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Kafaraka. Un viaggio in 3 continenti lungo 150 anni
Kafaraka. Un viaggio in 3 continenti lungo 150 anni
Kafaraka. Un viaggio in 3 continenti lungo 150 anni
E-book406 pagine6 ore

Kafaraka. Un viaggio in 3 continenti lungo 150 anni

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Info su questo ebook

Kafaraka è la storia autobiografica dell'autore, argentino di origini libanesi trapiantato in Italia. Il romanzo racconta le varie tappe della vita dell'autore, dall'infanzia, in una famiglia benestante ma frugale della provincia argentina, alla formazione come studente, al desiderio di bruciare le tappe, di vivere intensamente, raggiungendo obiettivi sempre più alti. La vita cambia quasi per caso, leggendo di una selezione per una borsa di studio in Italia. Giunge nel nostro paese sentendosi come un astronauta su un altro pianeta, ed è convinto che in quanto emigrante abbia sempre qualcosa da dimostrare in più rispetto agli altri, riuscendo ad aprirsi una strada proprio grazie alla sua forte motivazione. Tra le pagine emerge anche uno spaccato della storia e della società argentine degli ultimi decenni. Il romanzo si conclude con un ritorno alle origini, un viaggio in Libano alla scoperta dei luoghi in cui tutto è cominciato. Vede l’inizio del progetto della sua famiglia, che lo ha portato fino in Italia, nella partenza di suo nonno per l'Argentina, con l'idea di dare un'istruzione a suo figlio, il padre dell'autore, che da deputato riuscirà a far costruire una scuola nel piccolo paesino di Fernandez.
LinguaItaliano
Data di uscita2 set 2020
ISBN9788831691772
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    Anteprima del libro

    Kafaraka. Un viaggio in 3 continenti lungo 150 anni - Jose Cheein

    Cheein.

    1 - Giorni diversi

    Da 0 a 5 anni si impara, poi si ripete soltanto: in questo detto argentino si racchiude una grande verità che si rifà a quella serie di abitudini, a volte quotidiane e inconsapevoli, che realizziamo inconsciamente. Una delle cose che mi ha insegnato mio padre, inserita in quel bagaglio di abitudini infantili che ripeto ancora adesso, è stato il rito della prima cosa da fare al mattino: prendere il giornale che il canillita aveva buttato in giardino e leggere le notizie del giorno, direi del giorno prima. Oggi non ci facciamo caso, ma quell’atto quotidiano voleva dire essere informati con 24 ore di ritardo sulle novità nel mondo. Mi aveva anche insegnato a non iniziare a leggere il giornale dalle ultime pagine, quelle dello sport, ma da quella iniziale dove c’era la politica nazionale. In quella successiva c’erano le altre notizie nazionali, a pagina 5 le notizie estere, e poi via via gli editoriali, le notizie di cronaca nazionale e locale, gli avvisi funebri, le compravendite e infine lo sport.

    Mio padre leggeva di tutto, libri di ogni tipo, settimanali quando li trovava, e appunto il giornale. Qualche volta un lusso che ci si permetteva era farci arrivare dal capoluogo di provincia, Santiago del Estero, un giornale di Buenos Aires come La Nacion o il Clarín, oppure di altre provincie come La Voz del Interior di Cordoba, città dove aveva studiato mio padre, oppure La Gaceta di Tucumán, una città importante a 200 km da noi.

    Quando sono nato io non c’era neanche la televisione, che nella nostra cittadina arrivò intorno al 1968. Non siamo stati i primi ad averla. Andavo da un mio amico a vedere i cartoni animati che iniziavano alle 18, c’erano trasmissioni solo dalle 18 alle 24, verso le 20 c’era il telegiornale, alle 22 un film e poi era finita.

    I cartoni che mi piacevano erano Tom e Jerry, Porky il maialino, quelli argentini di Hijitus y Anteojitos, o serie americane come Los tres chiflados, che credo in Italia non sia mai arrivata o almeno nessuno la conosce: la traduzione letterale sarebbe i tre marmittoni, con Joe, Larry e Curtis come personaggi.

    Come capita spesso, i bambini litigano, e quella volta la vendetta del mio amico fu terribile. Non potevo più andare a vedere la televisione da lui. Ma capita che da grandi arrabbiature o delusioni si tiri fuori il meglio che si ha. Il meglio poi è relativo in funzione di chi lo vede.

