Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Napoli velata e sconosciuta
Napoli velata e sconosciuta
Napoli velata e sconosciuta
E-book477 pagine6 ore

Napoli velata e sconosciuta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Luoghi e simboli dei misteri, degli dèi, dei miti, dei riti, delle feste

Non esiste altro insediamento urbano al mondo che abbia fatto parlare tanto di sé, eppure, sottraendo uno a uno i veli che vestono Napoli, è possibile scorgere ancora dell'altro, e quel che si scopre è sempre più avvincente. Circa tre millenni dopo la sua fondazione la capitale del Sud nasconde altri misteri? Qual è il segreto della sua nascita e il suo significato? In che modo la tipica struttura a scacchiera di Neapolis lega il maestro Pitagora a Vitruvio e a Leonardo da Vinci, tanto da farne il prototipo ideale della città perfetta? E quale fu il vero ruolo di Virgilio il Mago fino a tutto il XIV secolo, quando lo sconosciuto san Gennaro gli si avvicendò come paladino? Napoli velata e sconosciuta è una caccia al tesoro, un viaggio pirotecnico che arriva al fondo di ogni cosa, smonta luoghi comuni sedimentati dal tempo o inventati dalla faziosità dei denigratori. Questo libro procede seguendo un filo rosso di collegamento tra la città celeste e quella profana, e ne svela i segreti più profondi. Infine, s'interroga sulle mille vicende magiche e affascinanti raccontate all'ombra del Vesuvio, e si chiede come siano accadute, e si domanda innanzitutto il perché. E così, l'autore mette nelle mani del lettore chiavi interpretative insospettabili che pongono Napoli sotto tutta un'altra luce.

Vicende magiche e affascinanti all’ombra del Vesuvio: come sono accadute e perché?

Sirenissima Neapolis

• il canto che incanta: la parthenogenesi
• una scacchiera per incontrare gli déi
• la città perfetta: il modello di cosmogramma tra Pitagora e Vitruvio
• scetavaiasse e putipù per l’imperatore
• il Gymnasium, ginnastica per la mente
• il Locus Amoenus e i teatri dimenticati 

Miti, simboli e leggende della città nascosta
• la città porosa
• Virgilio, il verginello
• l’ovo cosmico: evitiamo una frittata
• il libro degli oracoli
• la crypta neapolitana
• tenet nunc Parthenope
•’o scarpunciello da’ maronna
• nel cuore della grotta, un dio
• Priapo e l’estasi divina
• gli antri e il sesso del Satyricon
• la madonna dal pede rotto
• i segni della festa delle feste
• orge e tarantelle ai piedi di Giano
Maurizio Ponticello
È stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de «Il Mattino». È autore del thriller La nona ora. Con la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che a Napoli…, Un giorno a Napoli con san Gennaro, Napoli velata e sconosciuta e, con Agnese Palumbo, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. Ha avuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio Domenico Rea. È presidente della storica associazione Napolinoir.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2018
ISBN9788822725226
Napoli velata e sconosciuta

Leggi altro di Maurizio Ponticello

Correlato a Napoli velata e sconosciuta

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Napoli velata e sconosciuta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Napoli velata e sconosciuta - Maurizio Ponticello

    INTRODUZIONE

    A una visione olistica

    della città velata

    L’insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio, ma la visione sarà di colui che avrà voluto vedere.

    Plotino, Enneadi, 6, 9, 4, 15-16

    Napoli è seducente.

    Eppure, ha un candore virginale assai raro di questi tempi. Specie per una città.

    Napoli è pudica.

    È un aspetto dissonante con l’immagine che, in genere, le si vuole attribuire di città-caos, di città-fogna, di capitale del regno dell’assurdo molto più che del possibile, sebbene proprio a Napoli assurdo e possibile possano collimare senza che nessuno si scandalizzi. Rimossi i primi veli intrisi di sangue, e quelli avvizziti dai luoghi comuni che le mozzano il fiato, in barba a come la si vede, in fondo al tunnel c’è una luce che abbaglia. La sua icona registrata dal mondo è polimorfa ma, alla fine, si concentra su pochi elementi, sempre gli stessi: se non c’è la pizza, suona il mandolino, e se manca Pulcinella c’è comunque il Vesuvio. E i napoletani? Quelli non possono mancare: un esercito di demòni vomitato dalle profondità più buie degli Inferi insieme a topi e a lazzari. «Attenti, attenti! Questi hanno conquistato un posto al sole, ma pur sempre all’ombra del vulcano!». Oltre la feccia, ci sono l’indifferenza e l’indulgenza borghese, che vivono ancora del (e sul) Novantanove o dei fasti borbonici. Sembrerebbe una cortina incapacitante, impossibile da diroccare.

    È proprio questa la ragione per cui siamo partiti alla cerca: di là del fango, c’è dell’altro. Molto altro.

