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Palazzi e giardini di Napoli
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Palazzi e giardini di Napoli
E-book677 pagine8 ore

Palazzi e giardini di Napoli

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Info su questo ebook

Segreti, fasti e splendori di luoghi unici che sopravvivono al trascorrere del tempo

Sono l’anima di Napoli, dietro le loro quinte si svolgeva la vita dei signori della città insieme a quella di servitori, fantesche, stallieri e cocchieri. Le loro facciate nascondevano lo scorrere delle buie e piovose giornate dei corti inverni napoletani. Sono i palazzi e i giardini dei nobili di Napoli, baciati d’estate dal sole mediterraneo e oggi ridotti ormai a fantasmi di pietra con piccoli lembi di terra, un tempo teatro di fastose cerimonie o eventi drammatici. Questo saggio ne analizza la struttura architettonica ed è anche ricco di notizie inedite sulle antiche famiglie che nel corso dei secoli si sono avvicendate in quelle stanze. Un libro che accompagna il lettore attraverso tre lunghi itinerari nel centro antico della città, raccontando – di quei giardini e quei palazzi – le vicende imprevedibili della costruzione, la scelta dell’arredamento e quella per le piante del giardino o dell’orto. 

Itinerari, architettura e imprevedibili vicende.

Ecco cosa si nasconde dietro i palazzi e i giardini napoletani

• Il palazzo di città dell’aristocrazia feudale
• Le case del popolo e i palazzi della nobiltà
• Il giardino napoletano di palazzo
• I giardini del re
• Gli artefici e l’arte edificatoria
• Strategie per il recupero dei palazzi nobili di Napoli

…e molto altro ancora
Nicola della Monica
Nato a Napoli nel 1955, è uno dei più accreditati conoscitori del patrimonio architettonico e artistico della città. La sua ricerca è caratterizzata dall’applicazione dell’araldica alla storiografia e allo studio dei beni architettonici, artistici e storici. È docente di Storia dell’Emblematica negli Istituti di alta cultura dello Stato. Paleografo e diplomatista, è stato conservatore di archivi storici pubblici. Ha insegnato Iconografia araldica nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È Ispettore onorario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo. Giornalista pubblicista, è autore di numerosi articoli e saggi di storia, arte e urbanistica apparsi su quotidiani e riviste. Tra le sue pubblicazioni storico-scientifiche c'è Introduzione all’iconografia araldica (1998). Per la Newton Compton ha pubblicato Le statue di Napoli, Le grandi famiglie di Napoli e Palazzi e giardini di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2016
ISBN9788822703163
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    Anteprima del libro

    Palazzi e giardini di Napoli - Nicola della Monica

    Capitolo 1

    Il palazzo di città dell’aristocrazia feudale

    Il panorama architettonico di Napoli antica non offre dei precisi parametri per definire uno o più modelli costruttivi, né tantomeno consente di disegnare una mappa di stili come può avvenire per altre città capitali dell’Italia preunitaria. Tuttavia si può prendere atto – nel disordine urbanistico spontaneo – di quanto possa essere ricondotto a uno stile nell’edilizia aristocratica tra i secoli xv e xviii.

    Sono piuttosto rari i casi in cui il signore committente riusciva a realizzare una compiuta dimora aristocratica. Ciò per due motivi. Il primo era costituito dalla penuria nel centro della città di spazi capaci al punto da poter ospitare una costruzione grandiosa e armonica; il secondo motivo che frenava la grandezza e la magnificenza era dovuto alla poca dimestichezza del signore feudale con modelli architettonici tipicamente signorili, che caratterizzavano i centri delle città di altri stati della penisola. A ciò si aggiunga che il committente aristocratico non era incline ad affidarsi a una mente esperta quale era quella dell’architetto, giungendo ad affidare la costruzione delle sue case alla praticità di un maestro muratore.

    Tenteremo di tracciare un profilo dei modelli costruttivi e degli stili partendo dalle poche testimonianze dell’architettura dell’età medioevale e rinascimentale che Napoli conserva. L’evidenza mostra che i palazzi dell’aristocrazia tardo angioina e aragonese lasciano intuire una maggiore libertà spaziale, che consentiva la realizzazione di edifici anche più vicini a modelli toscani. Per quanto riguarda la struttura degli edifici di età medioevale, è realizzata con conci di tufo giallo squadrati a mano e legati con uno strato di malta composta da calce e pozzolana¹. Anche i solai sono fatti con il tufo, formati da volte a botte, a vela o a crociera. Le facciate sono generalmente protette nelle zone basse da un rivestimento di pietra piperina, che nell’area campana è chiamata piperno. Gli edifici cittadini di quest’epoca risentono del modello difensivo tipico delle rocche e dei castelli feudali. Spesso le pareti esterne sono plasmate sul modello delle costruzioni fortificate.

    Nei palazzi dell’aristocrazia medioevale è raro l’utilizzo del legno per travi e panconcelli di solai, questi materiali erano molto più frequenti nelle case dei poveri, dove si annidavano insetti e topi². Anzi, c’è da osservare che il solaio di pietra, sorretto da volte a vela, a crociera o a botte, era preferibile a quello in legno, che con il tempo era soggetto all’insediamento delle cosiddette tèrmiti, pericolosi insetti ignivori che, organizzati in colonia, arrecano occulti danni nelle travi fino a provocare l’improvviso crollo del solaio.

    immagine

    Facciata del Palazzo Colonna di Stigliano in via Toledo (da Paolo Petrini, Facciate delli palazzi più cospicui della città di Napoli, 1718).

