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Kairnac e i pellegrini di vetro: Destini lungo la via francigena
Kairnac e i pellegrini di vetro: Destini lungo la via francigena
Kairnac e i pellegrini di vetro: Destini lungo la via francigena
E-book495 pagine7 ore

Kairnac e i pellegrini di vetro: Destini lungo la via francigena

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Info su questo ebook

Kairnac e i pellegrini di vetro è il romanzo conclusivo della trilogia. Vita, la restauratrice protagonista dell’intero ciclo narrativo, è costretta nuovamente a rimettersi in gioco, sopraffatta dai meccanismi di un destino al quale, inevitabilmente, non potrà sottrarsi. Strani fatti turbano la sua quotidianità, vissuta al riparo delle antiche mura di un convento, dove pensa di aver finalmente trovato la pace. Alcuni protagonisti della sua vita passata riappaiono inaspettatamente, portando con sé vecchi ricordi e nuovi misteri, mentre altri personaggi si uniranno a loro per accompagnarli lungo un cammino che pare non terminare mai. Un viaggio lungo la via Francigena, durante il quale dovranno sfuggire a potenti antagonisti, che faranno di tutto per sottrarre loro qualcosa di molto prezioso. Durante la faticosa avanzata incontreranno un seme appartenente a un mondo oscuro e malvagio, lo spaventoso confronto con un demone interiore e conosceranno infine il tradimento, sempre protesi a cacciare il male che li insidia, ma con sempre minori probabilità di riuscita. Alla fine, non senza il dolore per la scomparsa di alcuni compagni di viaggio, arriveranno non a Roma, ma alla vera meta del viaggio: un albero di tenebre e di luce, ove il male costringerà la protagonista ad un confronto finale.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2017
ISBN9788869825811
Kairnac e i pellegrini di vetro: Destini lungo la via francigena

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    Anteprima del libro

    Kairnac e i pellegrini di vetro - Elisabetta Munerato

    cinese.

    Capitolo I

    "Ci hai creati per Te, Signore, e inquieto è il nostro

    cuore fintantoché non trovi riposo in Te."

    (Sant’Agostino)

    L

    a primavera si adagiava sui davanzali delle nostre piccole finestre con raggi di sole sempre più caldi e luminosi.

    La cella in cui mi trovavo era ormai diventata la mia camera da letto, il mio studio, il mio mondo: avrei potuto dire che non mi mancava nulla. Eppure in me, ultimamente, c’era un senso di vuoto che mi spaventava. Anche quella mattina, sul mio parapetto grigio mancava la consueta rosa bianca e quel vuoto interiore si riempiva di angoscia. La rosa bianca era il simbolo dell’unione tra due mondi, che superava le barriere materiali e umane: era il segno della presenza costante di coloro che avevo conosciuto in passato. Un passato che, tra tanti spilli conficcati nel cuore, aveva comunque trovato l’ultimo angolo ancora libero dove sopravvivere.

    Ma il davanzale, ancora una volta vuoto, per me era un presagio negativo. Temevo che qualche cosa di terribile fosse accaduto altrove, lontano da me, spezzando in un qualche modo il Legame. Raggiunsi le suore che mi stavano ospitando e che, amorevoli, mi proteggevano tra le mura del loro convento.

    Come ogni giorno erano tutte riunite nel convitto, per la colazione che avremmo condiviso, come sorelle. Figlie della stessa luce divina. Madri di quella saggezza che era difficile trovare nella frettolosa e assorta società esterna. Non le potevo disturbare, perché stavano già pregando con le mani giunte vicine al petto. Presi posto vicino a suor Annetta, una giovane filippina dai tenerissimi occhi a mandorla, scuri come la terra pregna di acqua. Si scostò appena e mi fece spazio lungo la panca.

    La madre superiora stava guidando, ad alta voce, la preghiera collettiva. Lei riusciva a tenere a bada tutte quante con il suo amabile carattere e anche con la sua severità. Tuttavia sono sempre stata convinta che mi sopportasse silenziosamente, quando invece doveva essere forte in lei la voglia di mandarmi via: in fondo io non ero una di loro, ma un’ospite forzata e infinitamente in debito.

    Da anni, ormai, vivevo qui. Forse cinque. Ma da tempo non contavo più nemmeno i mesi. Ne avevo perso il senso. Stavo bene e in pace con loro e questo bastava a darmi la forza di continuare a vivere. Ormai per me l'esistenza scorreva in base all’alternarsi delle stagioni. Il mio calendario era senza giorni e le ore non erano altro che quelle tra il levar e il calar del sole.

    Mi misi a pregare, inserendomi tra le loro devote voci, in una litania ritmata e veloce. Poi iniziammo a mangiare in silenzio, senza scambiarci pareri, senza fare discorsi. Erano permesse solo poche parole e tanti sguardi.

    Le suore più anziane si sedevano ad un tavolo, le più giovani ad un altro. Le novizie ed io, ad un altro ancora. Mangiai, anche se in me cresceva sempre più l’ansia di parlare con la madre superiora, per confidarle quanta preoccupazione avevo in cuor mio. Per quella rosa bianca che anche quella mattina non era stata posata davanti alla mia finestra. Non appena conclusa la colazione mi sarei dovuta recare nel piccolo laboratorio che era stato allestito per preparare il nostro prezioso sapone, a base di piante medicamentose raccolte nei prati Valsesiani, sapientemente mescolate a grassi di origine vegetale e glicerina. Invece raggiunsi la madre superiora, probabilmente con una espressione del viso tale che, guardandomi negli occhi, mi chiese:

    - È qualcosa di grave? -

    - Non saprei Perfettissima… ma è importante! - le risposi con la speranza che mi desse subito udienza.