    E ciò, nonostante i santoni abbarbicati alla Mela che, da un pulpito, sputacchiano sentenze come vecchi catarrosi. Tutto è nero, il nero è tutto: non c’è da fare. Non si può nemmeno più ingoiare amaro, per questi profeti dell’oscurità. «Arrendetevi, dovete morire tutti, e poi si dovrà passare una manciata di sale per le vie della città».

    Napoli non è tutta qui. Dietro le menzogne, e sotto le maschere, un tesoro: brilla un fuoco vivido che, per secoli, ne ha fatto la culla privilegiata della sapienza iniziatica del Mediterraneo.

    Napoli è virtuosa.

    La sua compostezza, per quanto si possa tentare di svelarla, non le consente di cedere alle lusinghe, e neppure al corteggiamento di chi la vorrebbe sguaiata e pronta all’uso, o a un abuso, com’è avvenuto più volte. Lei tiene sempre saldo un ultimo tulle, un arcano irrisolto chiuso nel forziere del tempo. Più le si scoprono veli, più torna raggiante, ma più si crede di averla messa a nudo e più spuntano vesti e pepli inimmaginati. E così via, forse all’infinito.

    È come una dama guerriera, di evi immemori.

    Ammaliante e indomabile, pur occhieggiando, respinge i pretendenti, ed è ribelle a sfilarsi il drappo estremo: quando sembra raggiunto l’intento, frappone sempre qualche altra cosa tra sé e il cercatore. Al principio, si presenta fascinosa, sobria e coerente, addirittura ammiccante con le sue cronache suggestive. Ti attrae, e poi, con un guizzo, fugge via lasciando tutti con un palmo di naso, con un mucchio di teli sparsi e vuoti, quando non con un pugno di mosche perniciose.

    Napoli non è stratificata solamente nel proprio impianto urbanistico, anche per arrivarle al cuore occorre andare di strato in strato, sempre più a fondo. Il suo nucleo vibrante è celato, e tale resta agli occhi indiscreti che hanno perso la fonte di Mnemòsine. Napoli non giungerà nuda alla meta. Né mai ci sarà una meta.

    Sondare i misteri di Napoli vale a dire scendere in profondità nelle sue viscere buie, portarvi luce e rintracciarvi l’anima. Man mano che ci si cala al suo interno, il pericolo di rimanere intrappolati nei meandri, nei vicoli e nelle sue cavità ciclopiche è maggiore. L’alternativa è rimanere frastornati dal soave canto delle Sirene, che è pur sempre una melodia assassina. I suoi labirinti, affacciati su mille porte, rappresentano ognuno una verità, e ciascuno un mistero che apre o chiude un mondo di archetipi.

    Il mosaico napoletano è composto di migliaia di tessere. Sono tutte variopinte: non ce n’è una sola che non abbia colori smaglianti e sfumature memorabili. La difficoltà consiste nell’abbinarle per tono e per affinità, trovare la combinazione corretta e, non ultimo, verificare e incastrare i percorsi tracciati dagli altri studiosi che ne hanno parlato: la produzione di saggistica sulla materia delle tradizioni napoletane è molto più ricca che su altri luoghi. Gran parte di queste trattazioni, però, spesso è in copia carbone, o è inesatta, oppure cita fonti in modo maldestro e incompleto generando un guazzabuglio. Non è un’aberrazione soltanto dei nostri tempi poiché, se nelle epoche più addietro incapparono in errore Benedetto Di Falco, il giureconsulto Fabio Giordano e Giovanni Antonio Summonte, alla fine sbagliarono a ruota quasi tutti i successivi, perché è da loro che attinsero le informazioni. E ciò va di pari passo con il fenomeno del plagio, neppure questo una esclusività contemporanea: già alla fine del Cinquecento ci fu un caso clamoroso che finì nei tribunali e, con quelli, all’epoca si scherzava poco. L’erudito Tommaso Costo, indignato, accusò pubblicamente Scipione Mazzella di aver scritto un libro su fonti di altri senza citarli, e ne rivendicò la proprietà intellettuale. Costo espresse il proprio biasimo addirittura nel sottotitolo di un suo tomo: Ragionamenti di Tommaso Costo intorno alla Descrittione del Regno di Napoli e all’Antichità di Pozzuolo di Scipione Mazzella. Per li quali e con ragioni, e con autorità verissime si mostra, non pur esser molti errori, e mancamenti in quelle due opere, ma che le medesime son tutte cose copiate puntualmente da gli scritti altrui¹. Fu, chiaramente, uno scandalo che inaugurò una battaglia d’inchiostro tra confutazioni, precisazioni e denunce di diffamazione. Nel bailamme, il polemico Costo tirò in mezzo anche Summonte, segnale che questa barbara abitudine, ancorché senza raggiungere i vertici della polemica con Mazzella, era un’usanza acquisita. Se quella fu ufficialmente la prima volta, in seguito le guide per i forestieri si clonarono fra loro finanche nei titoli, figuriamoci nell’inesattezza delle informazioni. Ai tempi di internet, all’imitazione si sono aggiunte le fake news: non è accaduto soltanto una volta che ci siamo trovati a verificare fonti che, addirittura, si sono dimostrate palesemente false.