    Mio padre aveva l’ambulatorio in casa, a fianco al palazzo principale in una sede riservata, in quella famosa casa d’infanzia, di fronte a plaza Mitre e di fronte a Dio, o meglio alla chiesa della Madonna del Rosario. Lavorava tutto il giorno, mattina e sera. A Fernández, nel pomeriggio si fa la siesta, religiosamente.

    Il pomeriggio che il mio amico mi mandò via da casa sua senza farmi vedere i cartoni, andai a fare visita a mio zio Nallip. Aveva la ferramenta più grande di Fernández. Il termine ferramenta è riduttivo per spiegare cosa vendesse. Tranne alimentari e vestiti, c’era di tutto. Materiali di costruzione di ogni genere, tutto quello che serviva per la casa, e questo includeva anche gli elettrodomestici di quel tempo.

    Arrivai tranquillo e sereno e gli dissi: Zio, mio papà dice di portare una televisione a casa e montarla. Perché non bastava comprare un televisore, bisognava anche montare un’antenna per ricevere il segnale.

    Mio zio fiutò l’affare, e pur consapevole che un bambino di 5 anni non avesse la delega per fare un acquisto così impegnativo a quei tempi, acconsentì alla mia richiesta. I suoi impiegati, Donato Luna e marito, si misero subito in azione.

    Mio padre mi raccontò, molti anni più tardi, che gli era parso di sentire dei rumori sul tetto mentre faceva le visite in ambulatorio ma non poteva andare a vedere: aveva sempre l’ambulatorio pieno di gente, e le sue visite duravano non meno di un’ora a paziente. Era medico, psicologo, oppure semplicemente la gente andava da lui per un consiglio, specie sul futuro dei propri figli, le scuole da fare o cose di questo tipo. Quando finalmente uscì dall’ambulatorio mi trovò seduto per terra, che mangiavo un pezzo di anguria (sono molto buone a Fernández) e guardavo i tre marmittoni ridendo di gusto. Ciao papi gli dissi, lo zio ha montato la televisione, si vede benissimo. Conoscendo mio padre, dentro di sé ha riso, credo anche per la soddisfazione di avere un figlio così intraprendente. Non so cosa abbia raccontato a mia mamma, la risparmiatrice della famiglia, per non sgridarmi. Sgridare è solo un eufemismo: per molto ma molto di meno volavano ciabatte, strofinacci bagnati e altri metodi educativi molto efficaci. In qualche modo mio padre avrebbe pagato quell’ottimo investimento.

    Come dicevo il giornale per molto tempo è stato l’unico modo per essere informato nella mia infanzia, ma è rimasta un‘abitudine, rispettando il detto secondo cui da 0 a 5 anni impari, e poi solo ripeti.

    Era il 1985, avevo 22 anni e ancora leggevo il giornale ogni mattina che Dio mandava in terra. Non abitavo più a Fernández, c’eravamo trasferiti a Santiago del Estero molti anni prima, in quanto mia mamma aveva progettato per noi che dovevamo finire le superiori nel capoluogo di regione. Diciamo una scelta strategica, in vista degli studi universitari, che non erano un optional nella dotazione di formazione familiare.

    Un giorno di maggio di quell’anno, leggendo il giornale della città, El Liberal, tra tutte le pagine, tra tutti gli articoli, in mezzo a mille annunci di ogni tipo, lessi un piccolo trafiletto: Il Ministero Affari Esteri Italia indice un bando per assegnare 25 borse di studio per capi reparto e manutentori macchine del legno. Firmato Console italiano a Santiago del Estero.

    Tutto qua, due righe in un piccolo giornale di provincia.

    Quelle righe mi colpirono, ma non tanto da farmi agire subito o farmi prendere decisioni in merito. Subentravano sempre pensieri del tipo figurati, non è roba per me, chissà a chi è rivolto veramente, non sono all’altezza di un discorso del genere, ho molto da fare adesso, la mia famiglia ha bisogno di me (mio padre nel frattempo si era ammalato). Non era il caso.

    Feci però una cosa inconsueta: tagliai quel trafiletto e lo misi in un cassetto della mia scrivania. Era strano ma quell’annuncio sembrava fatto per me.

    Da due anni dirigevo la falegnameria dell’azienda di famiglia, per motivi non sempre lineari mi sono ritrovato a vent’anni all’interno della ditta edile Cheein Hermanos, dove mio padre era socio di minoranza.

    Ricordo che la presentazione agli oltre cento operai e alle maestranze, da parte dei miei cugini, fu: Da oggi Jose è il vostro capo, buona giornata. Nient’altro. Senza esperienza di gestione del personale, né di legno, né di macchine del legno, né di logistica industriale, mi ero rimboccato le maniche per fare del mio meglio.

