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Due Regine: Sesso e Storia
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E-book320 pagine2 ore

Due Regine: Sesso e Storia

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Info su questo ebook

Il volume contiene due opere di fiction erotica di ambientazione storica: Il Poeta e la Badessa e Detti segreti di Eeleonora d'Aquitania.
Una  visione audace, piccante e divertente, ma storicamente ben documentata, di due figure femminili del Medioevo europeo: Eleonora, regina d'Inghilterra, madre di Riccardo Cuor di leone e Giovanni Senza Terra; Radegonda, regina dei Franchi, proclamata santa.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2017
ISBN9788827505175
Due Regine: Sesso e Storia

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    Anteprima del libro

    Due Regine - François Bonhomme

    Note

    SESSO E STORIA - DUE REGINE

    ROMANZI EROTICI DI FRANÇOIS BONHOMME

    IL SESSO NELLA STORIA - VOLUME I - DUE REGINE

    François Bonhomme

    Il poeta e la badessa ovvero Storia di Venanzio e Santa Radegonda

    Che si finge scritta da Venanzio medesimo nell’anno di Nostro Signore 600, nella nobile città di Poitiers, della quale il nominato Venanzio è santo vescovo

    A Restif, il miglior fabbro

    Storia di Venanzio e Santa Radegonda

    Il mio nome è Venanzio Onorio Clemenziano e non sono che un mediocre poeta: Virgilio e Orazio erano altra cosa. Però nella mia vita sono sempre stato Fortunato…

    Chi mi conosce per fama, sa già di come sia da gran tempo vescovo della nobile città di Poitiers e che ho narrato molte cose, in versi e in prose, a gloria della buona regina Radegonda, mia protettrice e divenuta Beata, proprio in grazia dei miei scritti, agli occhi della chiesa di Roma. Ma non tutto è conosciuto; e in qual modo siano andate veramente le cose tra me e la regina, mi accingo ora a narrarlo, in maniera succinta, come mi costringe il tempo, sperando di poter narrare più estesamente e nei particolari la mia storia in futuro ed in altro volume, se il Dio dei cristiani o quelli dei Turingi mi concederanno vita sufficiente.

    I – Come conobbi Radegonda

    Nacqui a Duplavilis [¹] , nell'Italia oggi occupata dal popolo dei Longobardi, dove fui poeta e uomo di corte. Passai in Gallia, che ora è il paese dei Franchi, nell’anno di grazia 566 dopo la venuta in terra di Nostro Signore Gesù, con il pretesto di adempiere un voto di pellegrinaggio alla tomba del Beato Martino di Tours, che in una grave malattia mi aveva preservato, indulgendo alle mie preghiere, dalla cecità. In realtà fuggivo davanti all’ira dell’esarca bizantino, avendogli sedotto la giovane figlia.

    Prima di recarmi a Tours passai qualche tempo alla corte di Metz, dove regnava il nuovo re Sigeberto, poiché da poco era morto l’illustre Chlotario, e poi vagabondando per le città dell’Austrasia [²] , ospite dei duchi franchi e dei notabili gallo-romani. Ero nel fiore degli anni e, come mi dicono, di bell’aspetto. Affascinavo le dame barbare con i miei versi latini, che quelle a stento capivano, e con facilità entravo nei loro letti trascurati dai mariti in guerra o alle cacce reali; con altrettanta facilità seducevo le matrone galliche, che non avevano mai visitato l’Italia, ma erano tuttora sensibili ai ricordi imperiali di Roma; e ugualmente, con audaci poesie d’amore copiate da altri autori, le loro giovani e belle figlie.

