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Il Seicento - Arti visive (53): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54
Il Seicento - Arti visive (53): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54
Il Seicento - Arti visive (53): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54
E-book396 pagine4 ore

Il Seicento - Arti visive (53): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54

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Nel campo delle arti figurative, il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei. La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l’Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi. Roma infatti aveva attuato per prima quella riorganizzazione di spazi, quel tracciato monumentale di strade, grandi piazze, palazzi, che sarà il lascito dell’architettura barocca. In questo ebook si ripercorrono i capolavori dell’arte secentesca, in tutte le sue espressioni e nelle sue tre linee dominanti: la corrente caravaggesca e naturalistica spenta in Italia dalla dittatura culturale dei Barberini, ma che conoscerà floridi sviluppi in Olanda con la Scuola di Utrecht e in Spagna, Siviglia in particolare; il filone classicista, che dai Carracci fino a Poussin combina il mito della bellezza antica e ideale con il gusto acclamato e ufficiale, e che ha le sue roccaforti nella Francia di Luigi XIV con l’Accademia fondata da Colbert, nell’Inghilterra neopalladiana di Inigo Jones e nella civiltà di Bologna; e infine il barocco, in cui trionfano immagine, colore e illusionismo, con l’esaltazione dello stucco nell’architettura e la contaminazione anticlassica dei materiali, in un rinnovamento radicale del linguaggio e nell’esplorazione di tutte le possibilità espressive della materia. Una linea quest’ultima che si fonda su di una diversa concezione dello spazio, molto più dinamica ed esuberante, rispetto alle rigide leggi dell’illusionismo prospettico rinascimentale. Un viaggio emozionante fra i colori e gli splendori dell’arte secentesca.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514862
Il Seicento - Arti visive (53): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54

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    Anteprima del libro

    Il Seicento - Arti visive (53) - Umberto Eco

    copertina

    Il Seicento - Arti visive

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Seicento

    Arti visive

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alle arti visive del Seicento

    Anna Ottani Cavina

    Nel campo delle arti figurative, il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei. La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l’Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi.

    Il Grand Siècle

    Nel campo delle arti figurative il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei.

    La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l’Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi.

    Il cavaliere – si tratta di Gian Lorenzo Bernini chiamato a Parigi da Luigi XIV nel 1665 – ha fatto notare che di Parigi non si scorgeva che un ammasso di comignoli e questo dava l’impressione di un pettine da cardare. Ha aggiunto che Roma ha ben altro aspetto perché si vede San Pietro, il Campidoglio, Palazzo Farnese, Monte Cavallo, il Palazzo di San Marco, il Colosseo, la Cancelleria, Palazzo Colonna [...] situati qua e là, e tutti grandiosi e di una parvenza magnifica. Roma infatti aveva attuato per prima quella riorganizzazione di spazi, quel tracciato monumentale di strade, grandi piazze, palazzi, che sarà il lascito dell’architettura barocca. Un’architettura essenzialmente urbana, che intendeva rappresentare il valore ideologico della città-capitale, vero cuore dello Stato nazionale nascente.

    In Italia, dove lo Stato nazionale non è ancora realtà, il mecenatismo dei papi attribuisce a Roma un ruolo primario. Roma non è più una corte locale, ma il centro del mondo di fede cattolica e il luogo della sua organizzazione politica. Qui il fasto, la teatralità, l’ostentazione della ricchezza sono strumenti di propaganda nella strategia di espansione della Chiesa cattolica dopo il concilio di Trento.

    Naturalismo, classicismo, barocco: linee di tendenza dell’arte nel Seicento

    Seguendo il filo della cronologia, le linee di tendenza nel XVII secolo non seguono affatto percorsi paralleli. All’inizio le posizioni più radicali sono quelle che pongono un nuovo rapporto con la tradizione classica (Carracci) e con la realtà (Caravaggio).