    Il trafiletto parlava di macchine del legno, coincidenza forte, che non mi lasciò indifferente. Quel pezzetto di giornale rimase lì per qualche settimana, e quasi me ne dimenticai. La vita scorreva con la sua routine, lavoravo mattina e pomeriggio e frequentavo l’università di sera. Essere molto impegnato non mi permetteva di valutare bene cosa stessi facendo. Capita spesso, la routine ammazza il pensiero strategico.

    Un giorno, come capitava spesso in quel periodo, mi trovai a litigare con uno dei miei cugini che gestivano l’azienda. In quei due anni avevo capito tante cose, e mi permettevo di dissentire sulla gestione dell’azienda. Avevo solo 22 anni, e lui 42. Mio padre, il più piccolo dei fratelli, si era sposato a quasi 50 anni e quindi era normale avere i cugini più grandi di età.

    Nei momenti di scontro dialettico, amarezza, delusione, ego ferito, autostima umiliata, mi fermo. La routine non ha importanza, mi fermo. In quel momento, forse anche per una voglia di rivalsa, mi ricordai di quel pezzo di carta. Lo ripresi in mano, vidi la firma e cercai l’indirizzo del console onorario italiano a Santiago del Estero, presi appuntamento e andai.

    Il signor Demarco mi disse: Guardi, non ne so nulla, ho questo modulo da compilare ma lo deve presentare all’ambasciata a Buenos Aires, buona fortuna, anche se… e si fermò, senza dire altro, alzando lo sguardo al cielo e allargando le braccia. Cosa voleva dire? Oggi lo so, ma in quel momento non avevo capito.

    Compilai il modulo, che era solo un curriculum organizzato, e preparai il viaggio a Buenos Aires. A quei tempi raggiungere la capitale richiedeva una certa organizzazione. L’aereo era per gli extra ricchi, gli altri dovevano fare circa 20 ore di pullman per percorrere i 1300 km che separano Santiago del Estero da Buenos Aires.

    Dio è ovunque, ma ha l’ufficio a Buenos Aires diciamo noi argentini delle province. Avevo 22 anni, di certo non mi spaventava quel viaggio. Inoltre, dal momento che ero andato a chiedere al vice console, dovevo finire il lavoro iniziato.

    Mi organizzai in modo da arrivare a Buenos Aires la mattina presto, andare all’ambasciata e poi ripartire lo stesso giorno in serata: due notti in autobus tra andata e ritorno, per non spendere soldi in albergo.

    Durante il viaggio l’autobus si fermava ogni tanto per le soste al bagno e mangiare qualcosa. Oggi il viaggio si fa in 12 ore e non si scende dall’autobus, che ha i pasti inclusi, due bagni a bordo, televisione, hostess, postazione letto; sono autobus a due piani, enormi e molto comodi. Nel 1985 questo era fantascienza, se mi avessero raccontato come sono oggi gli avrei riso in faccia. Inoltre oggi avremmo fatto tutto via email o con un’applicazione su qualche sito internet. Era un altro mondo, molto diverso.

    Dopo questo viaggio così impegnativo, arrivai all’ambasciata italiana. Stranamente non era il consolato, dove si fa di solito ogni tipo di documentazione, bisognava andare a parlare con l’addetto culturale dell’ambasciata italiana. Si trova tuttora in un bel palazzo d’epoca in una delle migliori zone di Buenos Aires. Sembrava una favola, ma io non davo importanza a nulla. Dovevo consegnare la domanda e ritornarmene a casa.

    Arrivò l’ora dell’incontro e l’addetto culturale, un signore con la barba che sembrava uscito dal libro Cuore di De Amicis, prese la documentazione in mano, mi guardò, sorrise, alzò le braccia come era già successo col viceconsole a Santiago e mi disse: Fossi stato in lei non mi sarei fatto questo viaggio inutile.

    Prego?

    Noi siamo obbligati a rendere noto questo bando, ma sappiamo già chi parteciperà al corso. Sono figli di ambasciatori stranieri in Italia, parenti dei consoli, oppure segnalati da aziende estere che hanno speso milioni di dollari in macchine per il legno. Lei non ha nessuna di queste caratteristiche, non ha nessuna possibilità, mi dispiace molto.

    Rimasi di sasso, o forse di ghiaccio.

    Molto pragmaticamente risposi: Mi sono fatto tutto questo lungo viaggio, lei mi prende la domanda, se vuole quando vado via la può cestinare senza farmelo vedere. Annuì, ci salutammo e me ne andai.