    Quando una notte per me fino a quel momento fortunata un nobile franco, di ritorno troppo presto dal servizio al palazzo reale, mi sorprese a letto con la moglie, dovetti allontanarmi in tutta fretta dall’Austrasia e mi recai, inseguito dalle guardie fino al confine della Loira, in Neustria, governata dal re Chilperico; ove infine, nella cattedrale di Tours, sciolsi il mio voto al Beato. Non potevo tornare in Italia e mi ero già fatto molte amiche, ma soprattutto troppi nemici, nel nord del paese. Diressi dunque i miei passi verso occidente e da Tours, seguendo il corso del grande fiume Loira verso l’Oceano, giunsi a Poitiers. In quella illustre città, il defunto re Chlotario aveva fondato il monastero femminile della Santa Croce ed ivi era ospitata Radegonda, che per breve tempo, prima di prendere il velo di monaca, era stata sua moglie e regina di tutti i Franchi; per il suo prestigio regale ed il fatto di essersi data a vita religiosa, era chiamata dal popolo semplicemente la Papessa Sempre alla ricerca del favore dei potenti della terra e ancor di più di quello delle loro donne, chiesi ospitalità al monastero, che era ospitato in una ricca villa gallo-romana rovinata molti anni prima dalla scorreria dei Vandali e mai più restaurata, e vi fui accolto.

    Mi fu riservata una cella ove riposi i miei pochi bagagli e la sera stessa Radegonda mi diede udienza nella sua stanza, insieme ad Agnese, giovane e nobile gallo-romana, protetta di Radegonda e quasi sua figlia adottiva, che la regina, nonostante l’età inadeguata, aveva voluto nominare abbadessa. Radegonda, di stirpe turingia, era ancora una bella donna di quasi quarant’anni, con tutte le caratteristiche dei barbari: era alta e formosa, con lunghe trecce bionde, che, come era uso del suo popolo, portava raccolte a crocchia dietro la nuca, e grandi occhi glauchi; capiva il latino meglio della maggior parte dei nobili franchi e lo parlava, anche se con uno strano accento germanico storpiando alquanto le parole. Agnese aveva allora ventitré anni, capelli del colore delle foglie d’autunno e occhi neri dallo sguardo intenso; più bassa di statura della regina, era però anch’ella ben formata, come facilmente si indovinava pur sotto le vesti monacali.

    Cercai di imbonirle raccontando storie avventurose e, naturalmente, del tutto diverse dalla realtà e declamando pomposo i miei versi. Mi ascoltarono a lungo in silenzio, poi si fecero servire una ricca cena durante la quale ancora mi esibii in giochi di parole e lepidezze rubate ad altri autori, poiché ero buon conoscitore della sapienza degli antichi e della loro eloquenza. Alla fine del desinare, Radegonda guardò Agnese e poi esplose in una gran risata, cui subito si aggiunse quella di Agnese.

    <> mi disse la regina con aria di finta severità; <>

    <> rispose la giovane; <>

    <>.

    Radegonda fece un cenno ad Agnese, che si alzò da tavola e vi si appoggiò, piegandosi in avanti e volgendomi la schiena; Radegonda, avvicinatasi, con un rapido gesto le sollevò la veste, scoprendole le terga. Mi apparve un bellissimo culo, rotondo e sodo al punto giusto. Per quanto il mio spirito fosse sorpreso dalla visione inaspettata, la mia verga immediatamente reagì, ergendosi al di sotto delle brache e formando un monticello ben visibile, che Radegonda osservò con occhio esperto, esclamando a bassa voce <> , che in lingua germanica, come avevo appreso nel corso delle mie avventure galanti nella terra dei Franchi, designa sia la coda degli animali che il membro virile. Dopo di che, porgendomi nel contempo un vasetto d’unguento, disse:

    <>.

    Avvicinatasi ed estrattomi ella stessa l’uccello già ben duro dalle brache, me lo unse con l’unguento, poi guidò con la mano la cappella verso il cavernoso nido. Spinsi ed entrai agevolmente, provocando ad Agnese un sospiro a mezzo tra dolore e soddisfazione; evidentemente il culo era avvezzo a ricevere arnesi grossi almeno quanto il mio, che pur non era disprezzabile. Agnese, tenendosi appoggiata alla tavola, cominciò a dondolare avanti e indietro con un movimento sempre più profondo e veloce, mentre Radegonda la baciava in bocca e, insinuatale la mano sotto la veste, le accarezzava la fica. Ben presto mi trovai con il cazzo imprigionato fino alla base nel culo ospitale di Agnese e iniziai a spingere a mia volta, ansioso di raggiungere il piacere. Sentivo i fremiti di piacere dell’abbadessa, aperta nel culo dalla mia mentula e stimolata sul davanti dalle dita della regina. Quando capii dai sospiri e dai gemiti che stava per godere, diedi anch’io libero corso al mio piacere, inondandole il budello culare con abbondanti schizzi di sborra. Le rimasi dentro fino ad aver esalato l’ultima goccia, poi le sfilai il cazzo dal deretano trovandolo immacolato, segno che l’abbadessa curava adeguatamente la propria pulizia intestinale. Spesso infatti in altre occasioni mi era capitato, anche con dame di lignaggio, di ritrovarmi la cappella lorda dopo un’inculata, il che non era, per i miei gusti, cosa gradevole; e potei così reinfilarmelo nelle brache senza operazioni di pulizia. E mi scuso se questi particolari dovessero disgustare il lettore, ma è bene che il neofita che intenda praticare l'apertura posteriore di maschi e femmine sappia preventivamente a quali inconvenienti può andare incontro.