    Come se non bastasse la confusione generata dalle sovrapposizioni storiche, anche le interpretazioni risultano per lo più infondate e caotiche, specialmente quando salta agli occhi che non sono chiare nemmeno le differenze tra mito e leggenda. Da questo punto di vista, le opere scrupolose, ed effettivamente attendibili, sono rare. La copia di una copia resta un falso, e Napoli, per decenni considerata la Patpong del Vecchio Continente, per certi versi, continua a essere il reame delle illusioni e della patacca e, perché no, sovente è un pacco anche in termini di cultura.

    Le origini antichissime della città sono la sorgente di quasi tutti i miti e le leggende rivisitate e poi amplificate in epoca medievale. A causa della peculiarità e dell’accavallamento degli argomenti, per indagare, bisogna tentare di muoversi a trecentosessanta gradi. Solamente così è possibile tracciare un percorso che abbia una coerenza e una veridicità attendibile. E questo vale anche di più per il tema delicato che abbiamo scelto di affrontare poiché la prospettiva che ci siamo posti è sub specie interioritatis, cioè l’osservazione degli aspetti più profondi e sottili della realtà napoletana: un ordito a volte impalpabile e persistente a ogni sollecitazione.

    Il mitologo Kerényii sosteneva che «il divino sceglie spesso quale sua forma di espressione la poesia o la musica, anche se – come la storia umana dimostra – preferisce la mitologia»². Il racconto del mito in sé può essere letto semplicemente come una storia, più o meno bella, come una favola avvincente e intrigante, buona per i nipotini, e poi mollata lì, a cullare i sogni di un bambino. Dal canto nostro, però, più che una favoletta, o una metafora di avvenimenti e fenomeni cosmici, il tema mitologico è l’espressione spirituale di un popolo, una visione del mondo dalla quale esso proietta la propria immagine nel fiume del divenire storico. E ha una importanza vitale per comprendere le dinamiche dell’alto e del basso che si parlano fra loro.

    All’origine di questa incursione nella Napoli velata, c’è l’interpretazione di certi miti incarnati nella realtà partenopea. Le tessere del puzzle da far combaciare sono davvero tante e, per arrivare al cardine vitale, è stato necessario navigare a vista e, successivamente, a naso in acque sconosciute e districare il significato occultato delle storie e il loro senso anagogico, quello, cioè, su un piano diverso e più alto delle narrazioni. Nel mondo greco, e così in quello della Roma antica, il mito (parola) diventa rito (azione), poi si trasforma in culto e infine in leggenda popolare e sopravvive nelle forme – e alcune volte nella sostanza – delle celebrazioni delle feste e nel folclore. Più che raccontare, rispolverare e restituire nella loro integrità originaria le vicende dimenticate del popolo partenopeo, il nostro interesse è stato tentare di andarvi dietro per ottenere un’altra prospettiva, e conoscere la loro faccia nascosta che svela le motivazioni di una cronaca o di un racconto epico. Oltre a esporre i fatti, quindi, abbiamo indagato sul come e, innanzitutto, sul perché. Abbiamo preferito porre in primo piano le motivazioni giacché andare alla ricerca delle cause significa inseguire la funzione coesiva che tiene tutto insieme.

    Il libro è diviso in due parti: la prima affronta tematiche di ordine generale (macrocosmo), tra cui il mito della fondazione, i caratteri nascosti della Sirena eponima, e la cifra sacra su cui nacque la città nuova; la seconda, invece, stringe pian piano il cerchio sul microcosmo e mette a fuoco alcuni dettagli presi a modello per esplorarli secondo il principio esoterico delle considerazioni da dentro e le considerazioni da fuori. Unire il macrocosmo al microcosmo significa connettere la natura densa, e umana, a quella sottile che caratterizza il piano ultraterreno: il Sé con il divino.

