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Napoli sotterranea
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E-book477 pagine5 ore

Napoli sotterranea

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Info su questo ebook

Una guida alla scoperta di misteri, segreti, leggende e curiosità nascoste

Se di Napoli molti apprezzano la bellezza, l’arte, le tradizioni, la cultura, i colori, pochi conoscono la storia in bianco e nero del sottosuolo: la città di sotto è nata con quella di sopra e con essa si è sviluppata. Le sue eccezionali caratteristiche da una parte derivano dalla genesi e dalla natura geologica del suolo, dall’altra sono il risultato di tremila anni di interventi dell’uomo. La geologia e la topografia si intrecciano con l’archeologia, la storia, le leggende della classicità mediterranea. Esiste infatti una città segreta e oscura: grotte chilometriche, grandiose caverne, pozzi profondissimi, catacombe straordinarie attraversano Napoli in ogni direzione, intrecciandosi a quote diverse. Entrando nelle sue viscere il passo indugia tra ritrovamenti archeologici, immagini irreali, meraviglie architettoniche, opere insigni di ingegneria idraulica. Suggestive, misteriose risonanze riportano alla mente d’improvviso ancestrali paure e inconfessati desideri, mentre l’occhio è colpito dalle differenti soluzioni estrattive, dalla varietà cromatica piena di sfumature: un panorama che diventa passo dopo passo nostalgico e misterioso.

Storie e misteri della Napoli di sotto
L’antro della sibilla
Il lago d’Averno
I Campi Flegrei
Cave e cripte
Le catacombe cristiane ed ebraiche
Le cento camerelle
Le gallerie e le grotte
Ipogei funerari greco¬romani
Ladri e sottosuolo
L’ossario delle fontanelle
Posillipo e le sue grotte
Il rito del refrigerio
I retrosanti
Santi e catacombe
Il sepolcro di Virgilio
Il tunnel borbonico
Usi e abusi delle grotte
Vulcanesimo e sottosuolo
...e molte altre suggestioni

Giovanni Liccardo
È archeologo e storico della tarda antichità. Oltre a studi per riviste («National Geographic», «Rivista di archeologia cristiana») e miscellanee, ha pubblicato vari saggi, tra i quali Vita quotidiana a Napoli prima del Medioevo. Per la Newton Compton ha scritto molti libri di napoletanistica, tra i quali Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Napoli sotterranea; La grande guida dei musei di Napoli; Campania sconosciuta; Il grande libro dei misteri di Napoli e della Campania; Il grande libro dei quartieri di Napoli e Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita2 set 2019
ISBN9788822737243
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    Anteprima del libro

    Napoli sotterranea - Giovanni Liccardo

    ES666-cover.jpeg

    666

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3724-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre, Roma

    Giovanni Liccardo

    Napoli sotterranea

    Una guida alla scoperta di misteri,

    segreti, leggende e curiosità nascoste

    Newton Compton editori

    Nel ricordo di mio padre,

    che mi fu paziente guida

    in molte esplorazioni sotterranee.

    indice

    Prologo all’itinerario segreto di Napoli

    Storie e misteri della Napoli di sotto

    1. Alle origini del sottosuolo di Napoli

    2. Usi e abusi delle cave di Napoli

    3. Evoluzione storica delle grotte di Napoli

    NAPOLI SOTTERRANEA DALLA A ALLA Z

    Appendice. Grotte e caverne della Campania

    Glossario minimo

    Bibliografia

    Prologo all’itinerario segreto di Napoli

    Sotto il cielo più puro

    di Napoli il suolo

    più insicuro. Avanzi di impensabile

    splendore, diruti e tristi.

    J.W. Goethe

    La valorizzazione del patrimonio storico-artistico per una città come Napoli, ricchissima di tradizioni e vestigia archeologiche nonché di testimonianze attuali di un vivo fermento culturale, sta diventando sempre più elemento fondamentale per il suo stesso sviluppo. Perché oramai anche la cultura è diventata industria e conservare ed esaltare i beni culturali vuole dire avere un elemento in più su cui basare la crescita economica e sociale.

    A Napoli i monumenti ne attestano il sorgere, lo sviluppo, l’apogeo; non vi è strada, non vi è angolo che non si presenti fregiato di una testimonianza della sua passata grandezza e della sua perenne vitalità. La città è un autentico paesaggio culturale, un territorio abitato da un popolo che ne ha fatto la propria patria, che vi è vissuto e ne ha tratto i mezzi di sostentamento. È un territorio che ha valore culturale nel suo insieme, dove la storia non è raccontata solo dai monumenti più importanti, ma dove le cattedrali rivaleggiano con le abitazioni del popolo, le grandi strade con i diverticoli meno trafficati.