    Perfettissima era l’appellativo che avevo coniato per lei e all’inizio la innervosiva: diceva che solo Dio è perfetto, ma la mia cocciutaggine aveva fatto in modo che quel soprannome venisse alla fine tollerato, se non quasi gradito.

    La stessa cocciutaggine che ci portava ogni tanto ad avere dei battibecchi. Perché io mi ostinavo a voler credere che dietro ai dipinti presenti sull’architrave che divide le due navate della chiesa nel convento, vi fosse un messaggio ben preciso e che da tempo cercavo di decifrare. Mentre per la Perfettissima, altrettanto cocciuta quando si trattava di affrontare l’argomento, quelle opere, tracciate dalla mano di Gaudenzio Ferrari, erano solo affreschi che abbellivano una parte del muro.

    La madre superiora abbassò la testa e replicò, seria:

    - Seguimi allora! -

    Il solito corridoio mi parve così lungo, quel giorno. Il profumo di pulito che respiravo e il pavimento lucido che percorrevo, aumentavano l'apprensione che covavo in me. Mi sentivo una biglia dentro ad un tubo di plastica trasparente, che rotolava lenta senza mai trovare l’uscita.

    La porta si aprì cigolando, come sempre: era l’unica porta del convento che cigolasse. Le suore avevano provato di tutto, ma nessuna era mai riuscita a far stare zitti i cardini di quel battente di legno massiccio. Entrammo nella stanza. Tutto lì era sempre in ordine. La scrivania, le sedie davanti ad essa, che sembravano non scollarsi mai dalla loro posizione, gli scaffali colmi di libri, i quadri, le croci di nostro Signore e, tra queste, il ritratto della fondatrice dell’ordine al quale appartenevano le suore. La madre superiora si sedette e mi fece cenno di accomodarmi. Chiusi la porta e la raggiunsi. L’odore di incenso sembrava uscire dai mobili di legno. Mi sedetti davanti a lei e la guardai per un attimo: il suo viso pallido, segnato dal passare degli anni, era incorniciato dal velo, quasi che quella stoffa avesse preso il posto dei capelli. Solo un bordo bianco le cingeva la fronte, come un’attaccatura candida a segnare, indelebile, i tanti anni della pia donna.

    - Anche questa mattina non ho trovato la rosa sul mio davanzale… ho la sensazione che sia accaduto qualche cosa di terribile… - incominciai a confidarmi.

    - E anche questa mattina è venuto a bussare quell’ometto - la suora m’interruppe.

    - Ancora? –

    - Ancora! Ripete sempre che deve parlarti e chiede se puoi seguirlo… che debbo fare con te? – mi domandò  guardandomi il volto leggermente arrossato.

    - Credo che sia giunto il momento di andarmene e di sollevarvi dall’incombenza di tenermi con voi - risposi con la testa china.

    - Non sei un’incombenza! Siamo liete di poterti proteggere e sai bene che oltre queste mura… -

    - Lo so Madre Perfettissima, ma ormai sono un po’ vecchia e credo anche il male che mi aspetta là fuori sia consapevole che ormai non servo più a nulla - la interruppi.

    - Misericordia: vecchia! Alla tua età? Nessuna anima di Dio è mai vecchia e ognuno di noi serve a qualche cosa in questo mondo... perché parli in questo modo? Le tue lacrime sono perle di tristezza per me… - la suora mi consolò mentre dai miei occhi verdi uscivano alcune stille, cadendo sulle mani dormienti che avevo posate sulle cosce.

    - Oh… Perfettissima… mi sento come una sposa mai posseduta che scappa dal suo destino. Non potrò farlo per tutta la vita. Dovrò oltrepassare queste mura prima o poi… - risposi, asciugandomi il palmo della mano sinistra dalle gocce che lì si erano raccolte.

    - Non posso trattenerti, ma non posso nemmeno permettere che ti accada del male. Non pensavo che Dio potesse mettermi in una condizione tale da non sapere cosa fare… spesso affido il mio pensiero a Lui e chiedo un segno, una risposta, ma non colgo nessun Suo messaggio. Come se non volesse consigliarmi… eppure sono convinta che da qualche parte ci debba essere un segno del Suo volere: Dio rischiara sempre le strade buie… -

    - Ma… le profondità di ognuno di noi? Dio può illuminare le nostre anime fin nel loro profondo?- le chiesi con un certo nervosismo. Lei tacque. Mi osservò in silenzio mentre con le mani mi asciugavo gli zigomi ancora umidi.

    - Tra qualche giorno ci sarà il matrimonio del tuo amico: impegnati per questo Sacramento e intanto  aspettiamo che accada qualche evento che possa suggerirci cosa fare… È bello che i due sposi abbiano scelto questa nostra chiesa per celebrare la loro unione: è stato un segno di amicizia venire a sposarsi qui, dove ci sei tu - disse, cercando di sollevarmi il morale. Ma in me era forte il dubbio che la Perfettissima non volesse rispondere al mio quesito.

    - Già, il matrimonio di Igiul! – esclamai.