    La configurazione planimetrica risponde quasi sempre alle condizioni spaziali imposte dall’orografia o dallo stato del luogo. Raramente l’artefice progetta liberamente una dimora spazialmente indipendente senza che sia costretto a adeguarsi alla superficie disponibile. Sono veramente pochi i palazzi napoletani del Medioevo, per i quali è possibile definire dei modelli univoci, perché di molti sono avanzati solo cornici di pietra e portali; e ciò vale per il Palazzo dei Piscicelli nell’omonimo vico a Forcella, come per il Palazzo di ser Gianni Caracciolo ai Tribunali, risalente alla fine del Trecento, del quale resta il magnifico quanto originale portale di marmo e l’impianto del piano terreno, tutto costruito in buona parte con pietra vulcanica. Come è noto il palazzo subì un’evoluzione con l’aggiunta di nuovi corpi di fabbrica all’inizio del Cinquecento e nel 1587³ divenne sede dell’Ospedale di Santa Maria della Pace con l’annessa chiesa. Sebbene non documentato adeguatamente, il cortile porticato che oggi si vede ricalca probabilmente quello del palazzo del Caracciolo, uomo influente, gran siniscalco e gran conestabile del Regno, duca di Venosa e principe di Capua. L’idea della magnificenza ce la fornisce il portale marmoreo di ottima fattura e il paramento della facciata al piano terra, composta da grandi lastre di piperno. Un materiale che caratterizza anche la parte basamentale della facciata del Palazzo dell’imperatore di Costantinopoli, unico avanzo vistoso – sebbene ampliato e rimaneggiato – del secolo xiv. È un importante documento per la storia dell’architettura a Napoli in quanto documenta il passaggio stilistico dallo stile gotico a quello rinascimentale; un cambiamento che si coglie negli archi del portico prospiciente la strada dei Tribunali, dove convivono archi a tutto sesto con un arco ogivale che si ripete nel portale. L’originaria costruzione risale a un periodo anteriore al 1374 e «fissa l’epoca in cui in Napoli l’architettura spogliandosi dalle gotiche fogge cominciò a modellarsi sulle belle e più semplici forme della greco-romana del risorgimento»⁴. Tra l’altro nei grandi pilastri dell’alto portico sono inglobate colonne romane di marmo cipollino con loro base e capitello; reperti trovati certamente nello scavo realizzato per la costruzione e che partecipano alla statica dell’edificio. Quello che resta dell’originario palazzo manca di un adeguato cortile e dei giardini che certamente vi erano.

    * * *

    Gli edifici civili dell’aristocrazia del secolo xv hanno particolari costruttivi ereditati da quelli del secolo precedente, mentre i caratteri dello stile cominciano a cambiare; mutuano le facciate da quelle toscane, tipiche del Rinascimento, sfruttando la pietra locale – il piperno – in luogo della pietra serena.

    Nella via Mezzocannone al numero 8 c’è la facciata che appartenne al Palazzo di Artusio Pappacoda, gran siniscalco del Regno e consigliere del re Ladislao d’Angiò-Durazzo⁵. Passato poi agli Orsini, ritrovò il suo splendore quando nel 1527 divenne di Fabrizio Colonna, contestabile del Regno. Fu completamente restaurato con gusto, tanto che conservò il portale con lo stemma dei Pappacoda. Colonna fece affrescare le sale con scene delle sue gesta da condottiero, affidando i lavori a Polidoro Caldara da Caravaggio, che a Napoli si trovava perché scappato dal Sacco di Roma⁶. Dell’originaria costruzione è rimasta la sola facciata e il portale con ai lati gli stemmi del re Ladislao e del Colonna. Lo stile riproduce le bugne lisce del Palazzo di Diomede Carafa (1466), ma senz’altro in tono minore.

    Gli edifici risalenti al tardo Medioevo presentano uno stile caratterizzato dal largo impiego nelle facciate di pietra vulcanica, tufacea o piperina. Esempio significativo è la facciata del Palazzo di Roberto Sanseverino (1430 circa-1474), principe di Salerno, dove l’originale bugnato piperino a piramide⁷ costituisce un unicum nel patrimonio architettonico dell’intera penisola, trovando lontana somiglianza solo nel Palazzo dei Diamanti a Ferrara.

    Nel Palazzo Orsini di Gravina si può cogliere una proporzione e una simmetria nella disposizione delle aperture, che trovano una corrispondenza solo in qualche fabbrica coeva, come nel Palazzo Como, anch’esso presentante una facciata di bugnato, ma liscio, gentile. Qui, in Palazzo Gravina, le enormi bugne bombate che ricoprono il primo ordine della facciata, risentono sempre dell’influenza toscana, ma riflettono lo spirito bellicoso del proprietario, che nel suo palazzo di città vuole imprimere il carattere della residenza fortificata tipicamente feudale. Il periodo a cavallo tra il Quattro-Cinquecento denota la presenza di cortili caratterizzati dal contorno di portici, già presenti nelle architetture tardo trecentesche, ma verso la strada, come nel Palazzo dell’imperatore di Costantinopoli, poi dei Cicinello di Cursi.

    Fondamentalmente i caratteri dello stile dei palazzi napoletani sembrano concentrati nei portali; sono essi che sintetizzano la potenza familiare del proprietario e – rispetto alla fabbrica vera e propria – sono l’elemento che senz’altro ha richiesto l’intervento creativo dell’architetto. Alcuni di questi portali sono delle opere uniche, che costituiscono esempio per gli altri, com’è il caso di quello di Diomede Carafa di Maddaloni, replicato in tono minore su Palazzo Petrucci a piazza San Domenico Maggiore. Altri, invece, sono frutto di elaborazioni autonome replicate in più palazzi, e con ciò ci riferiamo al cosiddetto portale mormandeo di Giovanni Donadio da Mormanno (1449-1530), l’architetto-organaro che può essere considerato uno studioso della teoria funzionale del portale e la cui opera fu proseguita dal suo allievo Giovan Francesco di Palma. Il portale cosiddetto mormandeo, studiato per la prima volta da Roberto Pane⁸, si fonda su un archivolto che generalmente poggia su di un singolare capitello che sovrappone lo stile ionico a quello corinzio⁹. La varietà stilistica dei portali napoletani si manifesta tuttavia in soli due sistemi costruttivi: quello architravato e quello archivoltato. Mentre il primo, meno diffuso, non presenta novità di rilievo, il secondo è declinato in molteplici varianti del profilo dell’arco, curvilineo, circolare a tutto sesto o a sesto ribassato, mistilineo, oppure policentrico ad andamento concavo-convesso, tipico di Ferdinando Sanfelice. L’arco a sesto ribassato nacque storicamente per la necessità di abbassare la volta dell’androne a fornice con lo scopo di ricavare il volume superiore a vantaggio del primo piano utile.

    immagine

    Il portale di Palazzo Filomarino della Rocca in via Benedetto Croce.