    Tuttavia, Napoli nasconde anche una città parallela, sotterranea, quasi come negativo del soprassuolo, scavata dall’uomo da migliaia di anni. O meglio, nella città geologia e topografia si intrecciano con l’archeologia, con la storia, con le leggende della classicità mediterranea. Perché a Napoli l’interazione uomo-sottosuolo ha avuto un particolare svolgimento; in città la forma visibile dell’architettura è solo l’affioramento di una città segreta e oscura. Grotte chilometriche, grandiose caverne, profondi pozzi, straordinarie catacombe l’attraversano in ogni direzione intrecciandosi a quote diverse. Non si tratta quasi mai di cavità naturali – provocate da frane accidentali o da corrugamenti geologici – ma di luoghi edificati «per forza di levare». Non una pietra dopo l’altra è stata sovrapposta, ma una pietra dopo l’altra è stata tolta, con attrezzi semplici e rudimentali, picconata dopo picconata.

    Da almeno 4000 anni, scavate nella roccia, per estrarre pietre o co­struire piscine e acquedotti, per tracciare gallerie viarie e militari o interrare tombe e sacrari, le vie sotterranee di Napoli sono in stretta relazione con il suo sviluppo urbano. Napoli, è stato detto, è cresciuta in superficie, ma, a mano a mano che si è approfondita, a somiglianza delle sue stesse viscere, ne ha assunto la materia «resistente», la consistenza «morbida e spugnosa», il colore «giallo e rosso», la forma dello spazio «complesso». Si è edificata al tempo stesso la casa e la grotta.

    Scavare, essere al di sotto della terra sembra essere stata la sola maniera possibile per vivere una realtà divina altrimenti immaginata. Le grotte di Napoli costituiscono una vera «memoria», una corrispondenza simbolica con realtà lontane; dimostrano quel platonico mito della caverna e divengono emblema della conoscenza umana nel mondo delle immagini dei sensi e dell’apparenza: compito dell’uomo è di uscire fuori da questa «caverna» e di pervenire alla visione del mondo delle idee. Un itinerario sotterraneo, una «visita» alle grotte, alle caverne e alle catacombe di Napoli diviene allora un ritorno alle origini, alle forme archetipe della città, una prova iniziatica.

    Nondimeno, se di Napoli molti da sempre hanno ammirato le bellezze, l’arte, le tradizioni, la cultura, i colori e se fino a pochi anni addietro non molti conoscevano la storia e il bianco e nero del suo sotto­suolo, con i suoi grigi chiaroscuri, oggi il numero esorbitante di visitatori alle catacombe di San Gennaro (grazie alla straordinaria vitalità dei giovani della cooperativa sociale La Paranza); oppure ai segmenti di acquedotto antico della Napoli greco-romana (per l’opera costante di Enzo Albertini); oppure alla Galleria Borbonica (per le belle iniziative di Gianluca Minin e del responsabile del percorso "La Via della Memoria" Vincenza Donzelli) sono dimostrazioni esemplari di quanti turisti riconoscono e apprezzano questa intrigante faccia dell’altra città. Così si scopre che la Napoli di sotto è nata con la città e con essa si è sviluppata. Entrando nelle sue viscere il passo indugia tra ritrovamenti archeologici, immagini ir­reali, meraviglie architettoniche, opere insigni di ingegneria idraulica. Suggestive e affascinanti, misteriose e arcane le grotte napoletane riportano alla mente d’improvviso ancestrali paure e inconfessati desideri. Colpiscono le differenti soluzioni estrattive, la varietà cromatica piena di sfumature, un panorama che diventa di volta in volta nostalgico e inesplicabile.

    Allora, questo aggiornamento – senza stravolgere troppo il testo edito quasi vent’anni fa – si propone di offrire un «percorso» ideale nelle vie nascoste e fascinose della città, ovviamente soggettivo e parziale, ma ugualmente rappresentativo delle oltre 600 cavità napoletane accertate a oggi.

    Storie e misteri della Napoli

    di sotto

    La grotta di Pozzuoli in un’incisione del 1889.

    1. Alle origini del sottosuolo di Napoli

    Le grandi città conservano in loro dei segreti che appena conosciamo, o via via che li conosciamo, si coprono ancor più di quel segreto che, per sua stessa natura, non può essere svelato. Tra le città la cui radiografia è più straordinaria non può che emergere la più straordinaria delle città: Napoli.