    Non ci potevo ancora credere che Igiul avesse trovato una donna da sposare, ma ne ero felice e non vedevo l’ora di conoscerla. Più volte gli avevo chiesto di mandarmi una sua fotografia, ma niente, Igiul si era solo limitato a vaghi cenni. Non me l’aveva nemmeno mai descritta nelle sue lunghe lettere. Sorrisi.

    - È vero, devo impegnarmi perché tutto sia impeccabile per quel giorno, ma dopo dovrò cercare di comprendere cosa sia successo e perché non ricevo più il segno del Legame con loro. Dovrò decidere… lei mi capisce vero? – domandai alla religiosa, che non disse nulla. Annuì soltanto. Anch’io annuii, in silenzio.

    Era l’unica del convento alla quale avevo confidato quanto accaduto e l’unica che sapeva il perché della mia presenza tra quelle mura.

    - Ho cercato Dio e qui l’ho trovato! Il pensiero di dovermene andare… - le dissi con voce tremante.

    - A volte è Dio che cerca noi! – mi rispose, riconquistando il mio sguardo. Ci lasciammo in silenzio, ma la sensazione di mancanza che mi accompagnava verso l’uscita, era disarmante. Mi domandai cosa volesse dirmi con la sua ultima frase che mi induceva anche a chiedermi: in che modo Dio ci cerca?

    La notte passò come al solito. L’orrendo sogno che spesso facevo, anche quella notte era venuto a farmi visita. Mi svegliai all’improvviso, sudata e angosciata e mi sedetti sul bordo del letto. La timida luce e il cinguettio degli uccelli mi fecero capire che era arrivata l’alba.

    In quel piccolo mondo racchiuso, le mie giornate si susseguivano con pochi svaghi: quello che preferivo era prendermi cura dei fiori e quel giorno mi sarei dedicata proprio a loro.  Prima di uscire dalla mia camera, diedi uno sguardo al davanzale e notai qualcosa di simile ad un sassolino. Aprii la finestra per vedere. Si trattava di una piccola sfera di colore viola. Alzai la testa verso il cielo, dubitando che l’avesse lasciata qualche volatile, ma non vidi nulla. Alquanto perplessa la raccolsi e la osservai meglio: era una magnifica perla dalle tonalità profonde, straordinariamente liscia e capace di riflettere la luce in maniera suggestiva. La riposi nel cassetto del comodino, poi mi preparai per scendere a fare colazione e accesi il cellulare. Quasi subito uno squillo mi avvisò di aver ricevuto un messaggio. Arrivava da Igiul e così mi misi a leggerlo subito:

    Non mi sposo più! Voglio morire!

    Allora sì che l’angoscia si liberò del tutto nel vuoto del mio animo. Mi chiesi che cosa fosse potuto accadere di così grave. Provai a telefonargli, ma non rispondeva. Riprovai ancora, mille volte, tremando, ma nulla. Arrivò anche a spegnere il cellulare, pur di non rispondermi. A me invece non rimase che starne male e parlarne con la Perfettissima, mettendola al corrente di quel messaggio inquietante.

    Per tutto il giorno cercai di mettermi in contatto con Igiul, ma senza successo. Gli lasciai diversi messaggi in segreteria telefonica: quella giornata sembrava ruotare intorno a lui. Solamente verso sera riuscii a parlargli, ma sentirlo disperato e in lacrime mi affranse il cuore.

    Al tramonto mi ritirai nella mia camera, con la testa sempre occupata dal pensiero di Igiul. Sorrisi anche per un attimo, nel ripensare a quanto lui aveva insistito per raggiungermi presso il convento e fermarsi con me. Mi sdraiai sul letto. Scrollai la testa e mi girai su un fianco. Ma come poteva pensare che le suore lo avrebbero ospitato dentro queste mura? Anche Igiul voleva rinchiudersi qui come avevo fatto io, per sfuggire al dolore, alla realtà, alla vita che lo aveva tradito.

    Questo mi fece pensare: a me stessa e alla mia scelta. Guardai la perla che tenevo nella mano destra, con la paura di continuare ad arrovellarmi, di comprendere che forse era arrivato il tempo di uscire da quel convento che, fino a quel momento, mi aveva protetta come un caldo ventre materno. Il gioiello sembrava muoversi, vibrare e deformarsi, davanti alle lacrime che riempivano i miei stanchi occhi. Ero fuggita, tanto dalla mia vita che da quella che scorreva violenta e insofferente là fuori. Forse scappando avevo rinunciato a cercare la verità, pensando di averla trovata dentro di me. Ma osservando quella sfera violetta tra le dita, mi rendevo conto di aver solo tradito me stessa e la mia esistenza, che percepivo attendermi oltre la soglia del convento. Io sapevo di aver trovato la quiete, ma non la verità su me stessa e su quanto mi era accaduto. Ed ora, seppur con la paura in animo, dovevo decidermi a cercarla e forse presto l’ avrei raccolta tra le mie mani: enigmatica ma perfetta, come la perla che mi stava facendo riflettere. Poi mi chiesi:

    - Forse è la verità che sta cercando me? – ma a quella domanda non seppi rispondere.

    Capitolo II

    Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo, ma la natura tutta ci grida che esiste.