    Ma la morte di Caravaggio (1610) e la dittatura culturale dei Barberini con l’avvento al soglio pontificio di Urbano VIII (1623), cancellano dalla scena romana la corrente caravaggesca e naturalistica, cui viene preclusa la strada delle commissioni pubbliche importanti. Di conseguenza, a partire dal terzo decennio, l’eredità di Caravaggio sopravvive in Italia in luoghi periferici e in Europa in alcune aree circoscritte, come l’Olanda (Scuola di Utrecht) e la Spagna, in particolare Siviglia.

    Il filone classicista ha invece un futuro meno precario. Dai Carracci fino a Poussin, attraverso artisti (Reni, Algardi, Vouet, Le Sueur, Mansart...), teorici (Agucchi, Bellori, Fréart de Chambray, Félibien) e committenti (Cassiano Dal Pozzo), il mito di una bellezza antica e ideale assume le caratteristiche di un gusto acclamato e ufficiale (grand goût). Sue roccaforti sono la Francia di Luigi XIV con l’Accademia fondata da Colbert (1648), l’Inghilterra neopalladiana di Inigo Jones, la civiltà di Bologna, dove la cultura è monolitica, impermeabile al naturalismo e al barocco.

    La terza e dominante tendenza del secolo si chiama ovviamente barocco. Il suo trionfo coincide con l’eclissi della esperienza caravaggesca. L’enfatizzazione di quei canali di comunicazione (immagine, colore, illusionismo) che rendono subito percepibile il messaggio religioso e politico favorisce la diffusione del barocco nelle aree controllate dal papato, dagli ordini religiosi, dalle dinastie imperiali di Austria e di Spagna, dove la sua trionfante durata va ben oltre la fine del secolo. È proprio nelle aree cattoliche della Polonia, della Baviera e dell’Austria che l’architettura e la decorazione barocca avranno tempi più lunghi di sopravvivenza. Abbazie come quelle di Sankt Florian e di Melk, così scenografiche lungo le rive del Danubio austriaco, entrambe legate all’attività architettonica di Jakob Prandtauer, sono episodi altissimi della vitalità del barocco in pieno XVIII secolo, sulla scia di un rinnovamento che in quelle regioni si era già affermato negli ultimi anni del Seicento.

    Sul piano delle tecniche e dei procedimenti di lavoro, il culto dell’ingegno, della creatività, dell’immaginazione è alla base dello sperimentalismo barocco contro l’autorità di una lunga tradizione: la vera regola è rompere le regole (Algarotti).Conseguenza importante è la rivalutazione della tecnica come elemento che incide sul processo creativo, sollecitando soluzioni che l’artista non aveva inizialmente previsto. È appunto nell’età barocca che l’esplorazione delle possibilità espressive dei materiali promuove un rinnovamento radicale del linguaggio: esaltazione dello stucco nell’architettura, contaminazione anticlassica dei materiali (marmi policromi, bronzi, madreperla, metalli preziosi), lavorazione talvolta sommaria e brutale ma di grande efficacia espressiva, scoperta di procedimenti che, come l’acquaforte per Rembrandt, consentono risultati nuovissimi e un uso spregiudicato del non-finito.

    La percezione dello spazio, da Caravaggio al barocco

    Alla base della civiltà figurativa secentesca c’è una diversa concezione dello spazio. Diversa nei confronti dell’illusionismo prospettico rinascimentale che, applicando alla visione le leggi della geometria euclidea, prolungava lo spazio reale nello spazio virtuale del quadro e stabiliva un sistema proporzionale fondato sull’uomo misura di tutte le cose.

    Ora invece la centralità dell’uomo nell’universo, messa in discussione già da Copernico, è negata dalle scoperte di Keplero e di Galilei con effetti di risonanza quasi immediati sulla sensibilità e la cultura del tempo. Nella situazione di smarrimento e di conseguente relativismo, l’artista cerca nuovi rapporti con il mondo e le cose che lo circondano (Caravaggio, Elsheimer).

    La percezione dello spazio, ora determinata dall’esperienza, comporta inizialmente una riduzione del campo visivo. I dipinti di Caravaggio raccontano, del tema sacro, solo ciò che può essere intercettato dai sensi: nessuna estensione in profondità, nessun dettaglio se non entro il fascio di luce incidente, soprattutto niente miracoli, che non appartengono alla comune esperienza. Per questo gli angeli non volano in cielo. Sono ragazzi in posa nell’atelier, un piede legato in qualche modo per aria, il palmo della mano saldamente poggiato su un piano.