    Quando ci fummo ricomposti, la regina interrogò Agnese, chiedendole un giudizio sul mio cazzo; e la badessa, evidentemente soddisfatta, replicò che lo aveva trovato grosso al punto giusto, e sufficientemente duro e resistente per far felice una donna.

    Radegonda, allora, dopo una breve riflessione si rivolse a me: <>.

    Il patto mi parve conveniente; il luogo sacro mi avrebbe protetto da coloro che volevano la mia rovina e la prospettiva di fare da stallone alle due zoccole certo non mi dispiaceva. Accettai senza pensarci troppo su. Detto fatto, Agnese chiamò una novizia che mi accompagnò in quella che sarebbe stata la mia cella nella foresteria del monastero. Avendo dunque superato questo singolare esame di ammissione, cominciai così la mia permanenza nell’illustre monastero della Santa Croce di Poitiers. Ero confuso e stupefatto dalla piega presa dagli eventi; ben presto, avrei avuto altre sorprese.

    II – Il monastero della Santa Croce

    La mattina dopo venni svegliato da una monachella che mi portò una ciotola di latte fresco mescolato ad orzo e una focaccia col miele; quando mi fui rifocillato, venni condotto alla presenza dell’abbadessa. Agnese mi fece visitare il monastero: la foresteria, con la sala dei conviti, la sala capitolare, il refettorio, le latrine comuni, infine il dormitorio delle monache, che erano tutte giovani e belle fanciulle in numero di circa quaranta; nessuna di loro sembrava aver superato la trentina, il che in fondo era naturale, in quanto la comunità era stata fondata pochi anni prima. Cosa invero inusitata per un monastero, vi erano due piscine, una interna, che corrispondeva all’antica terma privata della villa, ed una esterna, che veniva riempita d’acqua d’estate; ed in una saletta, chiusa e che non potei visitare, le consorelle si dedicavano, nel tempo libero dalle preghiere o da altre occupazioni, al gioco dei dadi. Non vidi simboli o immagini cristiane e soprattutto mi accorsi subito che mancava una cappella per le funzioni religiose. Interrogai Agnese, che rispose in maniera evasiva che i servizi divini si tenevano parte nel refettorio, parte nella sala capitolare; la cosa mi sembrò strana, ma non investigai oltre, poiché non ero certo rigoroso in materia di pratiche religiose.

    Quanto a me, Agnese mi disse che avrei potuto avere liberamente accesso a tutti i locali, ad eccezione della sala dei giochi, senza però allontanarmi mai dalla cinta del monastero, che era del resto sorvegliato durante il giorno da guardie franche, mentre di notte veniva sbarrato il cancello. Infatti, per una bizzarra combinazione degli eventi, il re franco aveva fatto costruire un nuovo tratto di mura che tagliava a mezzo le rovine della villa romana sulla quale era poi stato edificato il monastero, sicché esso si trovava mezzo all’interno e mezzo fuori della cinta; ed era protetto, verso la città, dalle torricelle e dai merli delle mura, mentre dalla parte della campagna e degli orti era diviso da un alto muro che lo nascondeva alla vista e in cui non si apriva alcuna porta.