    (Voltaire)

    La notte passò molto lenta e agitata. Di buon mattino decisi di alzarmi, stanca di rigirarmi inutilmente nel letto; aprii la finestra e notai subito la presenza di una nuova perla sul davanzale. Questo mi diede la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che non si poteva certo trattare di un caso. La rosa quotidiana era stata sostituita da quel nuovo dono, e quel mattino il suo colore era di un bianco candido.

    Nell’arco della giornata tentai più volte di richiamare Igiul, con l’intenzione di chiedergli se potevo aiutarlo e se era possibile che si riappacificasse con la sua amata. Ma Igiul teneva il cellulare spento, negandomi ogni possibilità di capire meglio cosa fosse capitato tra loro.

    Poi, nonostante la lentezza delle ore, anche quel giorno arrivò a sera. Persino la notte sembrò non aver fine e, se possibile, fu ancora più agitata della precedente.

    Stremata dai miei pensieri, riuscii infine a prendere sonno, ma sapevo già che anche l’indomani sarebbe stato tutto un pensare a Igiul. Mi stiracchiai, sbadigliando rumorosamente, al primo cinguettio dei passeri. Avevo lasciato il cellulare acceso nella speranza che Igiul mi richiamasse, ma era rimasto muto, come se l’avessi spento.

    Cielo! Ho perduto le perle! pensai abbassando le braccia che pesantemente ricaddero sul materasso. Mi scoprii e incominciai a cercarle. Eccole! Mi sa che ci ho dormito sopra bisbigliai. Sorrisi e le  raccolsi. Poi aprii la finestra, mi affacciai e vidi che un’altra sferetta bianca mi attendeva. Stava succedendo qualche cosa che mi richiamava alla vita, adesso ne ero certa.

    Mi vestii e mi raccolsi i capelli davanti allo specchio. Erano sempre più bianchi e meno ribelli. Erano anche meno soffici. Li avevo lasciati crescere, forse troppo, e raccoglierli tutti mi diventava sempre più difficile. Le rughe sul mio viso erano aumentate e sapevo che si sarebbero infittite ancora di più. Anche i denti si erano ingialliti. Ero vecchia ormai. Feci mente locale, ma non riuscii a ricordare quanti Natali avevo trascorso tra queste pie donne. Erano certo più di quattro, ma… Sentii la voce di Suor Lucia che mi stava chiamando con una certa veemenza.

    - Eccomi! – esclamai, aprendole la porta.

    - C’è… - l’anziana suora si interruppe, cercando di riprendere fiato.

    - Igiul? C’è Igiul? – le domandai.

    - L’uomo dei sassi… sta ancora suonando il campanello… chiede di te… dice che non se ne andrà questa volta, non senza aver parlato con te… la madre superiora è infuriata questa mattina e, più volte, ha ripetuto che chiamerà i carabinieri se non se ne andrà… - mi spiegò ansimando.

    - Non voglio creare problemi a nessuno. Sarà meglio che parli con quest’uomo, magari è una cosa seria. - le dissi scendendo le scale.

    Davanti alla porta a vetri le suore e le novizie guardavano agitate verso l’esterno. Mi feci largo tra loro. Alcune di esse mi raccomandarono di non uscire. Molti in città pensavano che quell’uomo fosse un poveretto andato fuori di testa e temevano che potesse farmi chissà che cosa.

    - C’è un muro e una grata a dividerci: cosa volete che possa succedermi? Se mi cerca così insistentemente è perché ha qualche cosa da dirmi e se non gli parlo, non saprò mai di cosa si tratta - le tranquillizzai.

    Uscii nel piccolo cortile, nel quale una statua bianca della madre di Gesù accoglieva lo sguardo dei curiosi. La madre superiora era sotto al portico e stava parlando con l’anziano uomo. Appena egli mi vide, si aggrappò al metallo della robusta inferriata che decorava l’apertura nel muro del convento.

    - Eccovi… vi prego, vi prego… non abbiate timore di me. Devo parlarvi… per favore! – gridò l’uomo.

    - Va bene! Si calmi ora. - risposi con un certo tremore in petto. Io e la Perfettissima ci guardammo negli occhi.

    Abbassai la testa e mi avvicinai al muro. La suora non si allontanò più di tanto e vigile ci osservava, rimanendo davanti al cancello, tenuto sotto controllo da una telecamera.

    I miei occhi, rivolti a terra, vagavano senza voler incontrare lo sguardo dello strano personaggio. Avevo sentito parlare spesso di lui. Aveva la passione delle lunghe passeggiate in montagna, lungo i torrenti e le verdi vallate che rendevano così suggestivi i luoghi attorno alla città di Varallo.

    E durante le sue lunghe e solitarie passeggiate l’uomo scattava fotografie, immortalando non solo il paesaggio, ma anche i sassi della Valsesia. Finalmente la mia testa si alzò e i nostri occhi si incontrano per la prima volta. Le mani dell’uomo erano ancora avvinte al ferro e le sue dita erano quasi aggrovigliate all’inferriata. Mi avvicinai a lui ancora un po’ e lo osservai meglio. Il suo viso era frammentato dalle sbarre che ci dividevano, ma il suo folto mustacchio mi saltò subito all’occhio. Quei lunghi e folti baffi bianchi lo facevano sembrare molto, molto, vecchio. Eppure, a guardar bene, le sue mani non apparivano così sciupate e rugose ed erano coperte da peli ancora neri. Anche le sue sopracciglia erano bianchissime e i pochi capelli rimasti sulla nuca sembravano fili candidi.