    Uscendo mi misi ad ammirare con calma la maestosità dell’ambasciata, veramente bella e imponente. Pensai che era stato un bel sogno, che avevo visto un bel palazzo, che almeno la chiacchierata era stata gradevole, che me ne tornavo a casa a seguire la mia vita che tutto sommato non era poi così schifosa, anzi mi piaceva pure quello che stavo facendo, pur con molte difficoltà.

    Questo succedeva verso fine giugno del 1985.

    Raccontai il tutto a casa mia, non ricordo cosa mi dissero, finito il discorso. C’era comunque una strana aria intorno a me, sentivo qualcosa di diverso, una sensazione nuova, una magia particolare. Questo me lo ricordo, ero come su una nuvola. Forse era la nuvola su cui mi aveva portato quel trafiletto, che alla fine mi aveva suggerito che altre vie erano possibili e che il mondo non finiva in quella cittadina calda del nord argentino.

    Iniziava il periodo freddo nella mia città. Dura solo un paio di mesi, da metà giugno a metà agosto. Continuavo a lavorare nella falegnameria nel complesso industriale La Candelaria (portava il nome della mia nonna materna), imparavo a lavorare da mio zio Juan, il mio mentore nel lavoro.

    Avevo già fatto uno stage a 14 anni a La Candelaria, con mio zio Juan. Mia madre era terrorizzata che noi crescessimo nel benessere senza dare importanza al lavoro. Concetto saggio, ma lei era davvero esagerata in merito. Ho passato tutta una estate con zio Juan a lavorare. Mi passava a prendere alle 6 del mattino con il suo stretto collaboratore, il signor Battaglia, un nome un programma. Per due mesi mi ha fatto contare i bulloni e le viti che erano dentro le scatole industriali. Dovevo fare l’inventario. Dopo una settimana mi resi conto che era un lavoro inutile. Il conteggio era sempre 500, molto prevedibile l’esattezza visto che arrivavano da industrie.

    Mi azzardai a parlare con mio zio, gli dissi: Zio Juan, è palese che, venendo da un’industria, il conto di viti e bulloni sarà sempre 500. Non ha senso.

    Lui, ridendo, mi diede una pacca amorevole sulla spalla e mi disse: Josesito, qua facciamo come dico io. Oggi non capisci il valore di quello che stai facendo, ma un giorno lo capirai.

    Purtroppo non posso più dirglielo, ma lo scrivo qua. Zio Juan, avevi ragione, adesso l’ho capito e ti ringrazio.

    Ritornando a La Candelaria a vent’anni mi affiancò lo stesso zio Juan, che soprattutto nei primi tempi mi fu di molto aiuto. Sono sempre stato contento di lavorare con lui. È stato come un secondo padre.

    Per le comunicazioni aziendali, noi pseudo manager avevamo delle radio portatili. I miei cugini erano radioamatori, e avevano costruito questo modo di comunicazione molto efficace.

    Un giorno a inizio settembre - ricordo anche dov’ero, Avenida Roca, a cercare parcheggio vicino a una delle sedi aziendali - dal centralino mi dissero: Josesito, ho al telefono tua mamma, la metto in collegamento via radio. Mia mamma, tutta agitata, mi disse queste parole esatte: Jose, ha telefonato l’ambasciata, devi essere in Italia ad ottobre.

    Non ci potevo credere. Rimasi in silenzio per un bel po’, salutai mia mamma e mi misi a pensare senza capire ancora cosa stesse succedendo.

    Solo in seguito avrei scoperto l’origine di quel miracolo. In Italia scoprii che l’addetto culturale aveva ragione: erano 25 posti, con 24 raccomandati e me. Erano, infatti, tutti figli di ambasciatori, consoli, ministri di altri paesi, compratori di macchine del legno. Solo io non rientravo in queste categorie. Aveva ragione lui, ma qualcosa non era andato come diceva.

    Perché ero lì? Perché avevano scelto me e non un raccomandato?

    Alla fine di quel corso, avevo preso una certa confidenza con il direttore della scuola, oggi mio caro amico, Aldo. Chiesi a lui il perché.

    Aldo, come hai fatto a scegliere me al posto di un raccomandato?

    No, i raccomandati erano 24 mi disse. Non hai preso il posto di un raccomandato.

    D’accordo, ma perché allora hai scelto me tra tutte quelle domande?

    Lui, sorridendo e gesticolando come ormai ero abituato a vedere negli italiani, mi disse: Jose, erano ventimila domande, secondo te mi metto a leggere tutti quei curriculum, che poi raccontano solo mezze verità?