    La configurazione spaziale del portale obbedisce generalmente alla composizione architettonica della facciata e si arricchisce di elementi che potremmo definire accessori e complementi, quali i paracarri, le ante lignee del portone, la rosta di sopraluce in legno o di ferro; ma anche i fregi del portone, che talvolta non sono solo decorativi ma assolvono a una funzione pratica, come nel caso dei picchiotti di ferro occorrenti per bussare. Generalmente le decorazioni sui battenti lignei sono costituite da stemmi o armi araldiche, mentre i picchiotti hanno generalmente l’aspetto di protomi leonine. Sulla rosta si trovano spesso intagliate figure zoomorfe o conchiglie, raramente emblemi araldici, unico esempio è il Palazzo Caracciolo di Santobuono in via Carbonara. Le roste lignee venivano intagliate dagli abili maestri d’ascia e completavano il programma decorativo della residenza sottolineando il rango del signore, che spesso ne affidava il disegno a grandi artisti¹⁰. Ne è testimonianza la rosta del Palazzo Filomarino della Rocca alla Trinità Maggiore, oggi via Benedetto Croce, qui il disegno della rosta è di Sanfelice mentre la sua pratica esecuzione è dell’ebanista intagliatore Nicola Vitale, che per questo lavoro ricevette sedici ducati «…per l’intaglio della coda di paone intagliata per il portone del palazzo del principe della Rocca…»¹¹.

    Spesso il portale è rimasto l’unica testimonianza per la storia dell’architettura, soprattutto per il periodo durazzesco o aragonese, ma con un suo valore autonomo. Della sequenza spaziale costituita dall’androne, dal cortile e dal corpo della scala, il portale si evidenzia segnando il luogo di passaggio dallo spazio pubblico della strada a quello privato del palazzo. Simbolicamente, in proporzione alle sue dimensioni nonché alla forma e al materiale, celebra e rappresenta la grandezza del padrone. Anche perché non trovando spazio lo svolgimento della facciata per l’angustia delle strade, il programma celebrativo si concentra sul portale, unico elemento immediatamente visibile¹². È nel secolo xviii che architetti come Ferdinando Sanfelice e Domenico Antonio Vaccaro con tanti altri dimostrano la loro perizia proprio attraverso la formulazione del portale. Una grandezza perpetuata ancora oggi nel ruolo di filtro e mediatore tra lo spazio esterno e quello interno. Per poter apprezzare gli elementi e la qualità delle facciate dei palazzi dell’aristocrazia di Napoli, oltre che esaminare il costruito, si possono vedere le tante incisioni riportate nelle guide di Napoli del Seicento e del Settecento¹³.

    In conclusione, si può affermare che il processo di trasformazione della dimora nobiliare cittadina, avviato nel Cinquecento, giunse a compimento nel Settecento, quando l’aristocratico soggiornava pressoché stabilmente nella capitale. È allora che Napoli è stata investita da un’intensa attività costruttiva che ha modificato il volto della metropoli.

    Il portico

    Nell’edilizia residenziale di Napoli era consueto imbattersi in case con portico, anche se quest’ultimo era una tipica prerogativa dell’architettura dei Seggi cittadini. Attraverso le testimonianze scritte dei cronisti e dei testimoni, abbiamo notizia di case con antistanti portici soprattutto nell’edilizia residenziale tardo gotica. La stessa casa di Lucrezia d’Alagno, favorita del re Alfonso i d’Aragona, aveva dei portici che furono abbattuti col vicino Seggio del Popolo per l’allargamento della Strada della Sellaria¹⁴.

    Vi è spesso una connessione tra struttura del seggio, abitazione e cappella di famiglia; tutto questo concorreva alla creazione di una fitta rete nello spazio urbano, una sorta di sistema di residenza; interi pezzi di territorio urbano accaparrati da famiglie che fin dal Quattrocento hanno legato il proprio nome al territorio.

    Il Palazzo Caracciolo di Brienza in via de’ Tribunali 169, mostra un buon esempio di come un edificio dell’aristocrazia abbia assorbito e unificato il portico del seggio e la cappella. Qui il portico sovrasta il vico Sedil Capuano nel suo imbocco dalla strada dei Tribunali, in modo da conservare la circolazione tra cardine e decumano maggiore, ma nel contempo unificare le cortine dell’edificato latistante. Infatti, l’araldica presente sui portali degli edifici ci mostra l’intento di legare con il cavalcavia due palazzi dei Caracciolo, entrambi di antico impianto costruttivo.

    Spesso l’esistenza dei portici si coglie anche nelle vedute di dipinti e nelle incisioni. Étienne Giraud ritrae il Palazzo Di Capua della Riccia, poi Marigliano del Monte, quando ancora aveva in angolo l’arcata del disciolto Seggio di San Gennariello¹⁵. L’immagine mostra le attigue chiese di San Gennariello all’Olmo e di San Biagio sotto il portico, con un soprastante terrazzo con balaustre e pilastrini sui quali poggiano vari busti di marmo all’uso settecentesco. Tale terrazzo era a uso esclusivo del palazzo principesco che si inquadrava in una sistemazione che vedeva due logge, una coperta al piano terreno, l’altra scoperta al livello del primo piano nobile in corrispondenza della grande sala.

    Vi sono altri sparuti fenomeni di porticati appartenuti a seggi cittadini e inglobati nell’edilizia privata, come nel caso del Sedile di Nilo fagocitato dai Pignatelli per la loro cappella dell’Assunta, mentre i portici pubblici, a servizio della strada sono a Napoli piuttosto rari. Quelli che hanno resistito al trascorrere del tempo e alle calamità telluriche, risalgono alla fine del Trecento e all’inizio del Quattrocento; ne sono esempio il Palazzo dell’imperatore di Costantinopoli e il confinante Palazzo D’Avalos nella via de’ Tribunali. Quest’ultimo, con ingresso dal vico del Fico al Purgatorio, fu costruito agli inizi del Cinquecento per Alfonso d’Avalos e sua moglie Maria d’Aragona; presenta cinque grandi arcate di piperno a tutto sesto, che poggiano su grandi pilastri. È stato l’attiguo preesistente palazzo angioino a suggerire al committente e ancor più al progettista, di proseguire con la sequenza di arcate, caratterizzandosi così un lungo tratto di strada. Pertanto, a ragione, si può qui parlare di un adeguamento al contesto circostante, episodio pressoché più unico che raro a Napoli. Ma caso ancor più raro è che questo portico presentava sulla parete interna delle campate, archi più piccoli, poi chiusi, dando così l’idea di un portico in un portico¹⁶.

    Altro fenomeno sono i porticati dei cortili interni alla stessa residenza. Questi avevano molteplici funzioni e anch’essi sono un fenomeno tipologico dell’architettura rinascimentale, soprattutto quando i portici corrono lungo i lati di un cortile quadrilatero. Ne sono esempio il Palazzo Orsini a Monteoliveto, l’antico Palazzo dei Sanseverino, passato poi ai Filomarino della Rocca, quello dei Di Capua principi di Conca e altri ancora.