    Gli sorrisi. Lui invece continuò a guardarmi, serio.

    - Uguale… - bisbigliò tra sé e sé.

    - Come? – gli domandai accigliandomi.

    - Uguale alla pietra. Uguale!- ripeté quasi assorto, con gli occhi spalancati e fissi sul mio viso.

    Rimanemmo in silenzio ancora per qualche istante. Poi, all’improvviso, l’uomo bisbigliò: - Lei è Xenia… -

    - Il mio nome è Vita - lo corressi.

    - La morte che non muore; la vita che non vive; la gemma di pietra e di foglie… sui sassi la natura imprime la storia, sa? Come l’uomo di oggi la imprime sulla carta. Gli antichi Celti la imprimevano sulla corteccia di Faggio. Dio la imprime nella carne. Ma non sono qui per i miei sassi… lei ne ha sentito parlare, dei sassi della Valsesia? – mi chiese, senza togliermi gli occhi di dosso.

    - Sì! Certo! Ho sentito parlare di lei e anche dei suoi sassi. Non ho mai visto le sue opere ma… -

    - Non sono opere mie! Le forme che appaiono su di essi sono opera della natura, misteriosa come quella umana! Sarei felice di farglieli vedere, ma so che lei non esce da questo convento… ed è di questo che ho bisogno di parlarle. - l’uomo mi disse, stringendo ancora di più tra le mani il metallo della cancellata. Me ne accorsi dal colore delle sue dita, diventate in alcuni punti più chiare e in altri più rosse.

    Il mustacchio si muoveva ritmicamente, seguendo i movimenti della sua bocca mentre parlava.

    - Mi dica, dunque! – esclamai.

    L’uomo si guardò un po’ attorno, poi avvicinò il viso alla grata e controllò l’interno del cortiletto.

    - Non c’è nessuno. Siamo soli! – lo tranquillizzai.

    Anche la madre superiora si era defilata, vedendo che non correvo alcun pericolo.

    - Ho urgentemente bisogno che lei mi segua: ho trovato una cosa incredibile, durante una delle mie passeggiate! – mi raccontò frettolosamente.

    Sapevo, dai racconti delle suore, che l’uomo davanti a me andava in giro dicendo che sulle pietre trovava volti e scene particolari della vita dei più famosi personaggi storici del mondo, inclusi quelli religiosi. Mi avevano anche raccontato che quei sassi li collezionava e che possedeva centinaia di fotografie di quelli che, a causa della mole, non poteva portarsi a casa. Ma dicevano anche che spesso invitava i passanti a visitare la corte di casa sua, per dare un’occhiata alla sua collezione. Un tipo un po’ strano quindi, ma non pericoloso. Ciononostante, non capivo cosa potesse avere per me di così urgente.

    - Non comprendo come possa aver trovato qualche pietra che abbia a che fare con me… – gli dissi.

    - No, non sui sassi! Anche se, su uno di essi, avrei trovato qualche cosa che potrebbe avere a che fare con lei… Ma non è questa ora la cosa più urgente, bensì quello che ho trovato sotto un albero. La prego, non posso portarle qua tutta la pianta, né posso dire altro: mi è stato vietato… se dovesse uscire da questa bocca quel che hanno visto i miei occhi e quel che hanno udito i miei orecchi… capisce? – mi spiegò.

    Rimasi zitta. Incredula e zitta. Anche lui restò zitto. Convinto delle sue parole, ma muto. Sollevai le sopracciglia e gli occhi mi si spalancarono. Quale mente razionale avrebbe potuto accettare una cosa simile?

    - Mi creda, io stesso mi sono dato del pazzo quando ho visto e mi sto dando del pazzo perché gliene sto parlando… ma chi non crederebbe pazza anche lei, se dovesse raccontare a qualcuno la sua vita? – l’uomo mi chiese, gelandomi il sangue che sentii improvvisamente fermarsi nelle vene, come rappreso.

    - Io non ho molto da raccontare sulla mia vita… - risposi, pur sapendo quanto avesse ragione.

    Mi allontanai.

    Non avevo più intenzione di ascoltare le sue parole, le sue menzogne, le sue pazzie. Ma venni fermata dalla sua voce.

    - Non se ne vada, non fugga! La prego, mi ascolti. La scongiuro… e se le portassi una fotografia? Una foto di quello che ho trovato? – mi disse con voce decisa.

    Mi bloccai. Voltandomi lo guardai seria, quasi arrabbiata per la sua insistenza. O forse turbata dalla sua richiesta disperata di fiducia.

    - Va bene. Mi porti qualcosa che mi faccia credere alle sue parole: qualche cosa in cui credere a tal punto da convincermi ad uscire da qui– gli risposi. Poi, senza salutarlo, proseguii verso l'ingresso a vetri e rientrai.

    Sapevo che sarebbe ritornato. Sapevo anche con certezza che mi avrebbe portato qualche cosa a cui non avrei potuto sottrarmi. Questo perché ormai avevo sempre più la convinzione che era giunto il momento di uscire dall’amorevole grembo di Santa Maria delle Grazie. Cercai ancora una volta il consiglio della Perfettissima, ma anche le parole della madre superiora suonavano  ormai rassegnate a lasciarmi andare:

    - Credo che ognuno di noi abbia il compito di proteggere non solo la propria vita, ma anche quella degli altri; ma nessuno ha il diritto di trattenere a sé qualcuno con la forza. Non so cosa vi siate detti, non so nemmeno quale messaggio si nasconda dietro le perle che hai trovato sul tuo davanzale… - mentre lei parlava, la mia mano scivolò nella tasca della mia gonna.