    La Conversione di Saulo di Caravaggio (1601) per la Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo raffigura una storia ridotta all’osso e privata del trascendente, cioè della figura di Cristo che appare al soldato romano. È in fondo una drammatica caduta da cavallo, dove l’eroe non è più dominante come nella visione antropocentrica del Rinascimento. La gerarchia è a tal punto sconvolta che il dipinto potrebbe intitolarsi Conversione di un cavallo, come sostiene Roberto Longhi, tanto la mole dell’animale è prevalente in termini visivi e di spazio.

    Se il naturalismo di Caravaggio esalta la percezione ottica della realtà entro i confini di uno spazio misurabile e finito, più avanti nel secolo, dopo il 1630, lo stile barocco riflette la scoperta di un universo illimite e incommensurabile, regolato da leggi estranee all’uomo e alla sua volontà. Gli affreschi sulle cupole delle chiese barocche e sulle volte dei grandi palazzi non tendono, come nel Rinascimento, a prolungare ed estendere lo spazio reale. Cercano piuttosto di rendere credibile uno spazio fantastico, turbinante e centrifugo (l’impossibile credibile).

    Nel salone di Palazzo Barberini (1631-1639) Pietro da Cortona celebra l’apoteosi della famiglia di Urbano VIII, unendo i simboli della gloria terrena (le gigantesche api dorate dei Barberini) con quelli della religione cattolica e realizzando una macchina decorativa che ambisce ad essere orazione e spettacolo. Il soggetto era stato ispirato da un letterato, Francesco Bracciolini, ma la traduzione visiva di quelle complicate allegorie apologetiche è a tal punto creativa e felice da rendere tangibile lo scarto fra arti figurative e letteratura nel primo Seicento in Italia.

    Quella immagine dilagante e iperbolica, eppure miracolosamente unitaria, dipinta sulla volta di Palazzo Barberini, è l’archetipo di ogni apologia dell’assolutismo monarchico, a cominciare dai fasti del Re Sole, affrescati da Le Brun nella Galleria di Versailles. Dove l’identificazione collettiva della Francia nell’immagine garante del sovrano è affermazione della passata grandezza e insieme premessa per imprese future.

    Arte e religione

    La diffusione dello stile barocco ha luogo essenzialmente nei Paesi cattolici, mentre zone di resistenza si hanno nelle aree interessate dalla Riforma che aveva bandito le immagini sacre, eliminando la committenza ecclesiastica. In campo cattolico, invece, il rilancio dell’immagine, o meglio il suo trionfo nelle mille varianti consentite dal barocco, coincide con la nuova fase espansiva della politica papale, dopo lo stallo degli anni di Controriforma.

    È il pontificato di Urbano VIII, anzi la sua dittatura, a segnare il punto di svolta, con l’adozione di uno stile persuasivo e trionfante, di un’iconografia elementare e ricchissima, di una simbologia addirittura trasparente, funzionali alle esigenze di propaganda del cattolicesimo oltre i confini d’Europa, verso l’India, il Giappone, le Americhe (l’arte coloniale di Spagna e Portogallo).

    Gli artisti (Bernini, Borromini, Rubens, van Dyck, Pietro da Cortona, G. B. Gaulli, padre Andrea Pozzo) e gli ordini religiosi (in prima fila quello dei Gesuiti) non puntano più sulle qualità esplicative di un’immagine da meditare, ma sulle sollecitazioni che l’immagine può scatenare a livello sensitivo e di emozione.

    Gian Lorenzo Bernini esprime la sofferenza della Beata Ludovica Albertoni, raffigurata sul letto di morte (un letto in disordine, posto teatralmente sopra l’altare), con una sensualità e una forza comunicativa che esaltano i nuovi valori dinamici e pittorici di un’arte tradizionalmente statica come la scultura. Il marmo ha una trasparenza, una duttilità e una ricchezza di patine da competere con la pittura, realizzando l’obiettivo barocco della integrazione di tutte le arti.