    A. Loris Rossi

    Napoli e le sue zone limitrofe sono caratterizzate da una eterogeneità «geologica» e «morfologica»¹ che non hanno eguali al mondo. Li circondano e li conformano, al di là di un litorale sabbioso, vulcani di tipo diverso, catene montuose, alcuni golfi, innumerevoli promontori, laghi vulcanici (Averno) e laghi costieri (Fusaro, Miseno), fiumi, torrenti e cavoni, isole vulcaniche (Ischia, Vivara, Procida, Nisida) e calcareo-dolomitiche (Capri), linee di faglia e fenomeni carsici ascrivibili a tutte le forme della superficie terrestre. Qui è il Vesuvio² che per migliaia di anni ha riversato sulla pianura e nell’atmosfera campana i suoi prodotti solidi e fluidi, i quali mentre hanno seminato alle volte paura e morte, hanno in altre fertilizzato il terreno così da determinare una lussureggiante e rigogliosa vegetazione. Qui sono i Campi Flegrei³ che con le loro numerose esplosioni e con quel magico bradisismo, il lento innalzamento o abbassamento del suolo⁴, hanno modellato il paesaggio più bello del mondo, dove si miscelano passato remoto e futuro fantascientifico e si crea un composto cronologico che stordisce ed esalta il visitatore. Dalla energia e dalla attività dei Campi Flegrei sono derivati, tra vari altri «prodigi», i resti dei coni eruttivi sottomarini distrutti in parte dal mare, le cosiddette «secche», sui quali si sono formati dei bellissimi banchi coralliferi che alimentano da secoli l’industria del corallo a Napoli e soprattutto a Torre del Greco.

    E fanno corona a tutti i fenomeni vulcanici le molte e famose sorgenti minerali disseminate in tutta la baia di Napoli. La varietà e l’abbondanza delle acque minerali sono tali che si può considerare il golfo come una grande stazione idropinica e termo-balneare. Nella sola Castellammare di Stabia se ne contano 28, l’una a poca distanza dall’altra, che differiscono essenzialmente nella loro costituzione chimica e per la loro destinazione terapeutica⁵. Lo stesso si può ripetere per l’isola d’Ischia e per i bacini idrici di Agnano, di Bagnoli, di Pozzuoli.

    G. Ballino, veduta di Napoli e dei suoi colli circostanti (1569).

    In questo movimentato e ameno orizzonte la vita stessa degli uomini è stata condizionata dai movimenti della terra, si pensi che negli ultimi 8000 anni si è avuto in media un nuovo vulcano ogni 500 anni, così i fenomeni eruttivi e tettonici hanno stravolto a più riprese l’esistenza delle popolazioni locali. I primi nuclei umani che frequentarono quest’area nell’età dei metalli svolsero la loro operosità in una costa «ancora più di oggi frastagliata da profonde insenature dominate da alture (Posillipo – Monte Gauro – Monte di Procida) e da zone collinose vicino al mare (Monte San Severino). Profondi paleogolfi s’insinuavano nella piana di Bagnoli, nonché ai piedi del Monte Gauro, e tra il vulcano dell’Archiaverno e la collina della Starza (Pozzuoli)»⁶.

    Non sono purtroppo numerose le tracce della presenza umana in questo territorio per il periodo preistorico e protostorico. Le prime testimonianze risalgono all’età paleolitica superiore, ossia ad oltre cinquantamila anni prima di Cristo, e consistono in diversi e rudimentali utensili ritrovati nei pressi dell’albergo Quisisana di Capri. Sempre sull’isola, nella grotta delle Felci, furono scoperti molti frammenti di ceramica dipinta, alcuni pugnali di selce e di ossidiana, risalenti alla civiltà appenninica, ossia a ca. cinquemila anni fa. Straordinari e interessanti oggetti, relativi a un periodo compreso dal neolitico (8000 a.C.) al iv secolo a.C., sono stati trovati nella cosiddetta «Grotta Nicolucci» a Sorrento; mentre all’età del bronzo medio, compreso tra il 1500 e il 1300 a.C., risalgono numerosi utensili recuperati a Castiglione d’Ischia, a Monte Vico, a Vivara. Qui, le ricerche effettuate nel 1937 e negli anni 1976-82 e ancora di recente, hanno portato alla luce numerosi resti archeologici che sono prova di un’intensa e pressoché ininterrotta continua occupazione umana dell’isola, almeno dal xvi al xiv secolo a.C.: in capanne di forma ellittica, lunghe dai dieci ai dodici metri con pali perimetrali e altri attorno al focolare, si trovarono tazze di ceramica egeo-micenea e altre proto-appenniniche⁷.