    - Non so cosa si celi in te e in quello che hai vissuto fuori da qui, ma qualsiasi cosa debba accadere, noi pregheremo per te e accetteremo…- mentre proseguiva, le mostrai le tre sfere iridescenti. La voce della Perfettissima improvvisamente si smorzò, come la fiamma di un lume spento da un soffio improvviso.

    - Il Sacro Monte dall’alto ci protegge. - mi disse con un tono sconsolato.

    - Ma la luce? La luce di Dio può illuminare le profondità dell’anima? – le domandai nuovamente. La Perfettissima mi prese la mano e me la chiuse attorno alle perle.

    - Devi avere Fede. – mi disse.

    Mi alzai e m’incamminai verso la porta, lasciandola ancora una volta sola nel suo studio. Mi recai in chiesa con l’ansia che mi seguiva, spingendomi quasi a correre. Ero consapevole di dover lasciare quel luogo e le mie consorelle. Le chiamavo e le consideravo consorelle perché, anche se non avevo preso i voti, con esse avevo condiviso tutto. Il sorgere del sole e il suo tramonto. Gli inverni e le giornate calde. Le ore di preghiera e quelle di lavoro. Insieme avevamo guardato cadere a terra i fiocchi di neve, con il naso contro i vetri, come bimbe incantate e stupite dalla loro apparizione. Avevamo trascorso insieme la gran parte delle nostre ore, ma non avevo mai parlato della mia vita precedente, di quei ricordi che ora stavano riaffiorando da un mare alieno, nero come la pece, buio come l’interno di un loculo chiuso. Anche in questa chiesa, dove non potevano certo immaginare che io avessi vissuto, di nascosto, alcune drammatiche vicende con persone che avevano fatto parte del mio passato. All’inizio della mia permanenza nel convento avevo chiesto loro, con insistenza, se erano a conoscenza di un passaggio che conducesse in un luogo sotterraneo. Ma tutte mi avevano risposto che sotto la chiesa vi erano solo terra e roccia, miste ai corpi sepolti dei frati Francescani che abitavano un tempo quel luogo. Avevo anche cercato per conto mio di individuare un’entrata segreta che mi conducesse in qualche grotta, al di sotto del complesso badiale, ma senza alcun risultato. Del resto, se il passaggio è segreto, non deve essere così facile trovarlo! pensai e sorrisi. E mentre ammiravo la parete Gaudenziana, mi chiesi cosa mi aspettava in questi miei ultimi anni di vita. Quella vita alla quale pensavo di aver già dato tutto.

    Capitolo III

    L’anima che crede, genera e partorisce la Parola di Dio

    (Sant’Ambrogio)

    T

    utto quello che avevo intorno continuava il suo lento procedere, in modo tranquillo e ripetitivo, come se nulla stesse accadendo. In me invece c’era un’apprensione tremenda, che a volte pareva violentare la mente. Stavo meditando di andarmene e ogni volta che guardavo in viso le mie consorelle mi assaliva un’angoscia mista a commozione. Un sentimento che però dovevo trattenere. Dove posso andare? A chi potrei chiedere ospitalità? mi domandavo. Non ho più una casa mia e non ho intenzione di ritornare in Lomellina, ma credo che dovrò rassegnarmi… forse mia cugina Cecilia potrebbe ospitarmi a Vigevano.  Oppure potrei andare a vivere con zia Remigia a Mortara... Dove vuoi che vada Signore? Dimmi, ora che ho deciso di uscire da qui, dove potrò andare? aggiunsi sollevando la testa e gettando lo sguardo nel cielo azzurro striato di bianco. Quella mattina il vento sembrava spazzolare le nuvole, che si erano diradate una affianco all’altra, come lunghi nastri di raso su uno sfondo turchese.

    Ero accovacciata di fronte alla statua della Madonna, nel piccolo cortiletto d’entrata e stavo togliendo dell’erbaccia che era nata tra i fiori sbocciati ai suoi piedi. Ad un tratto sentii un suono alle mie spalle. Come se qualcuno stesse chiamando un gatto o producesse rumori con la bocca. Mi voltai. L’ometto dei sassi mi stava osservando da dietro la grata e dalle sue labbra uscivano soffi e fonemi ridicoli. Lo ignorai.

    Accidenti a lui! Ma per chi mi ha presa? Non sono mica un gatto… pensai continuando il mio lavoro. Vicino a me c’era un piccolo annaffiatoio verde e un rastrellino dal manico corto. Avrei voluto tirarglieli, per cacciarlo via, ma non lo feci e continuai a far finta di niente.

    Ho un nome e lui lo conosce bene. Potrebbe chiamarmi per nome, no? pensai stizzita.

    - Xenia! Sono io… mi sente? – finalmente si era messo a parlare.

    Mi voltai e lo guardai, ma non mi aveva chiamata con il mio nome e quindi non mi scomposi più di tanto. Quasi subito ripresi a frugare tra i fiori, tornando a trascurarlo.

