Studi su Matilde di Canossa
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A cura di Daniele Lucchini.
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Anteprima del libro
Studi su Matilde di Canossa - Ferdinando Mozzi De Capitani
Colophon
Finisterrae 32
Titolo originale dell'opera: Sulla contessa Matilde, i suoi contemporanei e l'usanze nostre d'allora
Prima edizione: Venezia, 1845
Prima volta in Finisterrae: 2012
In copertina: Museo Francesco Gonzaga, Mantova
Smalto di Limoges, Fetonte, XVI secolo (particolare)
© 2012 Daniele Lucchini, Mantova
www.librifinisterrae.com
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9781326741181
Epigrafe
Se dovessi citare ad una ad una le opere compiute da questa nobile signora, i miei versi aumenterebbero a tal punto da divenire innumerevoli come le stelle.
Donizone, Vita Mathildis
Prefazione
Nel 1845 Ferdinando Mozzi de Capitani, funzionario imperial regio a Venezia, già avvicinatosi alle lettere come traduttore di una tragedia del drammaturgo viennese Franz Grillparzer (1791-1872), dà alle stampe il breve saggio su Matilde di Canossa e sull'Italia del tempo qui riprodotto quasi anastaticamente.
Pur non brillando per felicità espressiva né per livello di approfondimento, il testo ha il merito di accostare e sintetizzare informazioni provenienti da numerose fonti storiografiche e letterarie spesso di prima mano. Cosa che permette all'autore anche osservazioni originali sul carattere della Grancontessa.
Meritevole è pure la scelta di riordinare la materia solo cronologicamente, il che ricollega la presente opera alla nobile tradizione degli annali.
Daniele Lucchini
ottobre 2012
A' lettori
L’intento dell’autore nel dettare questo libricciuolo assai viene palesato dal suo titolo: volle far conoscere ai suoi connazionali, forse per l’indole troppo piena de’ nostri giorni, poco sofferenti di lungo studio su vecchi libri, l’Elisabetta de’ secoli di mezzo e con essa i suoi contemporanei, le arti, gli spettacoli, il lusso, le idee, le armi di quell’epoca, a ciò confortato dal conoscere come la fama di Matilde è ancor verde in Italia dopo settecento e più anni che la celebre Contessa si moriva, a tutti palese la fatta donazione dei suoi beni alla Chiesa. Dalle note a’ pie’ di pagina, ognuno potrà riscontrare le fonti; ma qui si ricorda che il chiarissimo Muratori cogli Annali e le Antichità Italiane offerse notizie e colori a descriver le usanze nostre in quel secolo ormai remoto, e che Fiorentini, Botta, Sismondi e Guizot, sovvennero lo scrittore di lumi preziosi per valutare come meglio sapeva, gli uomini e gli affari dell’Italia e dell’Europa, all’epoca della gran Contessa.
Il singolar poema latino di Donizone, cappellano e monaco di Canossa, intorno alla vita di Matilde, in varii luoghi citato e tradotto, onde, non so con quanta riuscita, riprodur que’ giorni colle frasi d’un coetaneo che la sovrana personalmente conobbe, si legge stampato nel volume V Rerum Italicarum del Muratori suddetto.
Libro primo
[1000] L’italico reame divideasi circa al mille in marche ed in contee, ciascuna avea principe eletto dall’imperio, qualche volta ereditario. Ogni città, come in vecchio, teneva il conte suo, che insieme a’ giudici o scabini conoscea de’ negozj men gravi; magistrati minori reggevan le castella. Se i conti a’ proprj marchesi, questi poco all’imperatore ubbidivano, l’assoluta signoria in ciò solo limitata, che i missi od imperiali commissarj¹ ricevevano giusta l’uso introdotto, che questi di tempo in tempo qui venissero ad assicurarsi che buona giustizia fosse resa, pur ascoltando le discolpe de’ preposti: teneano il placito o mallo cui vescovi, marchesi, conti ed altri reggitori si mostrava no. Nelle città medesime ove prima i duchi longobardi, i marchesi facean stanza, il titolo di conte, ed il ducale conservando, se al paese amministrato in antico avesse appartenuto.