    Non lo farei neanch’io, ma continuo a chiedermi perché hai scelto me.

    Aldo, ridendo ancora, mi rispose: Eri l’ultimo della lista.

    2 - Eran otros tiempos

    C’era una pubblicità della birra argentina più famosa, la Quilmes, che diceva Eran otros tiempos, erano altri tempi. Raccontava fatti accaduti negli anni ’80, in particolare nel calcio argentino, visto che era pensata per uno dei mondiali. Più o meno diceva così: Erano altri tempi, era un’altra storia, non c’erano trofei, solo fame di gloria, si giocava solo per amore della maglia, come nei campetti di calcio, si giocava solo di tacco e dribbling. Abbiamo vinto la prima coppa del mondo, con il Matador (Kempes) vestito con la bandiera, il popolo tifava e c’era un coriandolo in campo per ogni battito del cuore. Poi arrivò Diego (devo aggiungere altro?), abbiamo visto il paradiso, ci ha portato la coppa realizzando il suo sogno da bambino (c’è un’intervista da bambino in cui lo dichiara), e da ogni gola usciva un sentimento: Vamos Argentina. Continuiamo a urlare, continuiamo a credere che alla fine vinceremo ancora, è la nostra bandiera che difendiamo e dimostriamo al mondo che insieme possiamo.

    Siamo particolari noi argentini, viviamo una partita di calcio come una guerra, ma abbiamo anche preso una guerra come una partita di calcio. Negli anni ‘80 sono successe molte cose in Argentina e anche a me. Sono stati anni difficili, ma anche di molta speranza.

    Nel 1983 era finita la dittatura iniziata nel 1976, con l’elezione di Raúl Alfonsín come presidente. Avevo vent’anni nel 1983, e non avevo mai vissuto la democrazia. Ero molto emozionato quel 30 ottobre, quando andammo votare per un presidente democratico. Frequentavo l’Università Nazionale di Santiago del Estero, e avevo avuto l’opportunità di stringere la mano al futuro presidente, durante un incontro con noi studenti. C’era molto impegno, molta partecipazione, erano veramente altri tempi.

    Nel 1982 la guerra delle Malvinas ci aveva segnato profondamente. Era stato un colpo al cuore. Ricordo che il 2 aprile, il giorno che andammo a riprenderci le isole, c’era festa per strada, la gente contenta: finalmente avevamo fatto qualcosa di cui essere orgogliosi. Ma ogni guerra che si rispetti inizia con allegria e finisce in tragedia.

    Dovevo anch’io esserci alla guerra ma un numero, 037, mi evitò quel trauma o magari la morte. Ovviamente c’era la leva obbligatoria, che iniziava dopo i 18 anni, e fu la leva del 1963 quella che mandarono a fare la guerra, mica potevano andarci i professionisti ovviamente. Siccome non c’erano abbastanza soldi per la leva di tutti i ragazzi, si procedeva per sorteggio. Noi argentini abbiamo un numero di carta d’identità fisso per tutta la vita. Si abbinavano così in un sorteggio pubblico gli ultimi 3 numeri della carta di identità a un numero da 0 a 999. Il sorteggio andava in onda in televisione per evitare imbrogli, che comunque c’erano. Se la tua carta d’identità era abbinata a un numero tra 0 e 200 non facevi il militare, con un numero tra 200 e 600 finivi nell’esercito di terra, tra 600 e 800 in aeronautica e se prendevi più di 800 ti toccavano due anni di marina militare.

    Quel sorteggio ogni anno era più atteso del Gordo de Navidad, la lotteria di fine anno. La mia fortuna fu che al mio 805, ultimi tre numeri della carta di identità, fu abbinato il numero 037. È quello il numero che mi ha salvato la vita, o quanto meno risparmiato un trauma che portò molti ragazzi al suicidio.

    La guerra del 1982 coinvolse tutto il popolo, anche in modo pratico. Tutti erano anche felici di collaborare. Purtroppo fu una grossa delusione, non solo per l’esito ma anche per il modo bugiardo con cui il governo usò questa vicenda per cercare di mantenere il potere. La fine della guerra significò la fine del governo militare, e nuove elezioni. Dal 1983 l’Argentina non ha mai più vissuto una dittatura.

    I discorsi di Alfonsín erano entusiasmanti, coinvolgenti, da vero statista. Molti dei suoi slogan non si sono ancora avverati, purtroppo. Diceva che con la democrazia non solo si vota, ma serve per mangiare, per educare, per avere giustizia, per avere salute, per crescere come persone. Aveva ragione ma la realtà è ancora molto diversa. Altri slogan si sono avverati, come quelli che dicevano che mai più ci sarebbe stata una dittatura, che la casa è in ordine e che possiamo festeggiare.