    Il criterio d’indagine che abbiamo adottato è noto come il Metodo Tradizionale: muove dalle fonti originarie disponibili, mette insieme mito e storia e privilegia il linguaggio arcano del simbolo e della mitologia per interpretare la storia, tanto più che spesso le fonti hanno perso la parola per svelare gli aspetti più nascosti, che sono sempre il motore del mondo. Le conoscenze spirituali di un popolo costituiscono un indicatore di direzione, sottintendono le motivazioni, marcano il perché ancora prima del come. Gli avvenimenti storicizzati sono, per lo più, un’epifania delle materie di provenienza divina e non il contrario perché, viceversa, ne deriverebbe una definizione arbitraria e predefinita della realtà, la quale potrebbe modificare l’essenza stessa dei racconti mitologici e leggendari. Porre in primo piano gli archetipi, e cioè i modelli con cui nell’antichità le genti esprimevano la propria trascendenza e si mettevano in collegamento diretto con il sacro, vuol dire, per esempio, concentrarsi sull’aspetto religioso da cui discendeva quello economico: in altri tempi, infatti, l’economia era subordinata allo spirito. In qualche modo, lo stesso Jung si affidò a questo tipo di approccio, ma lo psicanalista si limitò a entrare nell’universo mitico-simbolico per arrivare a definire l’inconscio individuale e collettivo. Il Metodo Tradizionale consente un approccio totalmente differente a qualsiasi studio di genere, e può portare a conclusioni, a volte, diametralmente opposte rispetto a quelle correnti.

    Gli uomini moderni mostrano una presunzione davvero singolare quando pensano di essere indefettibili e i migliori che la storia abbia sfornato, e che tutto il resto sia retrogrado, una minestra riscaldata, antidiluviana, eccentrica e selvaggia. Scrutano il passato con sguardo saccente, convinti che la tivù smart, il satellitare, la conquista del cellulare e della luna li abbia resi i più grandi: il progresso di cui si vantano, li ha messi su un piedistallo dal quale giudicano con spocchia i giochini rudimentali di esseri umani primitivi, e perciò ritenuti infantili. Se si vuole intuire ciò che s’intendeva un tempo con quella o quell’altra rappresentazione, occorre, piuttosto, cercare di ragionare con la testa e la sensibilità degli antichi, e non dei moderni. Per dirne una, in tutte le civiltà tradizionali, il rito non era concepito come una cerimonia vuota, un’azione per tributar lode o a fini propiziatori di una divinità, bensì era un’operazione con esiti reali nelle vicende umane, un intervento di persone qualificate e con il sacro fra le mani (sacerdoti) per ridare vigore ai contatti con il trascendente, e determinare effetti nel mondo degli uomini: una ri-attualizzazione dell’epifania sacra. Se non si prova a usare la loro testa e a entrargli nel cuore, si rischia il depistaggio, ci si sofferma su pregiudizi intellettuali e non si accede allo spirito del mondo arcaico.

    Abbiamo cercato di penetrare in questo mondo di sabbie mobili gradualmente, con rispetto e passo felpato. Abbiamo tentato di alzare un candido peplo di Parthenope a mo’ di vela e di legarci alla nera nave di Odisseo per solcare i mari in questa navigazione perlustrativa, e immergerci tra i flutti di un gioco di scatole cinesi a più livelli, di ragnatele, di labirinti intrecciati di miti, di culti, di leggende, di storia e di storie: una matrioska allo specchio.

    Quello che proponiamo è un viaggio funambolico e interdisciplinare nel quale s’intessono l’antropologia, la storia delle religioni comparate, la storia dei costumi, la letteratura, la storia, la sociologia, l’etnologia e anche la filologia e la glottologia. Queste materie, insieme con l’interpretazione dei simboli e dei miti che li contengono, rimbalzano in ordine sparso e sospingono il ricercatore dall’una all’altra sponda nel tentativo di trovarne il giusto filo che ha nelle mani la Signora del labirinto, Arianna, l’amata di Dioniso. Il filo, invisibile, che tiene il tutto, è la Scienza Ermetica: la chiave di lettura, la Sirena che incanta e inganna.

    Questa natura divina, per definizione, si nasconde. Abbiamo tentato, però, di suggerire una via d’accesso per porsi in collegamento con essa, una interpretazione che sfronda – e ripulisce – una costellazione di guide del mistero le quali – forse casualmente – hanno portato sensibili deviazioni al percorso di chi ha cercato di affrontare l’esplorazione. Qui, invitiamo espressamente a una lettura diversa della città magica, a una sua visione olistica e al mettere la Napoli dei misteri in relazione con la natura sottile degli esseri umani perché, anche attraverso i glifi incisi in ogni angolo della città, è possibile assumere una consapevolezza interiore diversa. Napoli è un libro con centinaia di capitoli scritti nelle pietre, è la testimone cristallizzata di una sapienza ancestrale e, anche se non bastasse una vita per farlo, bisogna imparare a leggere il linguaggio dei simboli senza perdersi nelle fantasie che essi suscitano. Una delle maniere preferite delle tradizioni primordiali per trasmettere la conoscenza metafisica è stata la via dei segni: i simboli, quindi, una grafica sintetica che custodisce un significato universale e un archetipo cui connettersi per schiudere una soglia tra i mondi. È bene essere chiari, e disinnescare ogni illusione per non farla facile: i simboli, oltre a essere una chiave maestra, sono una serratura.