    Ancor di più incalcolabile varietà sono il suolo e sottosuolo di Napoli, diversi da quelli di tutte le altre principali città d’Italia e d’Europa. Eccezionali caratteristiche che derivano da un lato dalla genesi e dalla natura geologica del suolo napoletano; dall’altro sono il risultato delle attività e delle alterazioni umane via via sviluppatesi nel contesto urbano negli ultimi tremila anni; infine, attestano delle implicazioni sociali, economiche e politiche proprie della storia di Napoli: tutto questo ha favorito sin da epoche remote l’apertura di una miriade di cisterne, cave, cunicoli, pozzi, catacombe, ipogei funerari, e altro ancora. Tali peculiarità cominciarono a essere specialmente evidenziate durante l’ultima guerra mondiale, quando era risaputo che Napoli si distingueva da tutte le città italiane per numero, ampiezza e sviluppo dei ricoveri antiaerei⁸.

    L’emozione che si provava sotto le bombe era indescrivibile; tra i molti racconti, un superstite riferisce che:

    Nonostante siano passati tanti anni ho ancora ben in mente i disagi, le paure e le sofferenze patite durante il periodo della seconda guerra mondiale. Non sarà mai possibile dimenticare il suono delle sirene che annunciavano l’arrivo degli aerei nemici che avrebbero bombardato la città. Quel suono significava scappare e raggiungere nel più breve tempo possibile un rifugio, più o meno sicuro. Abitavo in Vico Bongiorno, alla Sanità, nei pressi del Museo Nazionale e da lì era sufficientemente agevole raggiungere la stazione Cavour della sotterranea (così chiamavamo il metrò), che veniva considerato il posto più sicuro. Con le sedie in spalla scendevamo fin giù ai binari in attesa del sospirato cessato allarme, ma non si contavano le volte che ad un cessato allarme faceva seguito nel giro di pochi minuti un nuovo attacco. E, allora, di nuovo giù nel metrò […]. Un tardo pomeriggio del 1° marzo 1943 all’uscita dalla stazione trovammo un cordone di militari che ci impedì di accedere al nostro quartiere. Molte case, tra cui la mia, erano state distrutte; per noi aumentarono i disagi ma la metropolitana ci aveva salvato la vita.

    (http://www.isses.it/Convegno050305/Monda.pdf)

    I suoi sotterranei presentano un orizzonte vasto e diversificato: da quello relativo alle premesse urbanistiche, fino alle esperienze che riguardano la biologia, la geologia, l’archeologia. Riferita alla superficie terrestre la Napoli sotterranea si estende dalle zone collinari di Posillipo, del Vomero, di Sant’Elmo, dell’Arenella, dello Scudillo, di Capodimonte, alla zona di San Giovanni a Carbonara; dall’area circostante Porta Capuana alla linea dell’antico litorale, sebbene questo limite sia sensibilmente diverso da quello attuale a causa dei fenomeni di interramento naturale e artificiale, studiati e verificati dagli storici e dai geologi⁹. E considerando che su tale superficie si è svolta, e tuttora si svolge, la storia plurisecolare di Napoli, e riflettendo sul rapporto tra le dimensioni del suo perimetro e la cubatura dei suoi sotterranei, che ammontano a ca. un milione di metri quadrati di superficie coperta, ai quali quasi quotidianamente se ne aggiungono di nuovi, si avrà la precisa sensazione di vivere e camminare sul vuoto.

    Si è calcolato, con precisione, che almeno il 60% dei napoletani vive e opera sopra una cavità. «Solo nel quartiere Stella sono state rinvenute 62 grotte artificiali per un totale di 160.000 metri quadri di vuoto, ovvero quattro metri quadri di caverna per abitante. Altre 6 caverne sono a San Carlo all’Arena, 85 all’Avvocata, 34 a San Ferdinando e altrettante a Chiaia, 32 a San Lorenzo e 28 a Posillipo. Ma secondo le più recenti stime degli esperti molto rimane da scoprire: sotto i nostri piedi ci sarebbero almeno altri due milioni di metri quadri di vuoto ancora non rilevati»¹⁰.

    2. Usi e abusi delle cave di Napoli

    Si è già notato che il principale materiale da fabbricare sia la tufa, che si taglia facilmente in tutte le forme […] Ne risulta che gli edifici, siano e forti e leggeri. Quindi ancora ne nasce la singolarità che per ordinario si rifanno le case senza smantellarle, ricostruendosi pezzo a pezzo; e tante volte gli abitanti continuano a dimorarsi mentre si rifanno.