    I porticati interni al cortile di un palazzo erano utilissimi come riparo dalla pioggia come dal sole. Consentivano lo svolgersi delle attività quotidiane della servitù. Si potevano far sostare temporaneamente i cavalli, riordinare le derrate e ripararsi dalle intemperie al rientro da un viaggio.

    Tipologicamente, oltre al descritto portico che occupa i quattro lati del cortile, vi sono palazzi che ne hanno solo sui lati oltre il vestibolo, come nel Palazzo di Diomede Carafa, dove appaiono chiusi dalla muratura lasciando intravedere degli splendidi pilastri a base ottagona, che per fattura sono riconducibili allo stesso artefice di quelli in Castel Nuovo.

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    Il portico del Palazzo dell’Imperatore di Costantinopoli, illustrazione di E. Forestieri (da C. Celano, Notizie del Bello e dell’Antico e del Curioso della città di Napoli, Rist. ESI 1970).

    Molto diffuso è il portico in testa al cortile. Se ne vedono in numero maggiore e anche in questo caso vi sono delle varianti. Quello più presente serve da terrazza superiore, talvolta in adiacenza con il giardino. È questo il caso del cinquecentesco Palazzo dei Di Somma, principi di Colle Sannita nel largo dei Santi Apostoli; qui il portico si trova di fronte all’ingresso principale e con la volta a crociera sostiene una loggia scoperta. Le quattro arcate poggiano su pilastri di piperno, alla cui sommità corre una lunga balaustrata che presenta i balaustri alternati a pilastrini; sulla loro faccia sono scolpiti dei covoni, ovvero dei fasci di spighe di grano che, più che un motivo araldico – peraltro estraneo alla famiglia Di Somma – vogliono essere un simbolo legato alla rinascenza e alla prosperità.

    Organizzazione della logistica interna

    La famiglia del signore che si insediava nella capitale era piuttosto numerosa, quindi la dimora ospitava innanzitutto i padroni di casa con i loro figli e parenti prossimi. A essi si aggiungevano in gran numero le persone addette a servizi vari.

    Il palazzo disponeva di servi e servette che rassettavano, cucinavano, lavavano, stiravano, come anche di garzoni che eseguivano i lavori più faticosi: spaccavano la legna per i camini e le cucine, trasportavano e sistemavano derrate di lunga conservazione che giungevano periodicamente dalle campagne del signore. Si creava così un sistema isolato della famiglia proprietaria, un organismo autonomo ma complesso, che costituiva un piccolo sistema sociale nel quale la classe lavoratrice traeva un certo sostentamento.

    Nella stessa dimora vivevano più gruppi familiari. Trovavano spazio di abitazione i nuclei formati da coloro che si muovevano e vivevano nel palazzo lavorando per il proprietario, spesso già dall’infanzia. I compiti erano suddivisi in base all’età e alle capacità fisiche. I più anziani curavano i cellai riforniti di frutta, legumi e cereali, che sceglievano con cura; tenevano sotto controllo l’olio e il vino conservati. I ragazzi erano impiegati come corrieri per portare missive riservate a parenti e ad amici che vivevano in città, oppure restavano nella zona bassa del palazzo per tirare l’acqua su dalle cisterne, lavare le stalle, i lavatoi e altri ambienti al piano terra. Un buon numero di persone era addetto alla cura dei cavalli e delle carrozze. I cavalli erano ricoverati generalmente al piano terreno e più raramente al piano interrato. Ancora oggi molti palazzi conservano la pavimentazione originaria delle stalle in lastre di basalto e alle pareti del vestibolo e del cortile le borchie di piperno con gli anelli a cui venivano legate le briglie dei cavalli in sosta.

    Tutte le dimore signorili disponevano dello spazio necessario al ricovero dei cavalli. Già nel Medioevo si ha notizia dal Celano che il palazzo del principe Sanseverino di Salerno disponeva di stalle per il ricovero di cento cavalli, anche se il dato ci sembra francamente esagerato. Nel centro antico di Napoli il palazzo dei Gambacorta di Limatola, poi passato ai Saluzzo di Corigliano, conserva ancora nel piano sotterraneo la stalla con una lunga mangiatoia. Fuori le mura – nel Seicento – Diomede Carafa duca di Maddaloni ricoverava nel suo nuovo palazzo alla Stella oltre cento cavalli e aveva una carrozza valutata in quindicimila scudi¹⁷.

    I piani inferiori del palazzo – come si è illustrato – erano destinati ai servizi e all’alloggiamento dei servitori, mentre lo spazio in cui si svolgeva la vita della famiglia aristocratica era costituito dai quarti, che sono veri e propri appartamenti di una grande superficie, necessaria – più che a ospitare gli abitanti – ad accogliere il ricco mobilio, le suppellettili e le opere d’arte di arredo. Preludio alla grandezza e alla magnificenza del quarto è la scala che talvolta – come nel palazzo degli Acquaviva d’Atri o degli Orsini di Gravina – si presenta come un vero e proprio scalone.

    Giunti al piano cosiddetto nobile si trovava la sala di rappresentanza, l’ambiente privato del palazzo che destava maggiore meraviglia per il visitatore. È qui che si presentava lo status del signore, quasi sempre vi era un grande camino e alle pareti in alto vi erano dipinti stemmi con le armi araldiche di famiglia, come ancora si vede nel Palazzo Di Capua, poi Marigliano. Nelle volte dipinte erano spesso raffigurate scene di avvenimenti storici legati alla famiglia, mentre le pareti erano affrescate con false prospettive o arredate con arazzi e quadri di varia foggia e dimensione, con cornici dorate. Generalmente i dipinti di grande effetto erano i ritratti di personaggi storici della famiglia, quali condottieri, alti prelati e giureconsulti. Ma il ritratto che non mancava, in una sorta di galleria privata, era quello del sovrano regnante e di altri personaggi in vista, primo fra questi il viceré. Nel caso in cui il padrone di casa non disponeva di grandi fortune, non poteva affidarsi alle botteghe di grandi pittori e si doveva accontentare di riempire i grandi vuoti con specchi impreziositi da cornici di ebano e cordoni di seta. Lo specchio svolgeva anche la funzione di amplificare la luce esterna.

