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L’uomo dagli occhi viola: Vicende e amori di un giovane gentiluomo vissuto nel Settecent
L’uomo dagli occhi viola: Vicende e amori di un giovane gentiluomo vissuto nel Settecent
L’uomo dagli occhi viola: Vicende e amori di un giovane gentiluomo vissuto nel Settecent
E-book429 pagine6 ore

L’uomo dagli occhi viola: Vicende e amori di un giovane gentiluomo vissuto nel Settecent

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Info su questo ebook

L’uomo dagli occhi viola racconta la vita di un giovane gattopardo siciliano, molto facoltoso, che aveva relazioni con la nobiltà di mezza Europa. Sono riportate alcune lettere (e incontri) con la regina Maria Carolina. Non mancano colpi di scena; atti rivoluzionari;  appassionate storie d’amore intriganti e coinvolgenti. 
Romanzo che piace sia ai giovani sia alle persone mature. 
L’uomo dagli occhi viola colma un vuoto lasciato dal capolavoro Il Gattopardo nel quale è stata raccontata la vita del principe di Salina già anziano, avviato alla morte, senza dire nulla della sua giovinezza leonina: “fummo i gattopardi, i leoni” ecc. L’uomo dagli occhi viola è un gattopardo giovane e pieno di vita. Episodi straordinari, ironici e divertenti, talvolta anche tragici, avvolgono il lettore in una magica atmosfera. L’autorevole critico, prof. M. Machiedo, italianista, ordinario di letteratura all’Università di Zagabria, coltissimo scrittore e saggista, traduttore di Montale, Calvino, ecc., ha giudicato L’uomo dagli occhi viola “un caso letterario notevole di poliromanzo”. Originale novità che cattura il lettore dalla prima all’ultima pagina, in un continuo crescendo di piacere.
 
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2018
ISBN9788856787863
L’uomo dagli occhi viola: Vicende e amori di un giovane gentiluomo vissuto nel Settecent

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    Anteprima del libro

    L’uomo dagli occhi viola - Francesco Valenti

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8786-3

    I edizione elettronica febbraio 2018

    Capitolo I

    Ho scoperto l’esistenza di questo incredibile personaggio, l’uomo dagli occhi viola (grande viaggiatore inquieto), mediante due input lontani uno dall’altro.

    La prima pulce nell’orecchio entrò molti anni fa guardando per caso un’intervista della RAI fatta dal giornalista Vanni Ronsisvalle al poeta Lucio Piccolo, il quale durante l’intervista lesse una lettera di Maria Carolina, regina di Napoli, indirizzata al nostro personaggio. Lettera che mi stupì assai.

    Il secondo input, che fu decisivo, successe diversi anni dopo, cioè quando sono state ritrovate e pubblicate da Mondadori alcune divertenti lettere, ritenute disperse, scritte dall’estero (Londra, Parigi, Berlino, Vicenza ecc. periodo 1925-30), da Tomasi di Lampedusa, trentenne, indirizzate ai cugini Lucio e Casimiro. In alcune si parla di un raro servizio tête-à-tête di porcellana decorata, di eccezionale valore artistico, realizzato nel Settecento dalle Manifatture Reali di Sèvres, in Francia. Valeva, e vale, quanto un intero palazzo. Leggendo mi resi conto che si trattava del medesimo servizio che alcuni anni prima avevo visto con i miei occhi dentro una vetrinetta a casa di un conoscente (che adesso è morto) e ne ero rimasto incantato per la finezza e delicatezza. Dall’epistolario risulta chiaramente che fece gola ai più leggendari musei di Londra, a cui il giovane principe di Lampedusa aveva mostrato diverse foto inviate dai cugini Lucio e Casimiro.

    Mi chiedevo come e quando un servizio degno delle più raffinate corti reali era potuto giungere a Neso, cittadina della Sicilia. Il possessore settecentesco doveva essere assai facoltoso e raffinato. Ma chi era costui? Durante le non facili ricerche durate anni saltarono fuori, inaspettatamente, quattro lettere della Regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena, dalle quali risultava che il possessore del raro tête-à-tête di Sèvres era il giovane gentiluomo Gaetano Francesco Piccioli, al quale la regina lo aveva donato. Il collegamento mentale con i due input lontani nel tempo fu rapido.

    Mi chiedevo: perché la bella regina di Napoli teneva corrispondenza con questo misterioso personaggio siciliano? Perché gli faceva doni così preziosi? Era forse uno dei tanti amanti che ebbe?

    Riporto le lettere della Regina, piuttosto equivoche (la prima è quella che fu letta nell’intervista RAI di Ronsisvalle):

    «Barone Gaetano – Reggia Caserta 29 Giugno – Ricevo le vostre raccomandazioni; io ne parlerò al Re, e procurerò che egli, l’uomo-dei, sia accontentato nella grazia che impetra. Intanto sensibile per la parte che ne avete preso, per cui ve ne ringrazio, sono con stima vostra buona padrona, Carolina Regina».