    - La prego, si avvicini! Ho qui la fotografia! Guardi… - mi disse concitato. Fermai le mani e pensai a cosa fare. Lo guardai nuovamente. Se ne stava con una mano che sventolava una fotografia al di là della grata e mi osservava aspettando che lo raggiungessi.

    Mi sfregai le mani lungo i fianchi, perché erano sudate a causa dei guanti di gomma che mi ero tolti. Quindi girai il capo verso il Tricefalo, che da sotto il porticato pareva spiare ciò che stava per accadere.

    Fin dal giorno del mio arrivo quell’opera, che pareva provenire da Invorio, nel Novarese, mi aveva sempre incuriosita. Mille volte mi ero chiesta cosa ci facesse lì un così antico reperto archeologico, appartenente ad una cultura celtica. Pareva fosse collegato al mito di Gerione, custode dei buoi del Sole, o almeno così sosteneva la Perfettissima. Mi aveva spiegato che veniva chiamato anche trikarenos, perché formava una triade con Esus e Cernunnos, a loro volta divinità custodi di animali. Ma in tempi antichi quel bassorilievo in serizzo era stato ritenuto una primitiva raffigurazione della Trinità e per questo motivo non era stato distrutto come era toccato ad altri simboli pagani. Posto inizialmente nel castello di Invorio all’epoca della sua costruzione, come simbolo di buon auspicio, era stato poi trasportato nella Parrocchiale e da qui donato dal parroco a Varallo, trovando infine collocazione all’interno del cenobio. Del resto sembrava che, dove ora sorge il Sacro Monte, nell’antichità vi fosse un castelliere celtico. Quindi non si poteva escludere l’ipotesi che, anche in questa zona del Piemonte, fosse stato un tempo praticato il culto antico appartenuto a quei popoli del nord.

    Mentre riflettevo sul Tricefalo, persa nei miei pensieri, avanzai verso l’uomo fino a raggiungerlo.

    - Guardi! Tenga, la prenda! Non posso rivelarle dove si trova questo albero, ma la posso condurre fino a lì! - mi disse, consegnandomi la fotografia. Avevo paura di guardare. Ma se volevo arrivare alla fine di quel mistero e capire cosa volesse da me quel vecchio, dovevo vincere il mio timore. L'immagine era liscia al tatto e nitida alla vista. L’avvicinai agli occhi e osservai meglio. Una serie di radici aggrovigliate sporgevano dal terreno e affioravano in superficie.

    - Tutto qui? – domandai guardandolo in viso.

    Lui non rispose subito. Mi osservò quasi incapace di dire altro.

    - Io dovrei uscire da qui e seguirla, per vedere queste radici? – chiesi sorridendo. Mi sarei aspettata la vista di un masso, dato che l’uomo era famoso per i sassi e le misteriose formazioni che sosteneva si trovassero su di essi.

    - Ma guardi bene… se mi avvicina la foto, le indico io il punto in cui deve osservare attentamente - mi disse, facendomi segno con le mani di porgergli nuovamente la fotografia. Incuriosita, gliela riconsegnai e mi avvicinai ulteriormente alla grata, guardando le sue dita che indicavano un punto preciso.

    - Qui, vede? E poi qui… - l’ometto mi spiegò insistentemente dove avrei dovuto dirigere lo sguardo, tra quelle radici.

    Osservai ancora più volte l’immagine, continuando a vederci solo radici aggrovigliate su se stesse.

    - Sarà, ma io… - tentai di dire, ma la sua mano riuscì ad afferrare il mio polso e mi tirò vicino a lui, spaventandomi.

    - Vede qui? Questa è una testa! Poi, proseguendo verso il basso: questo è un corpo, sdraiato ai piedi del faggio. Ma è strano che un faggio abbia delle radici simili: forti, spesse, che affiorano dal terreno così aggrovigliate!- mi spiegò.

    - È solo immaginazione. La mente spesso cerca di decodificare delle forme strane, associandovi il ricordo di forme conosciute. Così facendo ci induce a vedere quello che vogliamo, ma non è reale! - gli risposi. L’uomo si accigliò e iniziò a tremare.

    - Non è per l’albero che dovrebbe seguirmi, né per le sue radici, ma per quell’essere che vive tra esse! replicò seccato.

    Rimasi attonita. La sensazione che provavo era come se una lama mi aprisse il ventre, dall’ombelico in su, verso il petto, per conficcarsi nella gola, bloccandomi il passaggio di aria e di saliva.

    - Cosa intende dire? – gli domandai. Ma lui rimase in silenzio.

    - Cosa? – insistetti.

    - Non posso dire altro. Anche sulla pietra che ho trovato lungo quel percorso c’è un mistero che mi inquieta… - aggiunse con tono più calmo. Mi dava l’impressione che ora volesse cambiare discorso.

    - Adesso dovrei seguirla per vedere una pietra e non più per un albero? – gli dissi mentre, ancora una volta, gli restituivo la fotografia. Ma lui me ne porse un’altra. La guardai: l’immagine raffigurata era bianca, con venature più scure.

    - Non capisco. Qui cosa dovrei vederci? – chiesi.

    - Su quella pietra bianca c’è un volto: il suo volto! Con lunghi capelli… vede queste righe ondulate? - mi  indicò.