Le marche o ducee di Toscana e di Spoleti, e la Ligustica, che talvolta regno si chiamava, eran prime nell’Italia, quando Bonifazio figlio di Tedaldo² principe lucchese, oriondo di Sardegna, dominava Parma, Modena, Reggio, Lucca, Mantova e Ferrara in aggiunta all’avito contado di Canossa.
Altro Tedaldo a lui fratello ristorò la musica sulle prove del celeste studio fatte per Guido Aretino nella solitaria sua Pomposa.³ Se la stirpe di Canossa dovea la grandezza ai Cesari tedeschi, Bonifazio meritò favor novello, e premio al buon servire, ebbe dal Salico Corrado la nipote Beatrice di Lorena, che parente al re di Francia, portò in dote assai castella di quel regno.⁴ Nel cammino degli sposi verso Italia, ai cavalli si ferraron l’unghie coll’argento, nè volle il ricco Bonifazio fosse quello ribadito, perchè ogni villa e luogo ricordasse il suo passaggio.
A Marago presso il Mincio apri corte bandita per tre mesi: in luogo delle biade, le spezierie colmavano i molini, pozzi e cisterne, piene di aleatico, a qual volesse si schiudeano, nè mancavano secchioni con lunghissime catene d’ argento per attingere. Colà cibi delicati, suon di cetre e lire a’ timpani commiste, fean letizia e gaudio, nè gran presenti in sul partir de’ forestieri difettavano.
Corrado in allora col giovane papa Benedetto IX fu a Bonifazio nel Lucchese, dopo la stretta lega, ed il vassallo seguiva suo figlio contro i ribelli di Borgogna. [1046] Si ritrasse il duca quindi ai dominj proprj, ove nell’estate millequarantasei nacque la contessa Matilde⁵ di Bonifazio e Beatrice, dopo Federigo e Beatrice maggiori suoi fratelli.
Pochi mesi dopo, il padre in corte di Piacenza, fece il dono dell’aceto di Canossa: d‘esso liquore grato a Cesare, empiva il duca argentee botti su carro pur d’argento, cui due buoi del metallo istesso, accompagnati a’ vivi, mostravano tirare: l’opera egregia fabbricavasi nel castello ricordato.
Quindi "un visconte Alberto, uomo dovizioso abitante in Mantova, e servidor di Bonifazio, addusse al monarca cento cavalli baj con le loro forti briglie, selle e freni, cento girifalci di piuma variegata, cento di mantello schietto. La regina al veder tutto ciò sclamava: Qual uom sarà costui che ne fa simili presenti? e il re tosto soggìungeale maravigliando: qual mortale avrà servi come Bonifazio? Io dal veduto conchiudo, che in tutto il regno altri non v’abbia si potente. Orsù questo picciol servo di lui dica qual cosa da me brama? Ciò solo bramo e prego che tu ami il mio padrone. A tali parole d’Alberto, il sovrano lo invitò a pranzar seco, ma il primo impaurì alla profferta perchè servo del marchese, e non osava prender sopra di sè tal desinare col monarca, il qual già si metteva a tavola; tuttavia Enrico ne richiese Bonifazio, che finalmente il concedeva: Alberto mezzo morto fu con essi a mensa, ma poco mangiò o bevve. Dopo pranzo diede il re vaghe mastruche,⁶ e pelliccie al visconte, ma questi i bei presenti recava alla camera ducale, e con quelli una spoglia di cerbiatto, che desso Alberto colmava di monete, e caduto ai piedi del suo principe, chiese perdono per aver seco partecipato della regia mensa. Bonifazio, che sapeva frenar la possanza propria, perdonò allora al servo, ma proibiva tale delitto pel futuro".⁷
Enrico III da sì magnifici regali, sentì prima invidia e gelosia di stato per l’Italia, e volea condur seco il duca, sublimi onori promettendo, ma ricusando questi, deliberò il sovrano d’improvviso imprigionarlo in sull’andarsene da Mantova città di Bonifazio a questo affezionata. Fermò quindi chiamarlo