    «Barone Gaetano – Reggia Portici 8 Settembre – Aspettava con desiderio e suspicione vostra lettera, finalmente giunta oggidì colma di notizie su quistioni che mi premono. Ma non voglio parlare d’essi. (...) Poco fa passeggiando lungo i vialetti in fiori di questo meraviglioso giardino di Portici che amo molto, mi sono fermata dinnanzi alla fontana delle quattro sirene che tanto vi piacque. Sono affiorati alla mente i discorsi che ci rivelammo quel giorno che mandai via le ancelle e mi assettai sul bordo della vasca come ho fatto oggi e, rimembrando, mi è sembrato di sentire la vostra bella voce che mi chiamava divina Regina mentre guardavate ora me ora le sirene coi vostri intensi occhi color delle viole che brillavano ai riverberi dei raggi del sole sull’acqua.

    Voi avete il dono della misteriosa attraenza: un misto di forza, ardimento, gentilezza che moltissimo vi rendono conversatore delizioso. Penso spesso a voi. Peccato siete lontano da costì!

    Sua maestà il Re è rimasto colpito quando avete vinto le tre gare al fioretto, battendo i migliori cavalieri napoletani e sbalordendo tutti per la destrezza e rapidità del vostro duellare. Gli scatti fulminei, ma anche impeccabili ed eleganti, sembravano quelli del più puro e nobile dei felini del mondo. Sono stata contenta per voi e perché avevo scommesso, pour m’amuser, con la principessa Caracciolo in vostro favore e ho vinto un antico e meraviglioso monetiere in corallo trapanese che ho deciso di donarvi come premio di vittoria. E, per ricordarvi ancor più di me, vi invierò altro dono: il servizio di Sèvres che tanto vi piacque quel giorno che bevemmo il caffè, tête-à-tête, alla reggia di Caserta. Peccato davvero della troppa lontananza! Il vostro ardore, la sottile ironia, mi divertono tanto tanto... Gli altri cavalieri di corte sono un po’ noiosi. Tutti chiedono di voi e del vostro casato.

    Arrivederci a presto – la Vs. buona M. C. Regina»

    «Barone Gaetano – Reggia Portici 11 Settembre – Attendo vostre nuove, intanto voglio farvi dotto che ier sera ho fatto cenno a S. A. il Re che voi, per rango di antenati, doti di viaggiatore esperto e divotissima fedeltà alla nostra corona Borbone, mi apparite persona adatta di ambasciatore all’estero in un futuro. La Contessa San Marco è dell’eguale parere; ha riferito d’aver saputo da vostro zio cav. Illuminato che oltre inglese, francese, tedesco, spagniuolo, conoscete anche latino, greco e arabo, sette lingue straniere e forse altre. Data la giovine età di 28 anni mi sono sbalordita e non posso che gioire d’avere un ammiratore così intelligente e devoto, così charmant. La contessa ci ha pure ragguagliati su quanto è gewaltherrscher il conte Don Diego de Sandoval, feudatario della vostra amata Neso alla quale siete legato per nascita e per i vostri affari colì.

    Fatemi dotta degli avvenimenti e se in futuro potremmo disporre disegni ambasciatoriali con gradimento vostro. Avete tutto il tempo che volete.

    Desidero di presto rivedervi alla Reggia di Caserta ove andrò tra pochi giorni, lì potremmo fare passeggiate a cavallo lontano da tutti. – Siete nel mio cuore, scrivete alla VS. buona Regina M. Carolina».

    «Barone Gaetano, Palazzo Reale, 12 Dicembre

    Scrivo per ringraziare delle due generose casse di olio che avete inviato. I fiaschi di vetro sono giunti integri. Vi ringrazio pure della bella lettera che conserverò sempre. La leggo ogni sera prima di addormentarmi, significa che vi penso ogni sera quando vado a letto. Abbiamo già usato due volte il vostro olio e, sinceramente, è il più buono e delicato che abbia mai gustato. Anche a sua altezza il Re, Dio guardi, è piaciuto tanto e pure a tutta la corte. Oggi ne ho spediti sei fiaschi a sua altezza imperatrice Maria Teresa d’Austria, mia adorata madre. Sono certa che anche a Vienna il vostro olio di minuta sarà giudicato rara delizia del palato. Vi farò sapere l’esito. Spero rivedervi presto.

    Saluti molto cari, Maria Carolina Regina»

    La bella regina delle Due Sicilie, Maria Carolina d’Asburgo Lorena. Dalle lettere si evince che era molto attratta da Gaetano, scrive desidera rivederlo presto. Probabilmente l’attrazione, nel tempo, sfociò in una segretissima relazione amorosa.