    - E tra i capelli si riconosce anche un altro viso… qui, vede? Ma se prova a girare la fotografia a testa in giù, si legge il nome Xe - ni - a - mi fece notare. Un brivido mi percorse il cranio. Dentro. Tutto il mio cervello era in fermento. Pareva una botte contenente del mosto.  Quella parola aveva fatto riaffiorare dal mio mare grigio un preciso ricordo. Guardai la fotografia della pietra e poi quella delle radici. Le fissai, stringendole forte tra le dita. Ero senza parole. Era come se sull’ istantanea con l’albero, al posto delle radici, ci fosse qualcosa a me familiare. Anche sull’ altra, dove compariva il sasso bianco, mi sembrava di ritrovare alcuni frammenti del mio passato, che pareva riproporsi nel mio presente e voler diventare prepotentemente il mio futuro cammino. Anche l’uomo che avevo davanti ora rimaneva in silenzio. Lo guardai e sembrò più perplesso di me.

    - Ebbene? Io sinceramente non comprendo le sue parole, né tanto meno queste forme che, a ben guardare, paiono assai bizzarre, sia sul sasso che fra le radici… - dissi, riconsegnandogli le stampe.

    - No, le tenga! Ne ho altre. Lei ci pensi, intanto. Non posso aggiungere altro a quello che le ho detto, ma mi è stato concesso qualche giorno, poi però dovrò tornare all’albero. Con o senza di lei! - disse. Abbassai la testa e le riguardai, sforzandomi di vedere quello che l’uomo mi aveva descritto e indicato, di distinguere in quelle immagini le stesse forme che lui diceva di vedere così chiaramente.

    - Concesso qualche giorno? Ma da chi? E se lei dovesse tornarci senza di me? Cosa le accadrebbe? - balbettai. Alzai la testa, ma vidi solo la grata infissa nel muro e quel che vi era oltre. L’ometto dei sassi si era dileguato. Feci appena in tempo a vederlo girare l’angolo, verso la strada in salita che  passava davanti alla chiesa del nostro convento.

    Nascosi le fotografie e rientrai nel mondo sereno dove stavo vivendo da alcuni anni. La sera mi parve arrivare prima del solito. Per tutto il tempo avevo meditato su come comportarmi con le mie consorelle e con la madre superiora: non volevo dar loro un ulteriore peso, ma non volevo nemmeno affrontare un’altra volta l’ignoto da sola. Riuscii a defilarmi per un attimo e a ritirarmi nella mia camera. Lì presi una decisione e, prima di cenare, chiesi nuovamente udienza alla madre superiora. Almeno a lei non avrei dovuto mentire, nonostante i tanti dubbi che avevo nella mente.

    - Quanto vorrei che Dio mi parlasse! – esclamai sconsolata.

    La Perfettissima si sedette ad ascoltarmi.

    - In poco tempo sono accadute tante cose: le perle sul mio davanzale, il matrimonio di Igiul andato a monte, quell’uomo che mi cerca e che mi chiede di seguirlo… ed io. Sento in me qualche cosa che mi attira verso l’esterno. Come se le pareti di questo luogo mi respingessero e, nel contempo, una forza possente mi attirasse verso il mondo che c’è là fuori. – continuai, mentre la religiosa osservava quello che trattenevo nelle mani.

    - Anche quel sogno che tanto mi tormentava, è da giorni che non lo faccio più. Come se mi volesse concedere un po' di riposo prima della tempesta. In quale mare dovrò navigare? Quale rotta ha tracciato per me Iddio? Sono una nave tra i monti, stanca e avanti con gli anni ormai… pensavo di essere giunta finalmente nel mio porto, invece temo proprio che sia giunto il momento di lasciarlo e di affrontare ancora le onde, verso una nuova meta – dissi mentre le consegnai le fotografie che il vecchio dei sassi mi aveva lasciato.

    - Cosa sono? Te le ha date quell’uomo? – mi chiese, osservandole.

    - Sì, qualche ora fa. Ha detto che tra quelle radici dovrei vedere un volto e che su quel sasso lui ci vede me! – le spiegai. Il silenzio ci divise. Ognuna assorta tra i propri pensieri, per istanti che sembrarono interminabili, fino a quando un sospiro della Perfettissima mi riportò alla realtà. La osservai e sorrisi mentre era indaffarata a girare in varie posizioni le due immagini: stava cercando di capire da che parte si guardavano? Le posò sul ripiano in legno della sua scrivania, aprì un cassetto e vi frugò dentro. Ne estrasse una grossa lente d’ingrandimento, per controllarle meglio. Sorrise e scosse il capo.

    - Ma, al di là di quello che potrei vedere io in queste fotografie, tu cosa senti nel tuo cuore? – mi chiese seria, guardandomi dritta negli occhi.

    - Perfettissima, Lei mi spoglia l’anima fissandomi a quel modo. – esclamai, con un certo imbarazzo.

    - Come la lampada che tanto vorresti che Dio usasse per illuminarti?–

    - Già! – risposi sfuggendo il suo sguardo.

    - Cosa hai colto in questo albero? Cosa vedi tra queste radici?- chiese.

    - A guardarla bene, mi pare di vedere un volto che forse conosco… - le risposi con un filo di timore.

    - Sta a te ora decidere! Per quanto io possa illuminare, sono umana e non divina. Se tu vuoi celarmi qualche cosa, puoi farlo e i miei occhi non vedranno, ma se… -

    - Non ho nulla da nascondere. Più nulla. Mi spiace solo di dovervi lasciare. Qui

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