    Alla fine dei suoi discorsi elettorali ripeteva il preambolo della costituzione argentina che promette benessere, libertà e giustizia non solo per gli argentini ma anche per tutti quegli uomini di buona volontà che desiderano abitare sul suolo argentino. Lungimirante e attuale, vista la tendenza a costruire muri e chiudere porti.

    Nel 1985, l’anno in cui vinsi la borsa di studio in Italia, mi trovai a lavorare a La Candelaria, dopo aver lavorato 4 anni in banca dopo la scuola superiore, studiavo ingegneria e stavo capendo cosa voleva dire vivere in democrazia.

    Forse faccio fatica a spiegare perché quella borsa di studio era così importante. Nella situazione in cui ci si trovava in Argentina, era l’unico modo di conoscere l’Europa. In quel momento, per me, era come andare sulla Luna o su Marte. Basti pensare che con uno stipendio normale ci volevano 3 anni di lavoro, senza spendere nulla, solo per pagare il biglietto aereo. A questo bisognava aggiungere vitto, alloggio, spostamenti. Un privilegio solo per ricchissimi, che comunque c’erano in Argentina. Non conoscevo nessuno che fosse stato in Europa o negli Stati Uniti. Era una borsa di studio per andare su un altro pianeta.

    Dopo la telefonata di mia mamma che diceva quelle semplici parole, a ottobre devi essere in Italia, mi attivai subito nei preparativi. Bisognava andare al consolato per il visto ma, piccolo particolare, non avevo il passaporto. Tramite delle conoscenze ho avuto il passaporto a tempo di record, il consolato mi fece il visto e mi diede un indirizzo dove mi dovevo presentare a Roma.

    Dopo il sorteggio della leva, avevo vinto anche questa lotteria. Non male gli anni ’80.

    Fu tutto molto veloce. Cercai di capire cosa fare arrivato a Roma, ma internet non c’era, e non conoscevo nessuno che ci era stato. Mio padre, che aveva studiato italiano alle superiori, mi disse solo: Buongiorno es buendía, buona sera es buenas tardes, y cuando te vas a dormir tienes que decir buonanotte. Pronti , via. Vai pure.

    Mia madre, più pragmatica, contattò la moglie di mio cugino Julio che era di origine italiana ed era insegnante di italiano, quindi mi fece fare qualche lezione privata. La verità è che non imparai molto, e arrivai a Roma col solo spagnolo madrelingua.

    Fino a quel momento avevo fatto solo un viaggio in aereo da Santiago del Estero a Buenos Aires, non avevo nessuna esperienza di voli internazionali. Andare all’aeroporto internazionale di Ezeiza nei primi anni ‘80 voleva dire due cose: o eri perseguitato dalla dittatura e qualcuno ti aveva pagato un viaggio salvezza, oppure stavi andando a Cape Canaveral per un viaggio vacanza su Marte e avevi un sacco di soldi. Nel bene e nel male, nessuna delle due ipotesi faceva per me.

    Il mio povero padre, nel suo intento di rendersi utile con la sua esperienza, mi prestò due valigie che usava per andare a Cordoba, dove si era laureato in medicina. Nessuno dei due sapeva che in economy si poteva portare una sola valigia e con un peso massimo di 20 kg. Io mi presentai a Ezeiza con due valigie, molto pesanti anche da vuote, in cuoio e legno, come all’epoca delle diligenze nel Far West. Al check-in mi spiegarono l’ovvio e mi guardarono come un extraterrestre. Mi consigliarono di riempire una sola valigia con poche cose indispensabili.

    Mamma mia, avevo solo 100 dollari in tasca e pure pochi vestiti. Ma se non rischi a 22 anni quando lo fai? E poi non era neanche rischiare, era solo seguire un percorso che era partito da un trafiletto in un giornale di provincia, e che qualcuno dirigeva in modo lineare verso la meta. Io non facevo niente, seguivo gli eventi.

    Economicamente era un periodo brutto, come succede spesso in Argentina, ma lo era anche per la mia famiglia. I militari ci avevano lasciato in ginocchio. Mio padre aveva la pensione da deputato, che gli fu tolta in quanto fu considerata un privilegio dai militari. La democrazia era tornata, ma rimettere a posto le ingiustizie ha richiesto del tempo. Quindi mi trovai a fare un viaggio su Marte con soli 100 dollari in tasca. In pratica era il mio ultimo stipendio.

