitolo Certezza della fede e istituzioni ecclesiali
, ha voluto opportunamente inquadrare la sua ricerca sul diritto nel pensiero di Lutero all’interno di due coordinate di fondo della teologia del Riformatore. In primo luogo, Lutero concepiva come oggetto di fede unicamente quell’avvenimento che presentava e, dunque, offriva alla fede stessa il suo oggetto: la verità della testimonianza della vita di Gesù Cristo, la quale si rende da sé presente per i suoi destinatari attraverso lo Spirito di questa verità, generando così la fede come quella certezza (l’ Innesein di questa verità) che a sua volta consente e richiede l’ attività della fede stessa – la sua laboriosa autodedizione a questa verità. Secondariamente, questa obbedienza attiva della fede alla fine si manifesta in nient’altro che nell’organizzazione della convivenza umana, e perciò nella configurazione sia della modalità con cui i credenti convivono nel mondo insieme agli altri credenti e ai non-credenti sia della forma di convivenza umana dei credenti nella chiesa e nelle sue istituzioni: in un caso e nell’altro sempre attraverso l’inevitabile strumento del diritto. La certezza della fede è dunque unicamente opera di Dio, ma la cura che le istituzioni offrono, con lo strumento del diritto e della sua prassi, include un volere e un operare umano, dunque l’opera dell’uomo. Di conseguenza, quando la cura delle istituzioni e del diritto cerca il suo fondamento nella certezza della fede, allora, ipso facto, viene alla luce il rapporto di cooperazione tra Dio e l’uomo.
Una cooperazione che occorre dichiarare radicalmente asimmetrica [7] : l’ operari Dei e l’ operari hominum non esistono anzitutto separati e successivamente uniti l’un l’altro in un terzo, in un medio che li abbraccia entrambi. Si tratta piuttosto di riconoscere l’ operari di Dio come ciò che mediante se stesso rende possibile e sollecita l’ operari umano, facendolo esistere realmente all’interno di sé: comprendendolo lo istituisce e lo mantiene. Perciò, per Lutero quell’ operari Dei, che fonda e include direttamente la fede e la sua vita activa, è il donarsi trinitario
di Dio nella creazione come Padre (dell’universo)
, nell’incarnazione del suo Logos in Cristo, suo Figlio
, e nell’elargizione dello Spirito della creazione, dello Spirito della verità
a coloro cui il Figlio è stato inviato, di modo che essi, grazie a questa elargizione, acquisiscano la certezza della verità della testimonianza di vita del Figlio [8] . Così si dischiude alla fede, oltre che l’ esistenza del creatore, la sua intima essenza: la storia di Gesù che si compie sulla croce si manifesta come l’ incarnazione del Logos del Creatore, della sua volontà. Più precisamente: come incarnazione di questa volontà nella sua determinazione originaria in quanto volontà di comunione e di riconciliazione che ha creato il mondo. Tale volontà, fondata unicamente nell’assolutamente libera autodeterminazione del creatore, stabilisce il senso e il fine, sul quale il creatore medesimo, fin dall’inizio, crea e conserva tutta la creaturalità (umana) come il mondo-creato-a-sua-immagine: la compiuta e pienamente riconciliata comunione dell’immagine creata di Dio con il suo creatore, eternamente creante.
Lutero ha accuratamente descritto tutto ciò specialmente nella sua esposizione del simbolo apostolico, mettendo in evidenza come il Padre «… ci ha creati appunto per redimerci e santificarci e, dopo averci dato e donato tutto quanto v’è in cielo e in terra, egli ci ha dato anche suo Figlio e il suo Santo Spirito, onde condurci a sé per mezzo loro» [9] . Parole che non è temerario accostare a quelle del Vaticano II, quando nella Dei Verbum dichiara: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà ( sacramentum voluntatis suae) (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4)» [10] . Col riferimento alla Lettera agli Efesini, il Concilio ha così indicato che la volontà divina alla base della creazione del mondo è il suo mistero (in latino: sacramentum) e, parimenti, che solo l’incarnazione di questa volontà ha reso manifesto il mistero di Dio. Di conseguenza, la teologia romano-cattolica postconciliare, avendo riconosciuto nel Logos incarnato il luogo in cui il mistero divino si rende presente e si rivela, ha potuto allo stesso tempo riconoscere Cristo come sacramento originario ( Ursakrament), il quale, in se stesso, crea e conserva la comunità dei credenti in Cristo che è tale unicamente per celebrare e annunciare Cristo in quanto Ursakrament. Il testo conciliare, quindi, sottolinea l’evento cristologico come quella realtà che abbraccia tutto ciò che può essere chiamato sacramentum: quei segni ecclesiali che, basandosi sull’evento dell’autorendersi-presente ( Selbstvergegenwärtigung) in Cristo del sacramentum suae voluntatis, partecipano della sacramentalità originaria di Cristo e ne sono, dunque, una sua manifestazione corporea [11] . Ed è proprio questo quello che il cattolico Lutero aveva già evidenziato, mettendo in evidenza sia che Cristo è l’unico sacramento (il mistero rivelato
della Lettera agli Efesini) [12] sia che quest’unico sacramento non si dà indipendentemente da tutto ciò che l’avvenimento di Cristo ha realizzato come mezzo del suo autorendersi-presente fino alla fine dei tempi poiché contrassegnato dalla sua promessa: i " signa sacramentalia" (battesimo e cena) istituiti da Cristo durante la sua vita [13] , ma anche la chiesa. Lutero, infatti, nella preghiera conclusiva della sua liturgia nuziale nel Piccolo Catechismo parla «… del sacramento del tuo diletto Figlio Gesù Cristo e della chiesa» [14] , mostrando così che per lui l’ Ursakrament dell’avvenimento di Cristo – che è anche il mistero originario ( Urgeheimnis) – non si dà senza ciò che in Cristo stesso è fondato, creato e custodito: il mistero della comunità dei credenti in Cristo, la chiesa [15] .
Lutero e il Vaticano II in questo modo sono concordi nel segnalare che la certezza della fede cresce e si edifica unicamente sulla radicale asimmetria del rapporto di cooperazione tra Dio e l’uomo stabilita dalla rivelazione di Cristo. È questo lo sfondo su cui occorre anche domandarsi il senso e il significato del diritto nella vita degli uomini e della chiesa. A questo proposito, Lutero considera la prassi giuridica propriamente umana un compito inevitabile per i credenti, pur stabilendone con precisione le condizioni di opportunità. In primo luogo, Lutero, come Reali ricorda, mantiene salda la tradizione secondo cui la fede, anche nella sua prassi legale, si modella sul rapporto di cooperazione radicalmente asimmetrico tra opus