    Il luogo ameno del palazzo era – quando possibile – un giardino, che doveva far sentire al signore il ricordo della sua campagna lontana, quel feudo dove era nato e dove si sentiva padrone assoluto. Si trattava spesso di uno spazio verde esiguo, che si trovava quasi sempre a un livello diverso da quello della strada e del cortile. Ne è un esempio il giardino pensile del Palazzo dell’Ambasciata veneta nella strada della Trinità Maggiore, oggi via Benedetto Croce, dove il giardino è accessibile solo dal piano nobile. Il Palazzo Galluccio, invece, si trovava nel largo Donnaregina, ad angolo con il vico Loffredo. Appartenuto fino al 1531 ai Filomarino, poi ai Di Capua fino al 1554 quando divenne dei Galluccio¹⁸. Qui la sala è in diretta connessione con il giardino pensile, ed essendo l’ambiente principale dell’edificio prospetta sulla strada principale¹⁹.

    Ampi giardini si trovano solo nei palazzi che la nobiltà ha costruito fuori le mura della città, nel borgo dei Vergini e della Sanità, dov’è il palazzo dei Sanfelice, o nel borgo di Chiaia dove si trova il palazzo dei Carafa di Stigliano, poi dei Giudice di Cellamare. Qui, non solo vi è tuttora un ampio giardino, ma anche un frutteto e un orto, al punto da richiedere la presenza di un contadino²⁰. Per il signore il giardino è la naturale conservazione dell’identità rurale, poiché l’aristocrazia napoletana ha un suo carattere etnologico²¹.

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    Veduta del Palazzo Cellamare dopo il rifacimento settecentesco di Ferdinando Fuga (da Napoli nobilissima, x, 1901).

    Tutti i palazzi napoletani disponevano generalmente di una cappella. Ne è un esempio San Gennariello all’Olmo, patrocinata dai Di Capua d’Altavilla, sebbene avesse accesso esterno al loro palazzo di via San Biagio dei Librai. Si creava una sorta di accessorio del palazzo, una pertinenza, uno dei prolungamenti della dimora. La cappella come prosecuzione del palazzo, una sorta di possedimento extra territoriale, che con le sue tombe di famiglia costituiva parte integrante della dimora gentilizia. Chi non poteva, per ragioni di spazio, permettersi una cappella nel proprio palazzo o nelle sue immediate adiacenze, se ne costruiva una di patronato nella cattedrale o in un’altra grande chiesa, magari prossima alla propria zona d’influenza. Si determinava una fitta rete nobiliare dello spazio urbano formata dal seggio, dall’abitazione e dalla cappella di famiglia.

    A questo proposito va detto che l’estensione dello spazio fisico della dimora si spingeva fino alla carrozza, che diventava in qualche maniera anch’essa una pertinenza dell’abitazione. Il signore, ovunque andasse, si sentiva sempre a casa sua.

    La scelta del suolo per la costruzione

    Nel centro antico di Napoli sono poche le antiche residenze sorte su grandi spazi. Non si ha notizia di grandi palazzi realizzati su terreni vergini, tranne quelli costruiti in collina o nei borghi fuori le mura. Spesso i suoli scelti per la costruzione erano residui, erano stati occupati da altre fabbriche magari dirute. Non era tanto importante la forma planimetrica del suolo, quanto il sito topografico dove esso si trovava. Lo sfoggio della residenza prospiciente la Strada dei Tribunali era quanto di meglio si potesse desiderare, ma non era da disprezzare la zona intorno a Porta Donnorso, dove era possibile disporre anche di un po’ di spazio per il giardino, come nel palazzo dei Firrao o quello degli Spinelli di Fuscaldo.

    Fondamentalmente il suolo scelto dai signori che giungevano a Napoli si trovava all’interno delle mura aragonesi. I primi ad arrivare da invasori furono – tra il 1510 e il 1515 – gli spagnoli, castigliani e aragonesi; occupavano posti di dirigenza nei grandi uffici politici e amministrativi del Regno, si trattava spesso di militari premiati con la concessione di feudi. Presto essi si integrarono nell’aristocrazia autoctona, se così si può definire quella cerchia composta da coloro che erano ormai da tempo nella capitale²².

    Lo spazio all’interno delle mura aragonesi era più o meno quello perimetrato e suddiviso dai greci e dai romani, ma in questo ambito urbano le ambizioni spaziali della nobiltà si scontravano con la reale mancanza di spazio. Molti desideri di grandezza dei nobili alloctoni si infrangevano contro i limiti imposti dalle strade, mentre quelli della nobiltà autoctona dei nobili di piazza potevano essere assecondati demolendo, ricostruendo o ampliando i beni immobili già in loro potere.

    Era raro assistere alla costruzione di un grande palazzo ex novo, nato dal niente. Pochi erano gli spazi liberi e uno di questi, nel largo San Domenico Maggiore, fu occupato dai Sangro. In molti casi alla mancanza di spazio si sopperiva con tromp-l’œil, ingannando l’occhio con facciate eleganti e finezze architettoniche, poco badando alle reali necessità del rango, come nel caso del Palazzo dei Carafa di Montorio, ma anche in quello degli Spinelli di Laurino. Il primo con un vistoso cornicione scolpito, il secondo con un cortile ellittico e una scala fantasiosa.

    Gli Acquaviva d’Aragona, non potendo disporre di un grande spazio per realizzare il loro palazzo ducale, lo inglobarono fra altre case di loro proprietà.

    A Napoli il palazzo libero, cioè che non faccia parte di un isolato, è raro per la cronica mancanza di spazio. Si possono enumerare brevemente quelli che posseggono una loro autonomia spaziale; primo fra questi è il Palazzo Sanchez di Grottole, che tuttavia ostenta tre facciate tra largo San Giovanni Maggiore, via Candelora e largo Banchi Nuovi. Normalmente l’aristocrazia tendeva a fare isolato, ad aggregarsi intorno a un nucleo iniziale, come nel citato caso degli Acquaviva d’Atri.

    Gli accaniti cacciatori di spazio erano pochi, tra questi è il predetto marchese di Grottole che riuscì nell’intento di isolare il suo palazzo grazie a una tempesta che nel 1569 fece crollare molte costruzioni confinanti intorno al palazzo. Questa calamità naturale consentì al palazzo di acquistare una certa autonomia spaziale, arricchendosi di una loggia sulla facciata posteriore, e al marchese di disporre di un valido passaggio che gli consentisse di raggiungere agevolmente il Seggio di Porto²³.

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    Napoli a volo d’uccello (Antonio Bulifon, 1685).