    Avrei lavorato, e con questo intendevo comporre poesie sacre, carmi e inni, nella mia cella e lì mi sarebbero stati serviti i pasti di mezzodì, mentre la sera sarei stato ospite, insieme ad Agnese, nell’appartamento privato della regina, per illustrare i progressi nelle composizioni ed intrattenere le due donne nel modo che avessero voluto.

    Ciò detto, Agnese mi riaccompagnò alla cella e si ritirò ed io mi posi al lavoro di buona lena, iniziando un inno che intendeva celebrare Gesù vittorioso sugli dèi pagani.

    Passata così la giornata, mi aspettavo per la sera una ripetizione del piacevole incontro a tre della sera prima, ma le cose andarono diversamente.

    Fui bensì convocato nella sala privata dove Radegonda ed Agnese prendevano i pasti e desinammo e bevemmo in allegria il buon vino leggero della Loira, poi Radegonda mi invitò a leggere quanto avevo composto. Si trattava in realtà di pochi versi, in cui si descriveva l’avanzata trionfale dei vessilli del Salvatore contro l’esercito infernale [³] ; versi invero zoppicanti, poiché la vena poetica, sempre scarsa, quel giorno mi aveva assistito ancor meno del solito.

    La regina ascoltò in silenzio, poi si rivolse alla badessa: << Cosa ne pensi, cara Agnese?>>

    <> rispose Agnese con aria di disprezzo e sputò da un lato; <>.

    <> aggiunse lanciando uno sguardo d’intesa alla ragazza <>.

    Detto fatto, le due donne andarono ad accomodarsi l’una accanto all’altra su un triclinio che si trovava a lato del tavolo da pranzo; e, sollevatasi la veste ed allargate le gambe, Radegonda, con un cenno di comando, mi fece segno di inginocchiarmi davanti a lei; poi, spingendomi a forza la faccia contro il suo ventre, mi ordinò: <>. Per quanto sorpreso e quasi sconvolto, obbedii senza protestare; non era certo la prima volta che rendevo tale servizio a qualche dama ed ero sempre riuscito a soddisfarne le voglie. Intanto, mentre leccavo con impegno e già Radegonda iniziava a far sentire i graziosi gemiti che annunciano il sopraggiungere del piacere femminile, Agnese mi prese una mano e me la spinse in mezzo alle sue gambe, forzandomi ad accarezzarle la fessura già umida. Sollevando gli occhi, vedevo le due troie baciarsi con passione, mentre io lavoravo ritmicamente, di lingua e di mano, le loro fiche; capii così che erano adepte della scuola di Saffo, la poetessa di Lesbo che, a quanto raccontano gli antichi, amava le proprie alunne di un affetto più carnale che spirituale. Ben presto, sia che fosse grazie alla mia abilità nei baci e le carezze, sia per la passione che infiammava loro i sensi, godettero insieme. Al che, Agnese, guardandomi e notando, mentre ero ancora inginocchiato davanti a loro, la potente erezione che mi si sollevava sotto le vesti, chiese alla regina:

    <>; ma lei di rimando disse seccamente: <> e chinatasi verso di me mi affibbiò con la destra un doppio manrovescio, con tutta la forza che la sua costituzione femminile le consentiva, prima col palmo e poi con il dorso della mano; e mentre rimanevo quasi istupidito dal colpo inaspettato, ordinò: <>; e la badessa prontamente la imitò, anche se, come mi sembrò, con maggiore delicatezza. Per quanto dolorante, l’esperienza di essere colpito da due donne in quella inusitata situazione, senza che me ne rendessi conto, mi provocò ancora maggiore eccitazione; ed Agnese, valutata con occhio esperto la crescente grossezza del mio membro che si ergeva dentro le brache, disse rivolta alla regina: << C’è da temere che nella sua cella si dia piacere da solo, ripensando alle nostre passerette il cui profumo ancora gli impregna il volto e la mano>>. <> rispose la regina; <>.

    Detto fatto, presa una cinghia che giaceva lì accanto, mentre Agnese mi torceva le braccia dietro la schiena, Radegonda con quella mi strinse i polsi; poi così legato mi condussero nella mia cella e mi fecero stendere sul lettuccio, dove rimasi a giacere insonne per tutta la notte, finché la mattina dopo una giovane monaca venne a liberarmi.

    III

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