    Tra i tanti primati che vanta Napoli, ce ne è uno misconosciuto: essa è una città magica, e lo è da sempre, ben prima, cioè, di Lione, di Torino, di Praga o di Londra che, al cospetto della metropoli della Sirena, sono delle parvenu. Spesso, questa peculiarità è confusa con un’altra affatto secondaria che è quella delle superstizioni, ovvero la degenerazione folcloristica di alcune conoscenze dell’antica magia popolare della quale è sopravvissuta l’esteriorità, che induce allo scherno gli ignoranti. Non si dovrebbe mai dimenticare che, in questo stesso territorio, c’è un sotto e c’è un sopra in cui coabitano i morti e i vivi, e che i diaframmi sottili che si frappongono tra loro sono frequentemente valicati dall’una e dall’altra parte; e che, dietro una forma, c’è sempre una essenza. Il culto dei morti foraggia quello dei vivi, e i vivi nutrono i defunti. Per questo, il senso della fine pervade la città, ma vivere con la Morte che ti guarda rende la vita più leggera. Per un napoletano, ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, e questa non è filosofia spiccia ma una realtà, unica in Europa, che ha attirato i più grandi studiosi e li ha fatti interrogare sul senso della fatalità. Pure il patrono principale, san Gennaro, sovrintende alla vita e all’aldilà, e reitera un ciclo di morte e rinascita. È un retaggio di cui è difficile disfarsi, la stessa Chiesa ci ha sbattuto il naso, per fortuna. Anche in questo senso, il nostro studio è un tentativo che porta ad alcune risposte e pone delle nuove domande, e perciò lascia molte porte aperte e non sigilla con alcuna parola fine una storia tutta ancora da scrivere e da vivere.

    La prima edizione di questo libro fu pubblicata circa una dozzina di anni fa, e fu il nostro esordio sulla scena letteraria. Uscì pressoché in contemporanea con un altro titolo che dipingeva Napoli e i territori limitrofi con tinte più fosche del nero. Quasi in antitesi, come se da qualche parte ci fosse un disegno divino, Napoli velata fu accolto come un raggio di speranza da certa stampa la quale osservò che, oltre a quello del Male assoluto, esiste un volto differente, un aspetto solare dimenticato da evocare e rivalutare per combattere le forze delle ombre in marcia. Da allora, sono trascorsi molti anni, e qualcosa è cambiato. Oggi, la camorra è sempre lì a mordere, ma a volte sembra auto-confinata in un ghetto mentre si combatte per gestire al meglio il turismo che è tornato, e fa presagire fasti da moderno Grand Tour; e, per quanto il centro storico appaia sempre più come un bazar fuori controllo, i reperti archeologici – una delle componenti ricche di Napoli – quasi non fungono più da mensole per ambulanti. Sebbene certi aspetti non siano mutati per nulla, e alcuni modelli d’infamità siano diventati di celluloide, una nuova coscienza si aggira tra le nostre pietre che parlano e cantano, un’attenzione tutta differente che fa auspicare un futuro diverso.

    Nella prima introduzione al libro, l’amico studioso di religioni e tradizioni Stefano Arcella scrisse che l’autore non doveva rendersi conto dell’opera rivoluzionaria che aveva portato a termine, ed effettivamente così era, all’epoca. «Quando si è dentro una ricerca», aveva scritto, «è difficile osservarsi dall’esterno, leggere il proprio libro come se fosse quello di un’altra persona. Poi il libro viene pubblicato, e si ha la sensazione precisa che ormai viva di vita propria, lo si guarda con maggiore distacco; appartiene già al proprio passato, si è proiettati oltre, verso nuove mete di ricerca e di creatività. L’Autore, col quale ho avuto modo di parlare a lungo di questo suo lavoro, è consapevole (ma forse non del tutto, proprio perché è psicologicamente coinvolto nella sua elaborazione) che questo suo libro sulla Città Velata – su questa Napoli che ama nascondersi, coi suoi Misteri e coi suoi miti, i suoi riti e le sue feste, che si vela e rivela, in un giuoco di luci ed ombre che si alternano – è svolto con un approccio metodologico del tutto diverso e particolare, che è poi il profilo più originale di questo studio, una originalità che si riverbera sulla interpretazione di alcuni aspetti centrali della religiosità dell’antica Neapolis ed anche della Napoli più recente».