    Durante quel breve periodo tra la comunicazione dell’ambasciata e la mia partenza, ho avuto dei dubbi se partire, poche volte ma molto intensi. Continuavo a lavorare nella falegnameria, e il capo della fabbrica mi chiese come mai fossi così taciturno. Gli dissi che avevo dei dubbi se fosse la scelta migliore partire considerando che in fondo non stavo così male: perché rischiare tutto per un viaggio? Questa persona, bravo tecnico ma di umili origini, mi raccontò una piccola favola: Jose, le opportunità che la vita ti presenta sono come una vecchia signora che si avvicina a te. La vedi arrivare, è piena di capelli, ti passa a fianco, puoi decidere se afferrarla o meno. Fai attenzione, dietro è pelata; una volta che passa non la riprendi più. Quei dieci minuti di conversazione con una persona da cui non mi aspettavo un consiglio mi fecero capire che bisognava provare.

    Era un periodo illuminato, tutto sembrava avesse un senso, una spiegazione, tutto sembrava scritto da qualche parte, un copione nascosto che al momento giusto era venuto fuori. Tutto molto strano, tutto molto lineare, una serie di eventi scollegati nel tempo che quella vicenda univa con dei puntini rendendo la trama evidente.

    A volte il presente non riesco a capirlo tutto e mi chiedo: Tutto qua? È finito tutto così?. Bisogna essere lucidi per capire che il presente non ha senso senza un passato e senza una visione prospettica del futuro. Al momento sto recuperando il passato che è pieno di scoperte. Forse scoprire tutto il passato sarà il presupposto per avere una visione chiara del futuro.

    Oggi è tutto nuvoloso e poco chiaro, in quella primavera argentina del 1985 tutto filava liscio, a forte velocità verso una destinazione evidente. Non c’era modo di opporsi a questo treno che andava forte, spedito, deciso e trainato da una forza potente. La vita è sempre più forte e si ingegna per dire la sua con forza. La vita vince sempre. La vita è potente e inarrestabile. La vita decide sempre per il meglio, anche quando pensiamo di essere sfortunati davanti a qualche evento incomprensibile in quel momento. La vita ha le sue logiche.

    Non è questione di meriti o demeriti, non è questione di essere santi o diavoli, non è neanche discriminante essere intelligenti o stupidi. Non è neanche fortuna o sfortuna. Il caso non esiste, esistono le scelte. La vita ti fa delle domande, dipende da come rispondi a quelle domande, a quei bivi che ogni tanto si presentano. La vita interpreta le risposte e indirizza. La vita non sbaglia mai.

    Come diceva il mio capo falegnameria, attenzione, la vecchia capelluta da dietro è pelata. Bisogna cogliere interpretando bene quello che la vita ti propone. Se vinci la lotteria e non ritiri il premio, lamentandoti magari che non era quello che volevi, la vita si riprende tutto con gli interessi. Inseguire le onde come un surfista, inseguire le scelte della vita che scorrono naturali, non sprecare le opportunità che si aprono, dare sempre una chance al destino, dovrebbero essere gli atteggiamenti giusti per navigare nel mare della vita, che a volte è in tempesta, a volte è pacifico, ma come dicevo la vita non sbaglia mai.

    Una volta fatto il check-in e imbarcata la mia unica valigia quasi vuota, ero pronto per la partenza col razzo che mi portava verso Marte.

    Ezeiza era Cape Canaveral.

    Il razzo si chiamava Alitalia.

    Io mi sentivo Neil Armstrong.

    La vita non sbaglia mai… speriamo, pensai.

    3 - Nella navicella spaziale

    Anteojito era un bambino di 8 anni circa, che portava dei grossi anteojos (occhiali, da cui prendeva il nome), molto tranquillo e molto intelligente, che abitava con suo zio Antifaz. Era cugino di Hijitus e amico di Calculin. Lo slogan di Anteojitos era Intrigulis-Chingulis uh uh uh, che ripeteva quando trovava la soluzione a un inghippo. Hijitus usava un cappello a forma di fungo e abitava in una casa a forma di tubo; era povero, ma il suo cappello aveva dei poteri magici da supereroe. Calculin era un bambino molto ma molto intelligente e studioso, un genio precoce che faceva dei calcoli con grande velocità. Aveva la testa a forma di libro aperto, occhiali spessi e grembiule bianco da scolaro argentino. Pichichus era il fedele cane di Hijitus. La bruja Cachavaca era una strega che faceva del male nella cittadina di Trulala, ed era nemica acerrima di Hijitus.