    Il principe di Avellino, Camillo Caracciolo, quando ricostruì il suo palazzo lungo la strada dell’Anticaglia, utilizzò il chiostro abbandonato dalle monache di San Potito per realizzare il suo largo privato d’Avellino. Nel Seicento, il principale problema che l’aristocrazia doveva risolvere era quello di dover trovare una soluzione spaziale che fosse all’altezza della realizzazione di una dimora degna del proprio rango. Alla penuria dello spazio nel perimetro della città antica, si ricorreva col costruire su suoli posti all’esterno delle mura, oltre il pomerio, verso il largo delle Pigne, l’attuale piazza Cavour. Qui sarebbero sorti palazzi con giardini, logge, stalle a sufficienza, nonché i segni della grandezza: il portale e il cortile, dove avrebbe dominato una scenografica scala.

    In conclusione, la scelta del suolo per costruire all’interno della cinta urbana, risentiva della contingente mancanza di spazi liberi, che obbligava l’aristocrazia alla costruzione di un patrimonio edilizio intorno a delle fabbriche già esistenti, salvo servirsi di un giardino annesso a un’antica dimora.

    Il progetto

    Il ritardo culturale della realtà napoletana, segnato in qualche misura dal viceregno spagnolo del Cinquecento, sarà determinante perché nell’esecuzione delle opere edilizie ci si affidi al maestro fabbricatore, senza avvertire la pur minima esigenza di rivolgersi alla mente ordinatrice di un architetto o a un ingegnere come dir si voglia. Il signore feudale era intollerante alle norme spaziali decise da un architetto; la sua arroganza lo teneva ben lontano da chi doveva decidere gli spazi dove lui doveva abitare²⁴. Questo atteggiamento trova valido sostegno nel dato economico, nel senso che il nobile, non affidandosi al tecnico progettista, si alleggeriva della spesa di parcella dovuta a quest’ultimo ma, come più avanti si dirà, era una scelta dettata anche da motivi di albagia e dignità morale.

    Un’indagine sull’architettura nobiliare a Napoli ci porta a rilevare che sono davvero pochi gli edifici civili frutto della progettazione di un architetto. Se ne potrebbe fare un elenco in poche righe. I maggiori nomi della committenza privata sono Cosimo Fanzago, Giovanni Donadio, Giovan Francesco di Palma, Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Luigi Vanvitelli, Bartolomeo Picchiatti; vi è poi uno stuolo di figure che vengono definite «maestri di muro», ma è una definizione molto labile, perché vi sono tra questi alcuni che si trovano nominati in una disposizione del viceré Juan de Zúñiga (gov. 1586-95), conte di Miranda, come ingegneri per la costruzione della «[…] gradiata fuora le mura dell’infermeria delle carcere del palazo di questa Gran Corte che importaria da ducati centocinquantatre et tarì due […] et il tutto si essequa con intervento dell’Ingegnero Benvenuto Tortelli et Gio. Iacomo della Monica, a relazione delli quali debbiate fare la detta spesa»²⁵.

    La maggior parte degli ingegneri e architetti napoletani era impiegata per la realizzazione di opere pubbliche. Domenico Fontana e suo figlio Giulio Cesare per il Palazzo Reale; Luigi Vanvitelli per la Reggia di Caserta e Ferdinando Fuga per quell’opera elefantiaca che è il Real Albergo dei Poveri. Tra l’altro va osservato che era molto ambìto il posto di «ingegnere maggiore del Regno», che il Fontana padre occupò dal 1596 fino alla morte avvenuta il 28 giugno 1607²⁶.

    Il dramma dell’ostentazione, vissuto continuamente dall’aristocratico non si conciliava con l’operato dell’architetto. L’egocentrismo del signore feudale non accettava una figura intellettualmente autonoma, professionalmente capace di organizzargli lo spazio vitale e dare ordine dove lui non era riuscito. È per questo che l’architetto-servitore veniva chiamato spesso solo per trasformazioni, aggiunte e brani di edilizia, più che per un progetto organico di architettura²⁷. Il patrimonio immobiliare dell’aristocrazia a Napoli risente enormemente della mancanza di progetti unitari, perché la figura dell’architetto fa capolino quasi sempre intervenendo solo per rabberciare le costruzioni, più che per esercitare il suo ruolo creativo e progettuale finalizzato alla realizzazione. Il ruolo del progettista era considerato dal signore committente una prevaricazione che il suo rango non poteva tollerare. I pochi casi in cui l’architetto è riuscito a imporre la sua creatività sono ben evidenti, come nel Palazzo de’ Sangro di Casacalenda, dove la mano del Vanvitelli è inequivocabile.

    Riguardo alla figura professionale dell’architetto, Gaetano Filangieri di Satriano nel valutare la consistente presenza di maestranze campane a Napoli nel Quattrocento, equipara i regii fabricatores al rango degli architetti moderni, sfatando l’idea che le maestranze in architettura fossero prive di orientamento teorico e progettuale²⁸. Inoltre, pone l’accento sull’esistenza di un’architettura indigena, riferendosi a quella che Roberto Pane oltre quarant’anni dopo definirà durazzesco-catalana.

    I materiali impiegati

    La costruzione dei palazzi dell’aristocrazia prevedeva innanzitutto l’impiego dei materiali che da sempre avevano caratterizzato l’attività edilizia nell’area napoletana. I litoidi naturali²⁹ che venivano impiegati erano quelli estratti nel territorio vesuviano e nell’area flegrea. Si tratta della pietra piperina, il piperno, e del tufo. Il primo era estratto quale magma sedimentatosi ai piedi della collina di Camaldoli e principalmente alle falde del Vesuvio, mentre il secondo, il tufo, è frutto della composizione geologica delle colline di Napoli.

    Nel descrivere la città di Napoli nel Settecento, il Parrino precisa che «i monti, che la coronano, alcuni la provedono d’una pietra dolcissima, e leggiera, detta tufo, che fa mirabilmente lega con la calce, dandone occasione di alzare altissimi gli Edificj, e questi alle volte fino al quinto, e sesto appartamento, altri le danno una pietra dura, e nera, detta Piperno, che serve per l’archi delle porte, e finestre, e per forza di fondamenti, ed il Vesuvio la serve di pietra viva per selciare con queste quadre le strade, de’ quali già ne fu lastricata la via Appida da Roma fin a Brindisi»³⁰.

    Il tufo, a Napoli di largo impiego, veniva estratto da grandi cave, come mostrano i resti a Chiaiano, nel Vallone di San Rocco a Capodimonte, lungo le strade che dalla Pigna s’inerpicano verso i Camaldoli. Molte grotte scavate nei banchi di tufo sono risultate dai vuoti lasciati dalla pietra cavata, come a Posillipo e in tante altre zone ai piedi delle alture, anche nel centro della città, sotto la collina di Pizzofalcone. Lo strato inferiore di tufo giallastro e di poca durezza era superiormente coperto da uno strato di lapillo e pozzolana, altri materiali utilissimi nell’edilizia, il primo per realizzare leggeri riempimenti di solai, la seconda da mescolare alla calce, che era l’unico legante per ottenere una buona malta, atteso che il cemento comparirà solo sul finire dell’Ottocento.