    G.M. Galanti

    Napoli, come oramai sembra accertato, è una città costruita, nella sua parte più caratteristica e antica, su rocce piroclastiche, cioè su ceneri, lapilli, scorie, pomici vulcaniche, qualche volta ben classificate, altre volte mescolate caoticamente nello stesso banco. Queste speciali condizioni geo-morfologiche condizionarono indubbiamente la localizzazione degli aggregati urbani e il loro sviluppo nel corso dei secoli, a cominciare dal primitivo nucleo di Partenope-Palaepolis, con il quale ha inizio la storia di Neapolis greca: sul promontorio roccioso comprendente la collina di Pizzofalcone e l’isoletta, allora legata alla terraferma, di Megaris (Castel dell’Ovo), una colonia di Calcidesi di Cuma stabilì un felice e «panoramico» insediamento, tra il 650 e il 550 a.C., difeso per tre lati dal mare e a monte delimitato da un vallone stretto e profondo (via Chiaia)¹¹. Invece, all’inizio del v secolo a.C., a oriente di Partenope, oramai abbandonata, sorse, secondo il sistema urbanistico definito da Ippodamo di Mileto¹², Neapolis, che occupò la parte più alta della piana che si estende tra gli anfiteatri vulcanici dei Campi Flegrei e il Vesuvio, in un’area in cui, a differenza di Pizzofalcone, esistevano le condizioni per lo sviluppo di una vera e propria città. Essa veniva a essere naturalmente protetta a nord dalle colline e da un profondo vallone (via Foria), a ovest dal corso del fiume Sebeto, ora scomparso (via Pessina)¹³, a sud dal mare e a est da una vasta zona paludosa, ancora detta Sant’Anna alle Paludi¹⁴.

    La quasi totalità dei terreni sui quali si estese (= si estende) la città ha origine, come è stato dimostrato, dal ciclo eruttivo dei numerosi vulcani dei Campi Flegrei. «In virtù delle caratteristiche tecniche, detto materiale viene distinto in due tipi fondamentali: materiale litoide, detto comunemente tufo; materiale incoerente (pozzolana, pomici, lapillo, ecc.), che rappresenta, nella stratigrafia del sottosuolo, la parte più alta. Solo un terzo, circa, dell’intera superficie della città di Napoli è invece ricoperta da terreni che, pur essendo di origine piroclastica, non derivano da deposizione diretta, bensì da rimaneggiamenti alluvionali, di spiaggia, da discarica o da colmate artificiali. Mentre i terreni piroclastici risalgono all’Olocene, ossia a circa un milione di anni fa, quelli alluvionali sono più recenti, fino all’epoca angioina-aragonese»¹⁵.

    La morfologia urbana di Napoli risulta determinata da una serie di aree pianeggianti, situate a quote diverse e raccordate tra loro da scarpate con pendenza anche molto elevata. Tale situazione è stata modificata, prima dell’arrivo dell’uomo, da agenti naturali, per esempio dalle acque meteoriche; in seguito è stata soprattutto l’opera umana a causare una notevole e profonda trasformazione del territorio. La presenza nel sottosuolo della pozzolana, del lapillo e di altri materiali da costruzione, in primo luogo il tufo, ha rappresentato una notevole risorsa per l’edilizia di Napoli e in genere per le opere di ingegneria, fortificazioni, gallerie di transito, acquedotti, fogne, depositi. «Immense spelonche e grotte comunicanti per ogni verso, al fine di estrarne sterminate masse di pietra di portata a’ vari usi delle edificazioni e del commercio; per cui può dirsi che i cavi fatti in queste montagne… formano l’idea di pericolosissimo e disordinato Laberinto, tutto orrore e oscurezza»¹⁶. L’esistenza del tufo giallo, che è una pietra speciale, compatta, tenace, eppure facilmente lavorabile, ha favorito lo sfruttamento dei banchi affioranti o posti a pochi metri di profondità. Questa pietra può trovarsi a ogni quota; può costituire la cima della collina di Sant’Elmo (m 249), o affiorare a corso Vittorio Emanuele (m 100) e, lungo la stessa direttrice, a Pizzofalcone (m 60), o, infine, a Castel dell’Ovo.