    In quest’ultimo decennio, abbiamo dovuto dare ragione alle parole premonitrici dello studioso, ci siamo accorti che, infatti, il libro sul dietro le quinte della città dei misteri ha rivoluzionato molte interpretazioni precedenti, e ha anche levato un tappo alla sete di una verità che andasse oltre i luoghi comuni generando una nuova pubblicistica, spesso clonata e di saccheggio, ma pur sempre diversa. Uno dei motivi che ci ha spinti a rivedere e a ripubblicare questo testo, è il medesimo di allora. A quel tempo, infatti, decidemmo di trascrivere la nostra visione dei fatti giacché non si faceva altro che leggere imprecisioni e interpretazioni fuori luogo, per di più la maggior parte delle volte dettate da interessi di cupole e di parrocchie. Da un po’, si pubblicano di nuovo testi acritici, scopiazzati di qua, di là o da noi, che mancano di anima. Pensiamo sia opportuno ripristinare un equilibrio che si sta di nuovo perdendo, ristabilire il giusto ordine dei fatti e, con questa edizione, prendere le distanze dai plagi rivendicando una primogenitura, ancorché non esclusiva. Non solo: da qualche anno, a Napoli pullulano gruppi di guide turistiche mai viste prima, che vendono pacchetti esoterici e affittano escursioni misteriche, raffazzonate perché poco ne sanno, ma oggi il mistero tira, e bisogna risucchiarne l’anima fino a edulcorarlo e a sottrargli ogni vitalità. Così, qualche buontempone aveva pensato addirittura di predisporre una segnaletica esoterica per indicare i luoghi pregni di energia della città, senza comprendere che, in questo modo, sarebbe stato meglio parlare di essoterismo, perché quella esse di più serve per capovolgere il senso di segreto.

    Dopo esserci misurati con il mistero più alto che possa aver prodotto la nostra terra, san Gennaro & Co., ci è sembrata un’occasione eccezionale l’opportunità di ripartire da zero con un nuovo ciclo e riscrivere questo libro il quale, con i propri contenuti – e, non meno, con il proprio titolo –, ha lavorato tanto sull’immaginario collettivo attirando attenzioni anche teatrali e cinematografiche.

    In questa versione aggiornata, ci sono capitoli nuovi, approfondimenti, un linguaggio più diretto e un controllo ulteriore delle fonti, un passaggio da noi sempre considerato fondamentale per far sì che un libro, benché provocatorio, sia preso sul serio. Siamo coscienti che, per una certa branca della cultura formale – quella accademica, per esempio –, il nostro lavoro è funzionale perché propone collegamenti acrobatici ma inediti e certificati. Siamo altresì consapevoli che tutto ciò serva a formare un pozzo al quale attingere informazioni senza riconoscimenti: sarebbe uno smacco troppo grande dare credito a uno sconosciuto accademicamente non titolato, e questo perché i luoghi autorizzati sono malati dentro, nelle dinamiche del potere baronale e del servaggio, e in questo dovrebbe essere da insegnamento la storia di Tommaso Costo cui abbiamo accennato prima. Il fatto di essere usati, e mai citati, facendo credere che tutto ciò non sia mai esistito, perché metterebbe in crisi lo stesso ruolo della ricerca ufficiale, è motivo di sorriso.

    Abbiamo ritenuto fosse il momento giusto per riprendere le fila tessute anni addietro, e ribadire che un’anima ce l’ha questa città da primati, e che molte sue storie ne sono soltanto una manifestazione. Quindi, dal nostro punto di vista, non basta raccontarle, e non basta nemmeno scovarne di inedite: bisogna provare – almeno provare –, a dar loro un senso. Ecco perché questo libro è il primo e l’ultimo, ma anche il motivo per cui esso è di nuovo il primo.

    1 T. Costo, Ragionamenti di Tommaso Costo intorno alla Descrittione del Regno di Napoli e all’Antichità di Pozzuolo di Scipione Mazzella, Stigliola, Napoli 1595.

    2 K. Kerényi, Religione antica, Adelphi, Milano 2001, p. 35.

    1. SIRENISSIMA NEAPOLIS

    1. Il canto che incanta: la Parthenogenesi

    Nell ’ amphithèatron naturale del golfo, brilla l ’ insediamento di Napoli. È un théatron calzante, osservarono gli antichi: cioè, un luogo perfetto per accogliere gli dèi. Tra l ’ altro, è pure il lido del Genius loci , come disse il poeta Papinio Stazio ³, o il litorale eletto dalle divinità.

    Ed è proprio da qui, e con questa premessa, che deve incominciare il nostro racconto.

    Napoli è la città nuova: Nea-polis. Fu chiamata così per differenziarla da Palaiàpolis, alla greca, (poi Palaèpolis in latino) da noi conosciuta come Palepoli, la città vecchia. Da un certo momento in poi, la città greca e quella romana furono una cosa sola. Come una sola cosa furono Parthenope e Neapolis, l’insediamento che nasce dal mito e quello che ha nei propri colori gli stessi dell’Urbe (il porpora e l’oro) con cui conservò sempre un rapporto privilegiato. Qui, si parla una lingua che è più lingua che dialetto e, ancora oggi, è un cocktail di espressioni, per lo più spagnole e francesi, ma la cui ossatura è composta fondamentalmente dal greco, poi dal latino⁴. Nel 326 a.C., con il foedus Neapolitanum, il patto sancito con Roma, la colonia ellenica salvò la libertà di culto e di espressione, ma anche il proprio idioma.