    Si può capire che la mia curiosità aumentò a dismisura anche perché, dopo le prime ricerche sul destinatario della benevolenza della regina, ritrovai, presso suoi discendenti, alcuni diari, dai quali si evince che si recava spesso a Napoli, dalla regina. Aprendo una pagina a caso lessi la frase scritta in francese, riguarda la prima volta che fu ospitato a Caserta. Di solito incontrava la regina a Portici. Ecco la notazione:

    «Trascorsi sei giorni a Caserta, ospitalità magnifica. La villa regia è nuova nuova ed è bellissima (1.200 stanze). Il bagno della regina meraviglioso. Vasca interamente rivestita da lamina d’oro, rubinetti in oro massiccio. Il parco è immenso: fontane, giochi d’acqua, statue... tutto maestoso, stupendo, perfetto. Paradiso incantato, pieno di arte e magica natura».

    Volli andare a visitare i luoghi citati nelle lettere. Alla reggia di Portici, che non avevo mai visto, fui colto da una indescrivibile emozione quando nel giardino ritrovai la fontana delle quattro sirene citata dalla regina, credevo non esistesse più.

    Posillipo – La reggia di Portici amata dalla regina, ove ospitava Gaetano Piccioli.

    Giardino della reggia di Portici. Confina a Ovest col mare e ad Est con un immenso parco alberato. Maria Carolina amava fare lunghe passeggiate insieme a Tano in questo giardino. Riprendiamo il passo della lettera in cui cita questa fontana e le sue emozioni: «Poco fa passeggiando lungo i vialetti in fiori di questo meraviglioso giardino di Portici, che amo molto, mi sono fermata dinnanzi alla fontana delle quattro sirene che tanto vi piacque. Sono affiorati alla mente i discorsi che ci rivelammo il giorno che mandai via le ancelle e mi assettai sul bordo della vasca, come ho fatto pure oggi, e, rimembrando, mi è sembrato di sentire la vostra bella voce che mi chiamava divina Regina mentre guardavate ora me ora le sirene coi vostri intensi occhi color delle viole che brillavano ai riverberi dei raggi del sole sull’acqua».

    Tornato in Sicilia più gasato di prima, ripresi il lavoro sui documenti ritrovati. In una pagina del diario lessi:

    «La vita umana è una perpetua illusione: non si fa che ingannarsi e lusingarsi reciprocamente. Nessuno parla di noi in nostra presenza come ne parla in nostra assenza. L’uomo è soltanto falsità, menzogna, ipocrisia, in se stesso e verso gli altri».

    Alcune pagine dopo invece c’era scritto:

    «Far sì che quello che è giusto sia forte e quello che è forte sia giusto».

    Una frase di derivazione pascaliana che mi fece pensare che il giovane gentiluomo siciliano in grazia della regina doveva essere molto colto, ma rimaneva sfuggente.

    Saltando alcune pagine lessi:

    «Io, per compiere azioni forti, nella vita ed anche nell’amore, devo essere preso da una potente, irrefrenabile passione per esse».

    Poi, in un biglietto volante tra le pagine del diario era scritto:

    «promesso a [nome illeggibile], sosta 2-3 giorni a Ferrara, prima di raggiungere Salzsburg. Adoro soggiornare nel loro castello circondato da limpide acque e délicieux poissons (squisiti pesci). Ferrara mi piace assai, è elegante, reca in sé le impronte dell’antico splendore estense. Farò visita all’arcivescovo che vorrebbe informazioni di quistioni sicule. Boh! Chissà perché??».

    Castello della famiglia d’Este, Ferrara, citato nel diario ove egli andò ospite.

    In un altro diario riporta un viaggio in Inghilterra, e fa la seguente riflessione, credo valida pure oggi, eccola:

    «Amo la poesia, ma i poeti, persino i sommi, talvolta scrivono fesserie. I filosofi ne scrivono meno, ma anch’essi le scrivono. Gli scienziati e i matematici no, non scrivono fesserie. Essi, per esempio, hanno scoperto che le stelle lontane sono fornaci potentissime con temperature spaventosamente elevate, da incenerire qualsiasi cosa si avvicini. Quindi, il sommo poeta Dante scrisse una corbelleria affermando che le stelle erano dolci paradisi delle anime. Invece, sono luoghi INFERNALI.