    I napoletani hanno potuto disporre di tale ricchezza, che la natura offriva in abbondanza, sin dalla loro prima occupazione del territorio, e siccome la presenza dell’uomo in città è accertata già all’età del bronzo, si può ragionevolmente ritenere che gli «interventi» nel sottosuolo sono cominciati oltre quattromila anni prima di Cristo¹⁷. Non è casuale il fatto che la più antica testimonianza di vita a Napoli è documentata in una grotta scavata nel tufo. Appunto, negli anni ’50 nella zona di Materdei furono scoperte due tombe, cosiddette «a forno», del periodo neolitico (ca. 5000 a.C.), a quasi sei metri di profondità «scavate nella parete tufacea di un lieve declivio e formate da una piccola cavità, alla quale si accedeva attraverso un piccolo corridoio chiuso all’imboccatura da lastroni di pietra, uno dei quali è stato possibile recuperare»¹⁸.

    A Napoli si è scavato per secoli e un così lungo lavoro ha inevitabilmente trasformato in maniera radicale il sottosuolo della città. Un tempo continuo e senza vuoti, è stato modificato in una intricatissima successione di cavità, di grotte, di cunicoli e gallerie; si è creata una straordinaria e affascinante città «sottosopra», a più livelli, percorsa dalle acque e abitata da organismi viventi. Spesso la facile reperibilità delle rocce e i problemi logistici connessi con il loro trasporto, indussero a scavare al di sotto delle stesse aree ove si doveva edificare. Le costruzioni venivano così a poggiare sulle cave dalle quali era stato estratto il materiale, nonostante gli sforzi dei costruttori di fare coincidere i vuoti sottostanti con i cortili, le piazze, i chiostri. In realtà, nel Seicento e Settecento, soprattutto, l’incremento demografico e l’obbligo di non costruire al di fuori della cinta muraria, innescò la tendenza a scavare sotto la zona dove era la fabbrica da edificare, specie per i grandi complessi architettonici civili e religiosi¹⁹.

    Le tecniche usate per l’estrazione del tufo o di altro materiale erano varie. Nel centro urbano si preferì lo scavo verticale; si attraversava con un pozzo il materiale incoerente posto a copertura del tufo e si penetrava poi per qualche metro nel banco roccioso, scavando un cunicolo di avanzamento, il cosiddetto fronte di scavo. Mediante la costruzione di terrazzi si raggiungevano le quote più basse, allargandosi «a bottiglia» o «a campana», tuttavia non sempre rispettando le dimensioni standard per le stanze ottenute: alcune di queste grotte, prima usate come cave di tufo, sono poi state utilizzate come cisterne per l’approvvigionamento di acqua, o viceversa, venendo infine adattate a ricoveri antiaerei e quindi attualmente destinate ad autorimesse.

    Diversamente, nell’area extraurbana, come nella valle del borgo dei Vergini e della Sanità, le cave si sviluppano in sotterraneo, preferibilmente seguendo la vena di migliore qualità. Ma l’estrazione del materiale poteva avvenire anche «a cielo aperto» nelle aree in cui il materiale era in vista, lungo i fianchi delle colline o degli alvei torrentizi. Si attaccava il costone alla base, provocando il franamento della parte superiore e l’arretramento del fronte. Per questo le grotte hanno forme e altezze irregolari e alte, e non raramente si incontrano dei pilastri lasciati a sostegno delle volte («a botte», «a carena di nave», «a trapezio», ecc.). Infine, dopo lo sfruttamento le cave, soprattutto quelle di pomici e pozzolane, venivano spesso riempite con materiale di rifiuto e di discarica.

    Conseguentemente, a Napoli si può evidenziare il rapporto esistente tra il suo sviluppo e il numero delle grotte e delle cavità esistenti nel sottosuolo individuando le zone di più intensa escavazione. A cominciare proprio dalle sue mura di difesa, che furono tra le prime costruzioni a richiedere «materiale» dalle cave²⁰. I vari segmenti della cinta muraria scoperti confermano, infatti, che furono costruite con blocchi di tufo; erano del tipo a doppia cortina (2 filari paralleli), con elementi trasversali di collegamento (diátonoi) e con materiali di riempimento (émplekton) tra le cortine. Non poche volte sui massi tufacei degli speroni di raccordo sono stati individuati anche i segni delle cave di provenienza. Ma se per tutta l’età classica e l’età medioevale la murazione fu ottenuta con pietre di tufo, dalla seconda metà del xv secolo fu impiegato anche il piperno, altra pietra di grande impiego nell’architettura di Napoli. N. Carletti, scrivendo alla fine del ’700, ricordò che il piperno fu introdotto nell’uso edilizio dagli Aragonesi, inizialmente per rivestire le mura e quindi per infiniti altri scopi, specialmente per elementi di strutture e di ornati. Tuttavia «questo universale uso delle pietre di piperno nella città di Napoli, e in altri luoghi ancora, aprì un campo vastissimo a’ furti e alle vigliaccherie de’ pipernieri che lo negoziavano e lavoravano […] A moderare gli abusi introdotti, ed a rimediare a’ disordini, non vi volle meno che la forza di legislazione del Governo; e quindi nell’anno 1564 regnando Filippo Re ii, il suo Vicario Parafanno Rivera Duca di Alcalà promulgò la risaputa, ma di poco osservata, legge del Regno contra de’ maestri delle Arti subalterne all’Architettura, e de’ misuratori e direttori degli Edifici, i quali commettevano frodi indicibili così nel lavorare, e valutare le fatte opere, con gravissimo danno del pubblico e de’ Privati»²¹.