    Nei Paesi di religione protestante (il campione d’analisi potrebbe essere l’Olanda calvinista) la situazione è radicalmente diversa perché sulla mappa culturale d’Europa la geografia religiosa ha una forte incidenza. In Olanda, una moderna inclinazione borghese verso valori concreti e immediati e una lunga attenzione al dato reale prevalgono sugli artifici tipicamente barocchi (fantasia, metafora, azione) che invece alimentano il fasto decorativo nel Belgio cattolico (Rubens, van Dyck, Jordaens).

    Con grande precocità sull’Europa, quel brulicante alveare di nemmeno due milioni di uomini che viveva fra l’Ems e la Schelda (Shama) impone un’arte laica e realista, e dipinti di formato ridotto, adatti agli interni di una comunità in prevalenza borghese. La merlettaia del Museo del Louvre, un capolavoro di soli venti centimetri, riflette lo sguardo imparziale del pittore Vermeer su una stanza, un arredo, dei gesti banali, dove i soggetti non contano più, ma conta la misteriosa poesia delle cose, l’iridescenza delle gocce di luce, l’incanto della visione.

    L’emancipazione dei generi

    In un processo famoso tenutosi a Roma, Caravaggio aveva dichiarato che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figura. L’affermazione era particolarmente polemica poiché metteva in discussione l’importanza cruciale dei contenuti e dunque una gerarchia di valori fondata sulla dignità del soggetto (non sulla qualità del dipinto).

    Al primo posto di tale classifica stava allora la pittura di storia (il tema sacro e quello mitologico), mentre ritratto, paesaggio, natura morta, avendo un tasso più basso di dignità, erano lasciati a pittori specialisti cui non era riconosciuta parità di status sociale.

    Nel Seicento i generi ottengono finalmente riscatto. Lo provano i dipinti di Louis Le Nain, dove un pasto serale di contadini ha la sacralità di una Cena in Emmaus. Lo provano le tele sublimi di Georges de La Tour, temi quotidiani e addirittura volgari che, al riverbero delle candele o di una luce rossa e stregata, attingono un’altissima temperatura spirituale. Una candela, una sedia, una donna discinta: è tutta qui la Donna che si spulcia, un tema tante volte raffigurato in pittura. Ma nel dipinto di Georges de La Tour il racconto è ridotto all’osso, l’immagine stilizzata, la sua dimensione monumentale. E le cose, che sono le cose di sempre, hanno perduto la loro ovvietà per emergere come forme pure, come arcane geometrie nello spazio.

    L’emancipazione da una gerarchia secolare, avviata con la presa di coscienza di Caravaggio, viene, nel secolo, decisamente attuata grazie all’apporto della tradizione olandese, che, eliminando il quadro di storia, cancella le distanze fra i generi. La strada porta diritto all’estetica del pieno Ottocento quando, interpretando i dipinti di Edouard Manet, Zola affermerà che "le sujet est un prétexte à peindre", il soggetto è solo un pretesto per fare pittura.

    La stagione del Barocco

    Roma 1630: Committenza e mecenatismo nella Roma papale

    Maria Grazia Diana

    Nel Seicento le esigenze di un recupero d’immagine per la città capitale della Controriforma cedono il campo, su iniziativa dei pontefici, a un progetto grandioso di instauratio Urbis che dà un impulso decisivo al mecenatismo papale. Un salto di qualità si registra con Urbano VIII. La nomina di Bernini a responsabile unico delle committenze papali sancisce la piena convergenza fra il mecenatismo ufficiale e le più aggiornate tendenze dell’arte romana, e pone le premesse per l’affermazione a livello europeo dell’arte barocca, espressione dell’assolutismo monarchico.