    Succede questo ai poeti perché l’artista ha lo spirito non rivolto alla scienza, all’analisi, all’indagine conoscitiva profonda ma essenzialmente alla spontaneità, all’ispirata emozionalità, alla sintesi, alla creatività ingenua, spesso superficiale. Percezioni superficiali troppo emotive. Quindi, ben più dello scienziato e del filosofo, egli è per sua natura uomo di fantasticherie, di sogni a occhi aperti, gioiosi o tristi che siano; cioè, uomo di soggettività anziché di oggettività razionale. Ciononostante io amo i poeti, gli artisti, perché fanno vibrare l’anima a chi si abbandona nel mondo illusorio della loro arte. Illusorio, illusorio...».

    Sinceramente sbalordito da queste originali osservazioni scritte due secoli prima, lessi ancora altre pagine e trovai una notazione diaristica sorprendente:

    «A Londra, a casa di lord Limpleton, mi hanno presentato il musicista tedesco Herschel, suo ospite. Egli è compositore ed anche grande astronomo. Abbiamo parlato di stelle e di pianeti. Possiede una specola di 4 pollici (cannocchiale). Ha fatto tante scoperte e gode notevole fama in Inghilterra. Mi ha regalato un catalogo chiamato catalogo Messier, nel quale vi sono elencati 110 oggetti celesti compreso comete e le loro orbite. Herschel ci ha detto che nel cosmo – incredibile! – ha scoperto l’esistenza di stelle binarie, cioè che ruotano in coppia una intorno all’altra velocissimamente e talvolta una divora l’altra. Gli ho chiesto cosa succederebbe se nel nostro cielo anziché una cometa, giungesse un altro sole e si mettesse a ruotare accoppiato a quello che abbiamo digià. Risposta: tutti gli esseri viventi: piante, animali e umani moriremmo. Scomparirebbe ogni vita. Che orrore!».

    Invece, confesso, che mi lasciò letteralmente di stucco la seguente notazione:

    «Avrei voluto vivere nel 1200, al tempo di Federico II Svevo. Nel carattere, nelle idee, nelle passioni e nelle concezioni della vita, mi sento così affine a lui che voglio chiamarlo "mon frère". Mio fratello Imperatore. Quando leggo il suo intelligente trattato sulla falconeria, De arte venandi cum avibus, mi sento rapito dall’acutezza e dallo stile. – Oui, est mon frère, sibbene morto 600 anni fa. Stupor mundi, lo merita proprio tale appellativo».

    È facile comprendere il mio entusiasmo leggendo codeste frasi scritte da un personaggio tutto da scoprire e che si preannunciava molto intrigante. Nacque perciò in me il vivo desiderio di indagare il più possibile sulla vita del misterioso, giovane gattopardo settecentesco Gaetano Piccioli.

    Tutto quello che ho scoperto in sette anni di ricerche (vicende, amori ecc.) lo racconterò in questo libro. Per esempio, le sue eccezionali doti atletiche e di spadaccino, descritte nelle lettere della regina, scoprii che derivavano da due fattori, uno forse genetico, di sangue: tra i suoi antenati materni v’erano i Ventimiglia, famiglia discendente direttamente dagli Altavilla, valorosissimi Normanni. Il secondo fattore era che quando Gaetano aveva 7-8 anni, aveva assistito, in modo entusiasta, alle esibizioni in un circo equestre di un eccezionale acrobata cinese, Yong Thien. Il padre don Francesco, che stravedeva per lui, ingaggiò l’acrobata come maestro ginnico del figlio, pagando profumatamente il proprietario del circo per averlo rilevato. Fornì vitto, alloggio e paga settimanale a Yong, che aveva 29 anni ed era figlio di padre cinese e madre russa. Parlava il cinese e il russo meglio dell’italiano. Yong rimase 8 anni a Palazzo Piccioli durante i quali, oltre a farne dell’allievo un atleta acrobatico di eccezionale potenza e rapidità (anche nelle arti marziali), insegnò a lui il cinese e il russo. Altre lingue Gaetano le imparò dai precettori e dalle nurse straniere.

    Yong, con un bel gruzzoletto messo da parte, andò via quando Gaetano aveva circa 16 anni. Sposò una circense e ritornò a fare vita da circo.

    Descrizione dei luoghi e di alcuni personaggi, prima di raccontare tutte le vicende

    Gli avvenimenti accaddero alla fine del Settecento e riguardano prevalentemente Gaetano Francesco Piccioli, chiamato Tanitto da piccino e Tano da giovanotto, ed il conte don Diego de Sandoval, feudatario di Neso, nonché altre persone.

    La Sicilia allora apparteneva al Re Borbone Ferdinando IV che, come si sa, venne soprannominato Re lazzarone anche se bonaccione, anzi, i siciliani lo chiamavano u Re vastasu (il Re volgare).

    Tempi erano quelli in cui poco bastava perché fiorisse la favola, il mito di un personaggio le cui gesta se ne prestassero, come avvenne nel caso del giovane gentiluomo Tano Piccioli che, paradossalmente, diverrà primo barone di Serranovella, quale riconoscimento di merito per aver lottato contro i soprusi dei baroni siciliani.