    Nel monumentale Ab Urbe Condita, Tito Livio trovò spazio anche per scrivere della cinta urbana che abbraccia il mare dai piedi del terribile e meraviglioso vulcano attivo, l’amato e temuto Vesuvio, ’a Muntagna, o Isso, per paragonarlo con rispetto a un dio con cui mantenere un rapporto di affetto e reverenza. «Non lontano dal luogo dove oggi è situata Napoli, sorgeva Palepoli; nelle due città abitava il medesimo popolo»⁵, scrisse Livio mettendo in chiara relazione i due siti abitati, uno più antico e l’altro più moderno. Più avanti, la narrazione dello storico latino tocca la guerra con i sanniti, la loro «ignominiosa» cacciata dalla località costiera e la fuga dei nolani mentre i greci conquistavano l’alleanza di Roma con una resa strategica: «[…] il trattato con Napoli (il foedus Neapolitanum, n.d.a.) – poiché divenne questo in seguito il centro principale del mondo greco – rende più verosimile il fatto ch’essa sia giunta spontaneamente a un accordo»⁶.

    La continuità storica tra i due fulcri all’ombra del Vesuvio, uno sulla costa e l’altro più interno, è evidente dalle stesse parole dello storiografo il quale, pur riferendo di nuclei differenti, li assimilò per genesi e vicende in comune. Non fu certamente una casualità che, alla fine del conflitto, l’alleanza stipulata dai romani vittoriosi fu detta foedus Neapolitanum anziché Palaepolitanum, proprio a voler fare intendere l’importanza che aveva già acquisito la città di costituzione più recente la quale, ormai, rappresentava anche la vetusta Palepoli. L’autonomia della Napoli accomunata a Roma incluse la possibilità di coniare una moneta indipendente, e al popolo lasciò intatte le proprie tradizioni, l’espressione linguistica, i costumi e perfino i culti.

    Anche duecentocinquant’anni dopo la firma del patto, nel 90 a.C., Napoli – quando accettò il diritto di cittadinanza romana offerto a tutti gli italici per mezzo della lex Julia, e diventò municipium e successivamente colonia⁷ – serbò l’autonomia della lingua greca addirittura nella formulazione degli atti pubblici. Tuttavia, la perdita dell’onorificenza di Civita foederata provocò una dura quanto inutile reazione dei neapolitani, e ciò sebbene fossero state mantenute integre le sacre liturgie dei padri: nulla s’intaccava della sua integrità. Benché si temessero perdute, infatti, furono conservate finanche le tradizioni elleniche che si affiancarono – o si sovrapposero, quando coincidenti – a quelle romane. Neapolis, in un certo senso, fu sempre estranea alla vita politica dell’Urbe. Del resto, checché se ne dica, Roma riconobbe costantemente ampia libertà di movimento e sostanziale autodeterminazione alle proprie colonie.

    Ciò che, da questo punto di vista, accadde a Napoli è stato chiarito da diversi storici: la lingua greca annunziava ai cittadini il «ricevuto benefizio»⁸, mentre l’autorità pubblica si avvaleva del latino e serviva ad autenticare gli atti che, per lo più, continuarono a essere redatti nella lingua madre. Secondo il parere dei glottologi, il lungo percorso di latinizzazione linguistica di Neapolis fu completato solamente nel v secolo d.C. Oggi, però, con un senno diverso del poi, potremmo asserire che tale processo di omogeneizzazione della lingua non è mai avvenuto o, per lo meno, considerando quante parole napoletane abbiano un etimo più greco che latino, mai si è pienamente compiuto.

    A parte ogni altra discussione, pur spostandosi al nuovo nucleo urbano, Napoli ha sempre mantenuto immacolati i propri riferimenti nativi, e perciò era – ed è – innanzitutto Parthenope, la Vergine: non soltanto una città, ma quasi un nume identitario con il quale identificarsi, se volessimo usare una terminologia moderna. Il mito delle origini fa chiaramente comprendere che le prime mura sorsero sul sepolcro di una delle tre Sirene: la vergine nera Partenope.

    Lo storico Julius Beloch, scriveva:

    È possibile ma non probabile, che la città e la dea fossero effettivamente omonime. Infatti Parϑenoph, ‘colei che ha la voce di fanciulla’, inizialmente dev’essere stato il nome della Sirena, e non quello della città passato poi alla divinità tutelare. Come antico nome della città viene fatto inoltre quello di Phaleron, sia pure nella tradizione tarda di Licofrone. […] Tuttavia è troppo rischioso accettare, sulla base della sola autorità di Licofrone, che Phaleron sia stato il più antico nome di Napoli⁹.