    Comunque, già nell’antichità fu il tufo, antico di ca. 13.000 anni, a essere privilegiato nelle costruzioni delle strutture edilizie portanti, sia per la sua ampia disponibilità, sia per le sue qualità migliori. I fabbricati erano realizzati in muratura di tufo molto spessa, con solai «a volta» pure in tufo, raramente in mattoni. Le loro fondazioni raggiungevano talvolta il substrato; nelle zone in cui esso era presente a significative profondità, si faceva ricorso a strutture ad archi e pilastri poggianti sul tetto del tufo.

    Negli anni, tuttavia, la presenza di cavità sotterranee è stata considerata la principale causa di vari dissesti: lesione o crollo più o meno parziale degli edifici e dei muri di sostegno, avvallamenti e sprofondamenti stradali, ecc.; invece, i maggiori danni sono dovuti alla presenza d’acqua nelle cavità, proveniente da infiltrazioni d’acqua piovana o da fogne e pozzi neri o condotte idriche lesionate. Non è da sottovalutare, poi, il fatto che al dissesto delle cavità e al loro crollo contribuisce di frequente l’appesantimento delle costruzioni soprastanti, successive all’aggiunta di nuove strutture o a modifiche dell’impianto murario.

    Pianta di fine Settecento della città di Napoli.

    Numerose grotte abbandonate, ma rimaste accessibili dalla superficie, sono state utilizzate come facile ed economica discarica di materiale edilizio di risulta, o addirittura di immondizie, soprattutto dopo la guerra. E da allora continua ininterrotto lo sciagurato versamento nelle cavità di rifiuti di ogni genere: spazzatura, detriti, liquami derivanti dalla rottura di vecchi fognoli o, più spesso, da immissioni abusive. Le conseguenze di queste deprecabili abitudini sono gravi e pericolose, poiché minacciano la sicurezza e la salute dei cittadini. Si può immaginare il rischio di «avere sotto i piedi» enormi quantità di rifiuti solidi e di liquami, che possono costituire focolai di infezione e malattie, con chiare conseguenze economiche e sociali. L’accumulo dei rifiuti può anche provocare incendi, come quello drammatico del giugno del 1979, ai Gradoni di Chiaia, che durò per più di quindici giorni prima che i vigili del fuoco riuscissero a spegnerlo²²; o come quello del gennaio del 1982, quando le esalazioni venefiche, risalendo da alcune condotte, invasero una misera abitazione in via Tommasi, nella zona del Museo Archeologico, uccidendo nel sonno un anziano pensionato²³.

    3. Evoluzione storica delle grotte di Napoli

    Le cognizioni che il pubblico napoletano ha del sottosuolo della città non attingono ad altra fonte, che alla superficiale osservazione di quei zelanti curiosi di lavori pubblici […] e quindi le informazioni non vanno oltre i quattro o cinque metri di profondità.