    Da Clemente VIII a Paolo V: nel solco dell’eredità sistina

    Già alla fine del Cinquecento, con il breve ma determinante pontificato di Sisto V, si verificano le condizioni perché la Chiesa, superato il momento più critico delle lotte religiose, concluso il concilio di Trento e arginata la preponderante influenza spagnola in Italia, possa avviare un’imponente opera di recupero e consolidamento della propria autorità, attraverso un rinnovato impegno politico e diplomatico, l’affermazione capillare dei nuovi ordini religiosi e, non ultimo, il rilancio d’immagine di Roma come capitale del cattolicesimo.

    Con Sisto V riprende quota la figura del pontefice promotore di grandi iniziative edilizie nella migliore tradizione umanistica. E in effetti l’opera, avviata almeno dal secolo precedente, di razionalizzazione della rete viaria ancora medievale della città, si compie ora attraverso l’imponente piano sistino di ristrutturazione urbanistica (la piazza stellare di Santa Maria Maggiore), con l’apertura di nuove vie (la strada Felice fra il Laterano e piazza del Popolo), l’erezione di obelischi, la costruzione di fontane, il restauro delle basiliche. Non si tratta più, come ai tempi di Sisto IV o di Giulio II, di rendere visibile nel tessuto stesso della città comunale quella sovranità pontificia da più parti messa ancora in discussione. Appianati da tempo i contrasti con le ultime resistenze municipali, la Roma restaurata di Sisto V deve piuttosto identificarsi con la capitale della Controriforma, secondo l’ideologia tridentina della Ecclesia Triumphans e in vista della scadenza doppiamente simbolica del Giubileo del 1600, anno santo e giro di boa per il nuovo secolo.

    Il papa del Giubileo è però Clemente VIII Aldobrandini, cui tocca anche il compito di ultimare o di proseguire i grandi cantieri sistini: la basilica di San Pietro con la copertura della cupola e la decorazione interna (altare delle Confessioni), il Palazzo Nuovo Vaticano (dove è portata a termine la Sala Clementina), il Palazzo del Quirinale. Per quanto direttore di tutte le fabbriche papali sia ora Giacomo della Porta, in luogo dell’architetto prediletto da Sisto V, Domenico Fontana, gli orientamenti artistici di Clemente VIII e della sua corte (al cui interno si segnalano personalità di primo piano come i cardinali Bellarmino e Baronio) si muovono nel solco tracciato dal predecessore.

    Sono così gli artisti dell’ultima generazione manieristica, primo fra tutti il pittore Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino e lo scultore Nicolas Cordier, a mantenere il monopolio delle commissioni ufficiali.

    E questo nonostante negli stessi anni si segnalino le affermazioni pubbliche di Caravaggio e di Annibale Carracci e che apertamente filobolognesi (per influenza del segretario, monsignor Agucchi, fervente ammiratore di Annibale) siano gli interessi artistici del potente Pietro Aldobrandini, nipote del papa e grande collezionista.

    Il fasto grandioso ma funzionale, la predilezione quasi neomedievale per i materiali preziosi, il bronzo, gli intarsi marmorei, le accese policromie che avevano caratterizzato il cosiddetto stile sistino si trovano così riproposti nella cappella eretta da Clemente VIII per i propri familiari in Santa Maria sopra Minerva e ancora condizionano le scelte artistiche di Paolo V Borghese, salito al soglio pontificio nel 1605, il quale, non a caso, si farà erigere una imponente cappella-mausoleo in Santa Maria Maggiore, di fronte a quella a suo tempo voluta da Sisto V.

    La Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, alla cui decorazione si lavora per oltre un decennio (1605-1616), dà pienamente l’idea degli orientamenti artistici di un’età che a ragione è stata definita di transizione, dove vecchio e nuovo trovano modo di convivere senza apparenti contrasti e testimonia, in sostanza, della via di compromesso seguita dalla committenza pontificia negli anni in cui i dibattiti fra manieristi, classicisti e naturalisti sono ormai usciti allo scoperto. Sono gli anni in cui, più degli scandali provocati da ogni apparizione pubblica dei dipinti di Caravaggio, è la galleria dipinta entro il 1603 da Annibale Carracci nel palazzo del potente cardinale Odoardo Farnese, a imporsi, oltre che come manifesto delle tendenze classiciste, come nuovo e confacente modello di arte ufficiale.