    Alla fine del Settecento la Sicilia era ancora stretta nel più fitto secolare sonno del feudalesimo, come, del resto, quasi tutta l’Europa. Gli scossoni della Rivoluzione Francese, anche se alle porte, erano da venire: mancavano vent’anni.

    Non per nulla nei Promessi Sposi, che abbiamo letto a scuola, è scritto: «i tempi erano tristi assai, ché l’Italia quasi tutta giaceva schiava sotto il dominio degli Spagnoli, i quali, secondo un detto famoso, in Lombardia rosicchiavano, a Napoli mangiavano e in Sicilia divoravano».

    Il coraggioso Tano Piccioli liberò il territorio di Neso dall’oppressione feudale, cioè dal conte spagnolo Sandoval. Racconteremo gesta, amori, patemi, ricostruiti quasi fedelmente.

    Ecco lo scenario dei luoghi, ove spirava e spira ancora oggi, sebbene affievolito, un vento poetico di soave.

    Il toponimo apparentemente ridicolo, Neso, pare tragga nobili origini greche. Ma già prima dell’arrivo dei Greci pare fosse una città sacra a Dioniso-Bacco, il dio inventore e protettore della poesia, del teatro, della danza, del vino, del sesso; peraltro tutte peculiarità presenti nell’animo dei nesensi. Essa, per un periodo dell’antichità, fu chiamata anche Nesodio, e, secondo me, il riferimento era ancora Dioniso.

    Dista dieci chilometri dal mare ed è situata su un’altura che domina vasta zona verso i monti e anche giù, verso il mare a perdita d’occhio. Chi vuole esattezza, sappia che si trova a 500 metri dal livello del mare.

    Nel Sei-Settecento, e anche prima, la cittadina era molto aristocratica; gravitavano nomi altisonanti: i conti Ventimiglia, i marchesi Perlongo, i principi Lancia (o Lanza), i conti Joppolo, i duchi Pons de Leon, i baroni Piccioli, i principi Alagona (o Aragona), i marchesi Alliata, i baroni Sollima, i conti Cibo, i marchesi Cardona, i baroni Agliè, i conti Vidal, i conti Requirens, i duchi Cabrera; i marchesi Martinez, gli Starraba, i Paternò, gli Artale, i Moncada, i Cuffari e, ahimè, anche il conte Sandoval! Insomma: un pullulare di nobili che si avvicendavano nei secoli. Essi avevano portato nella città specialissime esperienze di cultura, di mode, di arte, potere, ricette culinarie e usanze raffinate acquisite per l’Italia e per mezza Europa, elementi che ne avevano fatto qualcosa d’eccezionale, una cittadina dalle peculiarità uniche.

    Si pensi che nel Seicento, in questa piccola città siciliana, visse un commediografo di nome Belando, le cui opere si rappresentavano a Parigi, coevamente a quelle di Shakespeare. E si diceva che alcuni parigini preferivano andare a vedere le commedie di Belando anziché di Shakespeare. Una divertente commedia di Belando era scritta in quattro lingue intrecciate insieme, italiano, siciliano, spagnolo, francese. Una vera novità a quel tempo.

    Ciò aveva infuso orgogliosa superbia nei suoi abitanti anche umili, i quali, presi tutti quanti da mania di nobiltà e sapienza, guardavano gli altri paesini dei Nebrodi dall’alto in basso, cosa che non li rendeva certo simpatici.

    Vi erano a Neso i così detti galantuomini (magistrati, giuristi, medici, poeti, filosofi) chiamati dal popolo i cappeddi (i cappelli) che gravitavano intorno ai gattopardi; vivevano dei loro favori, taluni brillavano anche di luce propria. S’arricchivano pure, perché succedeva talvolta che gli amministratori dei feudi sostituivano i padroni (oberati dai debiti per la vita troppo dispendiosa), acquisendo grosse fette di feudi o incuneandosi nelle loro caste attraverso matrimoni mirati.

    Nell’aspetto urbano Neso si presentava simile a quelle cittadine medievali della Toscana medicea, sedute su pianori maestosi in cima alle colline, circondate da bastioni scoscesi e dirupi emergenti dalle selve e da rigogliose campagne, vigneti, fontane.

    Dominava lo scenario un poderoso castello federiciano con tanto di mastio e torre d’avvistamento cannoniera, la quale aveva base di oltre dieci metri, altezza più di quaranta.

    Le mura della città erano imponenti, inespugnabili: si accedeva attraverso cinque porte: la più importante Porta Castello; poi la Porta Marchesana ad Ovest; la Porta Piazza; la Porta Varrica e la Porta Nuova chiamata pure porta del convento, che guardava in direzione della confraternita francescana dei Minori Osservanti ed oltre, verso il mare in lontananza di là dai colli e declivi.