    N. Carletti

    Età antica e medioevale

    La Napoli «negativa», dunque, si è approfondita a mano a mano che è cresciuta la città «positiva», seguendo l’incremento delle costruzioni edilizie. Così, al periodo «greco» e «romano» si fanno risalire le cavità di Riva Fiorita, del Chiatamone, di Santa Maria a Cappella Vecchia, nonché l’affascinante «cava greca» di Poggioreale, nell’area sottostante il cimitero di Santa Maria del Pianto, scoperta da V. Albertini nel 1982, dove tutto è rimasto come duemila anni fa e sulle cui pareti sono ancora ben visibili migliaia di graffiti, alcuni contrassegni dei «cavamonti» greci e altri segni indecifrabili. E ancora le gallerie di Seiano e Cocceio. La prima, tagliata all’estremità dell’imponente residenza del Pausilypon (= riposo degli affanni), è una grotta viaria realizzata, alla fine dell’età augustea, per collegare le ville della costa posillipina con Pozzuoli. Il tunnel, lungo 800 metri, largo 4 e alto 7, è illuminato ed aerato da due cunicoli, aperti sul lato meridionale, che sfociano sul fianco della collina a strapiombo sulla Cala Trentaremi; fu restaurato nel 400 dall’imperatore romano d’Occidente Onorio e ancora nel 1840 da Ferdinando ii di Borbone²⁴. La seconda grotta, anche nota come Crypta Neapolitana, è una galleria stradale lunga 700 m realizzata certamente dall’architetto L. Cocceio Aucto, nel i secolo a.C., per migliorare i collegamenti tra Neapolis e i porti della costa flegrea, precedentemente affidati alla più lunga e malagevole via Antiniana, attraverso le colline. L’ardita opera dell’ingegnere di Augusto, i cui sbocchi si trovano presso la chiesa di Piedigrotta (nel parco virgiliano) e a Fuorigrotta (a monte dell’uscita del tunnel moderno), è più volte ricordata nelle fonti antiche. Seneca, ad esempio, si lamenta per l’oscurità e la polvere al suo interno, mentre Petronio la critica trovandola troppo bassa; egli stesso ricorda, poi, che nei suoi anfratti si svolgevano riti in onore di Priapo, secondo molti studiosi perpetuati nella tradizionale festa della Madonna di Piedigrotta²⁵. Assai bassa e stretta nella realizzazione originale, fu ampliata e approfondita fino alle attuali dimensioni (7 m di larghez-za x 10 m di altezza) nel xvi secolo dal viceré don Pedro de Toledo. All’imbocco orientale si conservano i ruderi di un colombario²⁶ romano, la cosiddetta Tomba di Virgilio, la cui quota elevata indica anche quella dell’originale piano di calpestio della crypta²⁷.

    All’epoca greca e romana risalgono pure i cunicoli degli acquedotti, come quelli del Serino e del cosiddetto Claudio, e i canali sotterranei della rete fognaria, come quelli della Pignasecca.

    Probabilmente dai cavamonti furono attaccate inizialmente le colline poste a settentrione della città, in particolare quelle di Capodimonte²⁸, raggiungibili, uscendo dalla città a nord per la Porta San Gennaro²⁹, attraverso i valloni dei Vergini e della Sanità: qui si ricavarono le pietre utilizzate nell’edificazione delle prime mura di Neapolis e sempre qui furono scavati i più grandi ipogei delle diverse fratrie cittadine e, dal ii secolo d.C. almeno, si svilupparono le catacombe cristiane, frequentate almeno fino al ix secolo.

    Del resto tutta questa zona suburbana fu definita fin dai tempi della città greco-romana la «valle dei morti». Così, già in un’area limitata fuori Porta San Gennaro e nella via Cristallini, via Santa Maria Antesaecula e vico Traetta, sono una serie molto numerosa di ipogei greci e romani, interessanti sia per la loro architettura sotterranea, sia per le decorazioni pittoriche o a rilievo che di frequente ricoprono le pareti interne delle camere, sia anche per le varie testimonianze epigrafiche. Noti, almeno alcuni di essi fin dal 1685, si trovano a oltre 10 m sotto il livello dell’attuale pavimento stradale, comunque sopraelevato rispetto a quello antico; sono ricavati nel tufo e hanno una volta a botte con un dromos (= corridoio) di accesso a gradoni.

    L. Bianchi, veduta di Capodimonte dal ponte della Sanità (1824).

    Questi ipogei fanno parte di una vasta necropoli aristocratica; si tratta quasi sempre di piccole stanze a pianta quadrata nelle quali fu­rono deposti più corpi: i morti erano collocati in sarcofagi modellati in forma di letti, scavati lungo le pareti. Malgrado alcune discussioni ancora aperte tra gli archeologi, sembra accertato che le loro caratteristiche strutturali e l’insieme dei loro programmi decorativi possono farli collocare in un arco cronologico che va dalla fine del iv secolo a.C. alla metà del iii secolo a.C.; al contrario, soprattutto i rilievi di marmo, vengono ricondotti a un’età oscillante tra il i secolo a.C. e il i d.C.: essi mostrano una costante rappresentazione iconografica, la cosiddetta dexiosis, che secondo l’ideologia funeraria greca, qui evidentemente ripresa, mostra il motivo della stretta di mano, dexiosis, con la quale si dava l’ultimo saluto all’estinto³⁰.

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