    Hijitus aveva come amici Oaky e Larguirucho. Aveva il senso dell’amicizia, della giustizia e della solidarietà. Il suo cappello magico lo trasformava in Super Hijitus, con le parole magiche Sombrero, sombrerito, conviérteme en super Hijitus diventava indistruttibile e poteva volare. Si scontrava con i cattivi, come il professor Neurus.

    Oaky, amico di Hijitus, è il figlio dell’uomo più ricco e potente della cittadina di Trulala. Il nome del padre di Oaky era Gold Silver. Oaky usa ancora i pannolini ma ha due pistole. Il suo slogan era Tiro, lio y costa golda (Sparo, faccio casino e diventa una cosa grossa). È un bambino maleducato e viziato, questo lo porta anche ad allearsi con i cattivi. In fondo però Oaky ha buon cuore ed è molto coraggioso per la sua età.

    Larguirucho fa parte della banda di Hijitus, ma qualche volta partecipa ai piani malvagi del professor Neurus senza esserne consapevole. È un buon amico ma ha poca intelligenza per distinguere il bene dal male. La sua frase-tormentone quando lo chiamano è Blà mà fuete, que no te escucho in uno spagnolo incompleto, che vuol dire parla più forte che non ti sento. Adotta un bambino orfano molto problematico e maleducato di nome Raimundo.

    Il professor Neurus è il cattivo della cittadina. È un scienziato pazzo, che ha come obiettivo prendere il potere a Trulala. Ha una banda integrata da Pucho, che ha sempre la sigaretta in bocca, e Serrucho, che non parla e fa il rumore di una sega sfruttando le mani sui denti. Considera gli altri poco intelligenti e ripete sempre Cállate, retonto. Memorabile la sua forma di distribuire il bottino: Uno para ti, dos para mí, otro para ti, diez para mí, otro mas para ti, todoooo para mí.

    La mia infanzia era passata tra questi personaggi creati da Manuel Garcia Ferrè. Il titolo di questa storia era Le avventure di Hijitus, credo il maggior successo di cartoni animati creati in Argentina. All’interno di queste storie c’erano tutti gli ingredienti dell’immaginario infantile e non solo.

    Un’altra storia che segnò la mia infanzia furono le spedizioni Apollo, in particolare Apollo 11, con Neil Armstrong che fu il primo uomo a posare i piedi sulla Luna nel 1969. That’s one small step for a man, one giant leap for mankind. Mi affascinava in particolare la storia di come un uomo normale come Neil, con lo studio e il sacrificio, fosse diventato un eroe per l’umanità. Ogni sogno diventava possibile, non c’erano limiti alla fantasia.

    Forse Hijitus e Neil Armstrong, nonché la storia di emigrazione di mio nonno Julio, mi hanno portato sempre a sognare di fare cose straordinarie, eclatanti, fuori dal normale, dal comune sentire, da quello ritenuto giusto da fare per avere una vita tranquilla. In quest’ordine di idee credo si inserisca la risposta alla lettura di un semplice trafiletto di un giornale.

    Fare qualcosa di straordinario.

    Fare qualcosa di cui essere fiero.

    Fare qualcosa per cui essere ammirato.

    Ragionamento infantile? Sì, certo. Narcisistico? Così dicono.

    Di certo è una forza propulsiva incredibile.

    Nel mio immaginario infantile, mi trovavo a 22 anni dentro la navicella spaziale Alitalia, pronto alla partenza da Ezeiza - Cape Canaveral. Così semplice, così folle, così straordinario.

    Molte volte questo atteggiamento infantile è diventato una trappola, e non è saggio rimanere con immaginazioni infantili, ma per lungo tempo è stato così, per molti molti anni.

    Quell’ottobre del 1985 ero all’apice del idealismo. A differenza di Hijitus non avevo il cappello con poteri magici, e a differenza di Armstrong non avevo avuto nessun allenamento da astronauta, e neanche da semplice passeggero di un aereo intercontinentale. Non esisteva internet, le televisioni internazionali erano viste solo da una élite, non sapevamo quasi niente di ciò che succedeva fuori dall’Argentina. Per la gioventù argentina era un sogno, un vero e proprio sogno irrealizzabile, conoscere l’Europa e gli USA. Un privilegio per pochi, un sogno per tutti. A quei tempi chi usciva dai confini argentini era quasi sempre di Buenos Aires, i porteños, arroganti come nessun’altra persona sul pianeta, è grazie a loro che avevamo (e abbiamo tuttora) una cattivissima fama in tutta l’America Latina. Quindi nella navicella c’erano italiani e porteños. Grazie a Dio,

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