    (Anche se non è di moda dialogare a tu per tu con il lettore, chiedo scusa e invoco la sua pazienza se in questo primo capitolo, e solo in questo, ho voluto talvolta insistere sugli aspetti altamente poetici dei luoghi ove si sono svolti i fatti e hanno vissuto i personaggi in carne ed ossa. Superata la lettura di questo primo indispensabile capitolo, tutto sarà più scorrevole e diretto.)

    Chiese e conventi ve n’erano in abbondanza; non passava ora senza udire nostalgici echi di campane spandersi in rintocchi per le valli, per le campagne: annunciavano orazioni, novene, vie crucis, messe, battesimi, matrimoni, feste, funerali, insieme ai don... don... don... dell’orologio della matrice che, scandendo il passare de la giornata all’opre intenta, tenevano affettuosa compagnia a tutti i nesensi.

    Quando il tempo è limpido, guardando dal beddu vidiri (belvedere) verso il mare sconfinato, si vedevano, e si vedono anche oggi, precise precise, le sette isole di Eolo (Vulcano, Lipari, Salina, Panarea, Stromboli, Filicudi, Alicudi) che dall’alto sembrano galleggiare sull’acqua. Esse aprono al cuore emozioni di miti: Ulisse, la maga Circe, le Sirene, Enea fuggiasco che passò proprio qui davanti navigando verso il Lazio, dopo aver abbandonato Didone; e l’immaginazione pensa alla guerra di Troia nella quale pare vi presero parte anche liparoti, tremila anni fa. Di siciliani ve ne furono tanti a combattere lì, insieme a Ulisse, sotto le mura d’Ilio, nel grandioso incendio e quasi mai se ne parla.

    Guardando invece alle spalle verso i monti, si scorge in lontananza la cima nevosa fumante dell’Etna e viene alla mente l’austero Empedocle che vi morì inghiottito dalla lava fluente, il pensiero galoppa... e altri incantesimi prendono l’anima dello spettatore che immagina i Lestrigoni, i Ciclopi: Polifemo, Sterope, Bronte, Arge...

    A destra, a manca, l’aere dona panorami, spettacoli di vallate e di marine. Si scorgono paesini da presepe incastonati sui colli; declivi di verde su verde discendere dolci fin giù, tra coltri di sfatto fogliame, e baciano flessi di costa in fantasiosi andirivieni di promontori, scogliere, grotte, spiaggette, calette tra cocuzzoli di raro granito bianco-nero screziato che di balza in balza saltellando qua e là precipitano a tuffo dentro il mare che li accarezza con l’onda di mille colori, pei scogli fitti di alghe e lippi muschiosi, odorosi d’incantesimi anch’essi.

    Nei giorni di calmeria primaverile, può capitare di vedere un polipo prendere il sole beato sullo scoglio mentre guarda sornione la bavosa che guizza da fossette in fossette a fior d’acqua, in ghiribizzi durante il flusso riflusso dell’onda, che empie, che svuota, che frange in dolci carezze di spuma marina.

    Tra le rocche della montagna vicina a dirupo, spacchi e fenditure aprivano varchi tra penduli rovi gromme, tra spericolati cespugli di capperi arruffati dai vortici del vento, che, in alto, nei regni di uccelli rapaci, spira furioso, da sempre.

    Ma lui, il mare, è anche sfondo di quadri a temi marinari: gozzi a colori festosi, velieri lontani accendono altre fantasie e scopri che il silenzio d’incanto sa donare poesie senza recita alcuna, e il cuore s’immilla a guardare.

    In quel momento d’estasi vorresti tutta per te una Sirena come Lighea, la figlia di Calliope, adagiata su la rena all’ombra densa dello scoglio che porta il suo nome, perché sai che solo con lei potresti realizzare il sogno segreto d’ognuno, il sogno d’amore senza fine, e solo con lei potresti discendere giù, financo agli abissi, nei luoghi dei coralli perenni. E solo lì, nel mare profondo vietato agli umani, ove è riposta un’immensa anima di donna, potrai chiarire il perché tutto viene dal mare e al mare ritorna per sempre.

    Un grido di quaetra, che è il gabbiano, talvolta spezza l’incantesimo del sogno della sirena maliosa, e ti distoglie, e pensi ai timori degli avi, all’antico terrore dei ratti, quando, vedendo un veliero scuro laggiù verso l’orizzonte, temevano recasse la nera bandiera barbaresca degli assalitori: i feroci corsari venuti a rubare, a violentare le donne e fare schiavi mariti e fratelli. Si chiedevano tutti: riuscirà l’arma paesana – archibugio, forcale, la fionda, l’antica bombarda del vetusto castello, l’olio e la fezza bollenti – a rimettere in fuga il pirata saracinu dall’occhio bendato di nero? Riuscirà?