    A proposito dell’antico nome Falero, è vero che su un argomento così importante è difficile passare per buona un’unica fonte, tant’è che i rilievi più recenti hanno poi ipotizzato che con questo toponimo s’indicasse solamente un piccolo borgo affacciato sul mare, ed è comunque una realtà tra storia e leggenda di cui riferiremo meglio da qui a poco. D’altronde, risponde a verità anche che un’idea di comunanza già deriva dal fatto che il porto più antico di Atene era, per l’appunto, chiamato Falero, e Napoli, senza esagerazioni, per molteplici motivi potrebbe essere definita la gemella corrispettiva della capitale greca in terra italica. Anche un altro aspetto, ancora mai sollevato, collega la triangolazione Atene-Falero-Neapolis: in nome di Dioniso, nel più importante scalo greco si celebravano le Oscoforie, caratterizzate da una processione che partiva dal santuario del dio e arrivava all’area portuale trasportando tralci carichi di grappoli d’uva. La cerimonia si teneva nel periodo di vendemmia, all’inizio del mese che i greci chiamavano Pyanopsìon il quale, secondo il calendario attico, corrisponderebbe all’incirca al nostro ottobre se non fosse che, calcolando le frequenti sfasature astronomiche dei calendari e i vari aggiustamenti, si arriva a determinare che capitava nei giorni dell’Equinozio di autunno¹⁰: un tema che troveremo con una certa ricorrenza nelle storie di Partenope e di Neapolis, specie quando stringeremo la messa a fuoco sulla Festa delle feste¹¹.

    Per parlare di fondazione, comunque la si voglia mettere, e a prescindere dalle polemiche storicistiche su Phaleron e Parthenope, non ci si può esimere dal cercare di penetrare nel senso occulto del mitologema che contraddistingue la nascita di Napoli: così forte, vitale e pregnante da risultare una presenza ininterrotta per oltre duemilaseicento anni. Per di più, questo è un dato da prendere con circospezione poiché, al di là di ogni evidenza storica – sempre e comunque incerta –, se ci basassimo sui racconti di Omero, il primo insediamento potrebbe essersi compiuto non oltre il ix e l’viii secolo a.C. Anche in letteratura, dopo Dante – che, nella Divina Commedia, incontrò a più riprese le Sirene –, il mito è stato spesso raccolto a piene mani, giacché nulla è mai riuscito a seppellirlo definitivamente.

    Nel corso della storia, la Sirena è ricomparsa più volte nelle cronache: a intermittenza, a volte si è palesata senza preavviso, e in altre la sua presenza è stata più stabile, e comunque sempre come se un filone occulto fosse stato serbato ininterrottamente per millenni. A questo proposito, sono particolarmente interessanti le parole di Jacopo Sannazaro con cui, in età aragonese – e cioè all’epoca in cui il nuovo culto di san Gennaro, con la riscoperta delle reliquie dimenticate a Montevergine, era inaspettatamente in ascesa –, sinteticamente il poeta suggellò la fondazione della città, quasi a rivendicarne la primogenitura:

    Napoli, sì come ciascuno di voi molte volte può avere udito, è ne la più fruttifera e dilettevole parte di Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia. La quale da popoli di Calcidia venuti sopra le vetuste ceneri de la Sirena Partenope edificata, prese et ancora ritiene il venerando nome de la sepolta giovene¹².

    La tradizione vuole che le Sirene fossero tre, tutte dotate di ali e tutte considerate della medesima triade: oltre Partenope, c’erano Ligea, dalla voce chiara, e Leucosia, la bianca. Uno dei testi più antichi a parlarne è anche uno dei meno consultati e dei più sconosciuti. Si tratta di un poema scritto all’incirca nel iv secolo a.C. del poeta Licofrone di Calcide che narrò delle profezie di Alessandra, figlia di Priamo, il re di Troia. Tra l’altro, vi si racconta in che modo le tre figlie della più bella tra le nereidi, abili nell’imitare il dolce canto della madre Teti, si suicidarono lanciandosi con un salto dall’alto di una rupe, e come furono trasportate a pelo d’acqua dai flutti del mar Tirreno:

    L’una, rigettata sui lido dalle onde, accoglieranno le mura di Falero e la terra bagnata dalle acque del Clanio¹³; e là le genti del paese costrurranno la tomba della fanciulla, e a lei, Partenope, l’alata diva, con libazioni e sacrifizi di bovi renderanno annui onori. Sul promontorio Enipeo sarà rigettata Leucosia e il suo nome resterà all’isoletta per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1