    Progettata da Flaminio Ponzio, architetto prediletto dai Borghese, e decorata sotto la direzione dell’immancabile Cavalier d’Arpino, la Cappella Paolina chiama così a raccolta, secondo la tradizionale pratica del cantiere collettivo, gran parte degli artisti attivi a Roma in quegli anni: scultori già affermati ed esponenti dell’ultima stagione manierista, come Mariani, Cordier, Pietro Bernini e scultori più giovani come Stefano Maderno e Francesco Mochi; accanto al Cavalier d’Arpino, pittori fiorentini riformati come il Cigoli e il Passignano (che lavora nell’adiacente sacrestia) e, per la prima volta, due giovani allievi di Annibale Carracci: Guido Reni e Giovanni Lanfranco.

    Il gusto eclettico di Paolo V o, se si vuole, l’illuminata disponibilità del pontefice verso le diverse tendenze artistiche che a Roma tengono il campo (evidente anche nella decorazione, di poco successiva, della nuova ala del Palazzo del Quirinale da parte di Reni, Lanfranco, Agostino Tassi, Saraceni, un seguace, quest’ultimo di Caravaggio), ha nella contemporanea attività di mecenate e collezionista del cardinal nipote Scipione Borghese il più diretto referente.

    La fortuna e l’incondizionato appoggio incontrati sotto il pontificato paolino da Scipione Borghese, uomo dalla vita molto dedita a’ piaceri et passatempi (secondo le parole di un contemporaneo), sono il segno evidente di un mutamento di clima. Riprende quota, in sostanza, quel processo di secolarizzazione del papato e della gerarchia ecclesiastica che i passati rigori tridentini avevano solo momentaneamente interrotto e di cui, ovviamente, il nepotismo era l’aspetto più caratteristico.

    D’ora in avanti anche la politica culturale ed artistica dei sovrani-pontefici (Prodi) intreccerà legami sempre più stretti con quella dei propri familiari, ecclesiastici o laici, chiamati a ricoprire le più importanti cariche di governo e a contribuire, sul modello delle altre monarchie europee, a una gestione personalistica del potere, e all’illusione di una possibile continuità dinastica che, immancabilmente, ogni nuovo conclave dovrà annullare.

    La disponibilità pressoché illimitata di mezzi finanziari consente a Scipione Borghese di mettere insieme una delle più ragguardevoli collezioni d’arte del suo tempo, comprendente opere di Raffaello, Tiziano, Dosso, Veronese. Per quanto sia fra i primi ammiratori di Caravaggio (di cui fra l’altro acquista la Madonna dei Palafrenieri allorché essa viene rifiutata dai fabbricieri di San Pietro) e, poco più tardi, il vero scopritore di Gian Lorenzo Bernini, nei suoi interessi collezionistici Scipione Borghese sa muoversi a tutto campo, raccogliendo anche opere del Cavalier d’Arpino, di Passignano, Cigoli, Barocci, Domenichino, Lanfranco, Reni. Tutte le tendenze della pittura contemporanea si trovano così rappresentate nelle sue raccolte, a misura di una spregiudicatezza e di una libertà di giudizio che è facile riconoscere, negli stessi anni, anche al mecenatismo (forse solo più sbilanciato sul versante caravaggesco) del marchese Vincenzo Giustiniani.

    Libertà di giudizio che di qui a poco riceverà anche una prima legittimazione teorica e critica nelle pagine dell’erudito e dilettante d’arte Giulio Mancini in Considerazioni sulla Pittura del 1620 circa o nel ben noto Discorso sopra la Pittura dello stesso Giustiniani.

    Dei molti edifici voluti da Scipione Borghese, la villa al Pincio, costruita in forme tardomanieristiche fra il 1613 e il 1615 dal Vasanzio, rende al meglio gli stessi ideali di vita raffinata e mondana del committente; le nuove facciate di Santa Maria della Vittoria, di San Gregorio Magno (entrambe affidate all’architetto Giovanni Battista Soria) nonché il restauro di San Sebastiano fuori le

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