    Un tempo era tale l’abbondanza di tufo in tutta l’area della città e nei suoi dintorni che, per costruire, spesso si cavava questa pietra dai terreni stessi dove si doveva erigere l’edificio. In questo modo ci si trovava fatto anche lo scavo necessario alle fondazioni della fabbrica e alle cantine.

    Questa pietra, squadrata a mano, era impiegata prevalentemente per le strutture in elevazione e per gli archi e le volte, raramente a vista per le facciate perché teme il vento, ma non l’umidità che le è connaturata. Ha una buona resistenza alla compressione sopportando in sicurezza circa 8 kg su ogni centimetro quadrato, sebbene di molto inferiore a quella del piperno (150 kg/cm²) e simile a quella dei mattoni laterizi pieni (6 kg/cm²). Il largo impiego del tufo era dovuto alla leggerezza della pietra, circa 1700 kg a metro cubo, un peso specifico inferiore a quello della pietra lavica, il pesantissimo piperno (2900 kg/m³).

    Il piperno, pietra principe dell’architettura napoletana

    Altro materiale impiegato nell’architettura storica napoletana è il piperno. Dopo il tufo giallo, è la pietra largamente utilizzata per le sue caratteristiche fisiche e morfologiche che ne hanno consentito l’impiego, oltre che per funzioni prettamente architettoniche, anche per funzioni strutturali. In ragione delle sue proprietà meccaniche, veniva utilizzato soprattutto per componenti orizzontali, come architravi e balconi a sbalzo. Questo materiale – di disponibilità estrattiva relativamente limitata – è un prodotto dell’attività vulcanica dei Campi Flegrei, legato a un’eruzione verificatasi alla base della collina di Camaldoli.

    Il piperno è una roccia magmatica che nei secoli passati è stata di largo impiego nell’edilizia civile e militare, perché molto resistente all’usura e agli agenti atmosferici. Come il tufo giallo, è una roccia litificata ma di colore grigio e difficoltosa a estrarre. Le cave da cui vennero estratte le quantità occorrenti alla costruzione della Murazione aragonese e di molti palazzi di Napoli, si trovavano a valle della collina di Camaldoli; nelle zone degli antichi casali di Pianura e Soccavo, e nella vicina Quarto. Una pratica estrattiva attiva già nel secolo xiii. La richiesta di piperno fu così pressante che tra il Cinquecento e il Seicento queste cave non riuscivano a soddisfare le esigenze. L’estrazione era molto laboriosa perché prevedeva la separazione sotterranea dei grossi blocchi, che in seguito venivano lavorati. Una tradizione artigianale fondata sull’integrazione delle fasi di estrazione e di lavorazione della pietra, a cui corrispondevano due principali momenti: il primo, per opera dei tagliamonti, i quali, dopo aver estratto in cava il piperno, procedevano a spaccarlo in blocchi di dimensioni prossime a quelle dell’elemento finito e tali da essere trasportati con più facilità in cantiere, dove aveva inizio la seconda fase a cura dei pipernieri con le operazioni di sbozzo, profilatura e messa in opera finale dei conci. Il lavoro di questi artigiani lapicidi ha portato allo sviluppo di una scienza peculiare, quella del taglio delle pietre, una branca importante dell’architettura che viene detta stereotomia, termine coniato nel 1644 da Jacques Curabelle³¹, derivante dal greco solido e sezione. Questa scienza, apparentemente semplice, ha una sua complessità perché fortemente integrata da più saperi teorico-operativi quali la matematica e la geometria, la conoscenza dei materiali e del loro comportamento statico, nonché la pratica tecnico-costruttiva e cantieristica per la gestione in opera delle apparecchiature. La stereotomia racchiude conoscenze scientifiche necessarie alla realizzazione di particolari costruttivi fuori opera, in modo da posarli in cantiere come sorta di elementi prefabbricati secondo un preciso disegno progettuale degli elementi architettonici³².

    I pagamenti avvenuti a favore di pipernieri e tagliamonti ci hanno tramandato i nomi di molti di questi artefici lapicidi³³. Si tratta di maestri che si tramandavano l’arte praticata in famiglia, come i Conforti provenienti da Calvanico, una frazione di San Severino, nella valle del fiume Irno, ma anche da Cava de’ Tirreni, fucina di maestri di muro e lavoratori della pietra.

    Riguardo al marmo, Napoli stessa offriva maestranze abbastanza capaci. Nel Cinquecento, il marmo da impiegare per le logge, balaustrini, acroteri, colonnette, cornici e stemmi, si lavorava all’Annunziata, che era la strada dei marmorari per antonomasia³⁴. Qui si dava forma a elementi marmorei strutturali e ornamentali, che giungevano sul cantiere di costruzione pronti per essere montati. Ne sono prova evidente il balcone di Palazzo Carafa di Traetto ai Tribunali, come quello del Palazzo Dentice di Accadìa che si trova di fronte al Palazzo Como, ma l’elenco potrebbe continuare con il balcone di Palazzo Sangro di San Severo e tanti altri.

    * * *

    Il piperno si affermò prepotentemente come materiale di rivestimento di facciate perché proteggeva la struttura di tufo, molto vulnerabile allo sgretolamento. Diversi palazzi di Napoli sono stati impreziositi nella loro architettura con l’impiego del piperno, soprattutto per i portali, ma anche come valido sostituto del marmo adoperato perlopiù nell’Italia centro-settentrionale. Scrive il Carletti: «L’ammirabile di siffatte pietre, si è che non sono di tanto tenere, di quanto sono i tufi giallacei ed i nericci, che hanno la stessa origine, né di tanto dure, di quanto sono i marmi nelle loro diverse spezie […] Resistono i piperni per tempo lunghissimo, sempre che sono adoperati di corrispondenti grossezze a pari degli Edificj, ed agli sforzi degli Archi e delle Fòrnici»³⁵.