    Amaro è il passato dei luoghi, molto amaro: sono intrisi di sangue, di tanto sangue fattosi pietra, ma essi rimangono eguali, sempre incantevoli nell’ondeggiar dei millenni sotto l’azzurro dei cieli: e sono più d’uno, infatti, a Neso e a Capo Tirso, i cieli a disvelare potenti emozioni in te e per te.

    Per esempio, verso occidente, lontane lontane, vedi la rocca di Cefalù, Monte Pellegrino, e ti vien da pensare che precisi così dovevano vederli i nostri nannavi (antenati) siculi e sicani, e gli stranieri venuti dal mare: i Cretesi, i Micenei, i Fenici, i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Svevi e i Catalani di secoli fa.

    Per il popolo d’allora, sempre sottomesso a la frusta, essi non erano galantuomini, ma erano: forasteri sucasangu, latri di fimmini e facci di cani.

    Capita pure, una due volte l’anno, che a perdita d’occhio appaia una piccola meraviglia in mezzo al mare: l’isola di Ustica, sfumata, evanescente, e scompare.

    Nelle vallate vicine, vedi uccelletti cantare gioiosi in salti e voli, e piccoli stormi in sagome tremule nel cielo che migrano chissà dove.. chissà dove! E ti perdi; ti perdi ancora in soavi immaginazioni della tua fantasia e fantasticheria.

    La tortora, l’allodola, la giaia ti volano vicine scandendo le loro note improvvise e il merlo di macchia fa vanto di bravura in estri di melodie fischiate.

    Se guardi in su nell’aria, talvolta scorgi u scubbéri, lo sparviero, volteggiare vibrando l’ali in cerchi minacciosi d’agguato e poi fermarsi sospeso nel cielo puntando la preda giù nell’aia – pulcino, gallina, sorcio, chissà! – e odi la massaia chiamare spaventata le sue gallinelle: «Puddi puddi puddi... malanova stu scubbéri! Puddi puddi puddi...» e poi gridare fortissimo con la faccia rivolta al cielo per farlo scappare: «U ccaani, u ccaani, caani-caani-caani- cani...».

    Prati, ruscelletti, solchi che verdeggiano d’una speranza d’acqua e fanno in giro orizzonte le montagne. Fatica è da noi l’acqua, tanta fatica.

    Il mare, però, suona tutti gli strumenti alle marine: musiche dolci e serene. Quando è agitato, ora danza ora sbatte violento e sonaglia contro le scogliere, e vedi spore di sole che frangono le spume in volo, effetti bellissimi invadono quadranti marini, il vento li innalza, ti innalza, allaccia nuvolette veloci dai colori mozzafiato nell’arcobaleno, esattezza di cerchio smagliante nel cielo, ma fatto di niente, solo gioco di luci e vapori che riempiono l’anima e svaniscono senza un perché, lasciando il vuoto dentro di te.

    Doni di visioni, spettacoli d’aurore e tramonti in sfarzo di nubi infuocate; notti placide, serene, quando le stelle si specchiano sul mare che dorme e una nota lontana di fuoco nel buio appare dispare si quieta per poi sbuffare di nuovo: Stromboli.

    Questi scenari unici al mondo, vivono i loro battiti accorati, e anche gli odori di campagna: rosmarino, alloro, nepitella, citrunilla, reinu legavano l’anima e il cuore per sempre a tutti gli abitanti della contea di Neso, ricchi e poveri, e li legano ancora oggi a coloro che ci vivono, e a chi, poverino!, se n’allontana per il pezzo di pane o per un sogno di gloria vanente, sempre inappagata.

    Al borgo marinaro di Capo Tirso, frazione della più importante Neso, nel Settecento si giungeva scendendo lene lene, per viottoli boschivi, sughereti, ulivi dai tronchi vetusti, aranci, limoni, mandarini, girasere, gesianchi, nespolere, murigghio e ficare, tante ficare, e surbere e racina a grappoli d’oro: la nsolia, u zubbibbu schiticchiusu pendente dai vigneti multiformi, multicolori in festoni.

    Capo Tirso, come caseggiato, a quel tempo somigliava più o meno a Pescarenico, con la differenza che era scalo marittimo anziché lacustre, quindi, ogni emozione diventava più forte. Vi abitavano 600-700 persone, per lo più pescatori di sciabica e rizzelle, e tonnaroti, quasi tutti poverelli e cenciosi; versavano, persino nell’Ottocento inoltrato, in un tale stato d’ignoranza e selvaticume che due parroci, i fratelli Merendino, avviliti, avevano scritto al vescovo di Patti le testuali parole:

    «qui vivono tutti a legge di natura, non conoscono cos’è religione, né cosa è giorno di festa. Non paventano della bestemmia, né sanno cos’è legge di Dio; sono allo stato brado, non hanno inteso mai predichi, non sono stati mai istruiti nelle dottrine e nominano Dio per offenderlo senza neanche conoscerlo».