    Analizzando l’impiego di questa pietra vulcanica scopriamo la versatilità che ne ha consentito l’uso diffuso nella costruzione delle dimore napoletane. Innanzitutto, va considerato il principale utilizzo di questa dura pietra per la realizzazione del portale e delle cornici di balconi e finestre. Le stesse mensole sporgenti dei balconi e più raramente dei cornicioni, erano create con il piperno, che trovava largo impiego anche per la costruzione delle scale. Infatti, buona parte dei palazzi di Napoli hanno pilastri, archi e gradini di piperno. Ma anche stemmi, paracarri e spegni-torce. Riguardo alle pavimentazioni, oltre che per le soglie e i davanzali, il piperno è stato largamente usato per lastricare i cortili e le strade, sebbene adeguatamente lavorato a scalpello.

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    Il portale in piperno di Palazzo Firrao.

    Il suo aspetto ruvido e opaco, indicato per pilastri, lesene e cornici, era assicurato dal paziente lavoro dei lapicidi, che battevano per ore la superficie con un martello chiodato, detto bocciarda, dal che il termine bocciardatura, che indica quel tipo di lavorazione. Il trasporto di questo pesante materiale, che sfiorava il peso specifico di tre tonnellate per metro cubo, doveva impegnare dei grossi carri che partivano dalla cava con il materiale sbozzato e raggiungevano, più che il luogo di costruzione, il laboratorio dell’artefice, che portava a termine l’opera di scultura.

    Il palazzo che si trova all’imboccatura del vico Sedil Capuano, al numero 33, fa grande sfoggio di piperno a cominciare dal portale che reca scolpito in rilievo e pendente lo stemma dei Caracciolo, come anche il basamento e le cornici delle finestre che sono rinascimentali³⁶.

    È raro trovarsi di fronte a materiali di altra area geografica che non quella campana, eppure nella via del Duomo al numero 255, proprio di fronte al Museo Civico Gaetano Filangieri, c’è un palazzo che alla fine dell’Ottocento era in proprietà di Fabrizio Dentice, duca di Accadìa, e ancor prima della famiglia Grammatici³⁷. Nel cortile mostra i caratteri del secolo xv; vi è un portico murato con sopra due finestre rettangolari con stipiti in piperno e cornici dentellate. Gli archi del portico poggiano su colonne monolitiche di pietra serena, un materiale estraneo all’area napoletana e utilizzato quasi certamente da un artefice toscano che si è ispirato al modello fiorentino derivato dal Brunelleschi dello Spedale degl’Innocenti³⁸. La facciata possiede ben cinque balconi del Cinquecento sostenuti da mensoloni di piperno, uno di questi è di tipo rinascimentale, cinto da balaustrata in marmo, sporge oltre un metro. Questo verone sovrasta l’ingresso di una bottega e sull’acroterio centrale mostra scolpito lo stemma della famiglia Como, proprietaria del palazzo di fronte, oggi sede del museo fondato dal principe di Satriano. Si tratta di un palazzo costruito nel tardo Quattrocento da Giovanni e Fabio Como e le cui testimonianze tangibili sono visibili come già detto non appena si varca il portale seicentesco. L’esistenza del verone con lo stemma dei Como è testimoniata dall’immagine che ne dà il pittore Zampella, che lo ritrae coesistente al Palazzo Como ancor prima delle manomissioni che questo subì nel 1882³⁹. Quest’ultimo è un caso sparuto di utilizzo di un materiale venuto da lontano per espresso desiderio del committente o di un capace artefice.

    Le cave di piperno

    C’è una stretta relazione tra la denominazione attuale del borgo di Soccavo e quella risalente all’età ducale, quando l’abitato era denominato Suttuscuba, ma anche Succava, Sub cava, Succaus, Succavus. Tutti rimandano alla radice cava, in modo che è certa la relazione tra l’abitato e la cavità, tra gli abitanti e le attività estrattive del piperno⁴⁰. Soccavo e Pianura si trovano al margine tra l’area flegrea e quella di Napoli, uniti da un tortuoso percorso che si dirama partendo dalle pendici della dorsale di Posillipo, verso Pozzuoli, a occidente e verso Napoli, Neapolis, a oriente.

    L’abitato di Soccavo si trova sul versante sud-orientale dei Camaldoli, a valle di una parete tufacea molto ripida, che lascia leggere la stratigrafia geologica della collina di Camaldoli. Questi due antichi casali di Napoli, Pianura e Soccavo, avevano in comune una ricchezza mineraria costituita dai giacimenti di piperno, solo che l’attività estrattiva ha interessato più Soccavo (metri 90 s.l.m.) che Pianura (metri 160 s.l.m.), nonostante che le gallerie estrattive fossero più accessibili dalla parte di Pianura. L’esistenza delle cave che sfruttavano la risorsa litoide magmatica risale all’età medioevale, partendo dalla fine del Duecento. In un atto del 1271 è ricordata una cava comunale, e un’altra è datata all’anno 1328 e detta «de Olibano»⁴¹. A quest’ultima data sembra risalire la fondazione del nucleo originario di Pianura, che si formò dal sorgere delle case degli operai impiegati nell’estrazione del piperno⁴².

    Le cave di piperno di Soccavo e Pianura suscitano un interesse particolare per la fenomenologia vulcanica, che registra un fervore di studi scientifici a partire dalla fine del Settecento. Lazzaro Spallanzani (1729-99), abate e professore di Storia naturale nell’università di Pavia, compì nel 1788 un viaggio lungo la penisola italiana alla ricerca dei vulcani attivi. Accompagnato dall’abate Scipione Breislak (1750-1826), geologo e naturalista di origini svedesi, dedicò molte pagine dei suoi studi all’area flegrea⁴³. Breislak osservò che dal secondo cratere di Napoli, ovvero Capodimonte, parte il Monte Donzelli⁴⁴, una collina che si è sviluppata in direzione occidentale e che forma un considerevole rilievo culminante nel colle che fino al Settecento era detto Monte Camaldoli⁴⁵. Lo stesso Breislak individuò un vasto cratere tra Capodimonte e i Camaldoli, le cui pareti sono composte soprattutto da pomici e sostanze incoerenti. Qui i luoghi si presentano con profondi valloni, come quello di San Rocco, quello dei Gerolamini, evidentemente scavati dalle acque che per millenni vi sono scorse fluenti giù dal colle di Camaldoli. A sud-ovest di questo cratere vi è quello di Soccavo e a ovest quello di Pianura da dove «è sortita quella lava di cui si fa molto uso in Napoli nelle fabbriche e si chiama Piperno»⁴⁶. Una pietra che sebbene abbia un’analogia di parola con il piperino dei Colli Albani e Tuscolani, è molto diversa da quest’ultimo.

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    Veduta occidentale della strada di Chiaia in un’incisione di D.A. Parrino (da

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