    Oggi Capo Tirso fa 13.000 abitanti circa e, diversamente d’allora, se la passano bene. Per la maggior parte – non per tutti e meno male! – vige il moderno principio: chi ha soldi è signore e chi ha più soldi è più signore. Più se ne hanno, più si è degni di riverenza.

    I cosiddetti valori sono emigrati in terre lontane, talvolta lontanissime, al di là dei ricordi, e mai più ritornati.

    Chi vuole immaginare la società dell’aristocratica Neso del Settecento deve pensare che vi erano i soliti abissi sociali, i soliti rancori tra le categorie dei nobili, dei galantuomini, maestranze, popolino e plebaglia, tanta plebaglia gravitava a quei tempi nel vasto territorio di Neso.

    Il patrono protettore era ed è San Cono, la cui venerazione e devozione da parte dei nesensi non aveva e non ha eguali. Taluni lo ponevano, e lo pongono pure ora, al di sopra dello stesso Padreterno.

    I pescatori di Capo Tirso invece erano devotissimi alla Madonnuzza una madonna somigliante a quella di Trapani. Tante volte li aveva salvati dai marosi di Poseidone, arrabbiato per qualche offesa ignorata.

    Governava la contea il feudatario Conte Don Diego De Sandoval, che tutti chiamavano Conte Sandoval, come faremo noi. Il popolino in dialetto lo chiamava Sanduvaddi. Uomo sanguigno e autoritario.

    Tanto per capirci, onde evitare lunghe descrizioni a spiegare di qual pasta fosse questo conte d’origine catalana, diciamo che era un tipo assai simile al famigerato Don Rodrigo (ve n’erano tanti allora), con l’aggravante che, mentre Don Rodrigo era un giovane rampollo viziato, prepotente, privo di scrupoli ma privo anche del potere istituzionale (che l’aveva il conte Zio) Sandoval, il potere l’aveva lui, il potere assoluto: quello del Mero e misto imperio feudale, e l’usava e n’abusava volentieri per suo tornaconto.

    Egli aveva corporatura robusta, media altezza, collo taurino, pelle grassa, capelli castano scuro tirati indietro; portava spesso la parrucca come usava la moda del tempo.

    Sul viso aveva dipinta un’espressione accigliata e prepotente. Era subentrato nel feudo di Neso dopo un lungo periodo di dominio della potente nobile famiglia Joppolo-Ventimiglia della quale aveva sposato una figlia, Giuseppina Joppolo, donna buona e remissiva, succube del marito.

    La boria di Sandoval era grande perché apparteneva a una delle più importanti famiglie di Spagna, d’ascendenza reale, con privilegio di battere moneta ed avere bandiera propria.

    I Sandoval spagnoli s’erano radicati a Palermo nel 1600 ed erano stati proprietari dell’antico castello della Zisa, ancora esistente, con il loro stemma rimasto affisso, raffigurante animali feroci: due leoni e due pantere nere.

    Il nostro don Diego, ultimo feudatario della zona, ebbe investitura completa quale conte di Neso, Duca di Sinaria, signore di Capo Tirso e Tavola Grande, quest’ultima dipendeva dalla torre di guardia Bastione di Piscittina che ancora esiste.

    Sandoval usciva dal suo palazzo accompagnato da decine di servitori, paggi, lacchè, censori, staffieri. Si muoveva con la pompa di un piccolo sovrano. Del resto, godeva di prerogative e privilegi per sangue e per diritto sino ad essere padrone della vita altrui, fino all’arbitrio, dato che, come già detto, esercitava il mero e misto imperio feudale, ossia anche la giurisdizione civile e penale

    I Piccioli erano radicati tra Neso e Ficara sin dal 1400. Essi, dopo tre secoli di sagace amministrazione prefettizia, di penetrazione secolare con preti arcipreti vescovi e badesse nel potere ecclesiastico che deteneva le massime ricchezze dell’isola, si presentavano alla società feudale di fine Settecento come la famiglia gentilizia più facoltosa del territorio della contea (e non solo), imparentata, mediante matrimoni succedutesi in un continuo straordinario crescendo economico-terriero, con molti nobili dai nomi prestigiosi: Lancia, Ventimiglia, Natoli, Pons de Leon, Joppolo, Perlongo, Martinez, Petrelli. Sua madre donna Margherita era figlia del barone Vincenzo Petrelli e della marchesa Giulia Lanza Ventimiglia.

    In vero, però, il prestigio dei Piccioli, oltre che su

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