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Napoli esoterica e misteriosa
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E-book367 pagine2 ore

Napoli esoterica e misteriosa

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Info su questo ebook

Il lato occulto, maledetto e oscuro della città della sirena

Napoli esoterica e misteriosa è una guida leggera e godibile per chi vuole indagare il mistero in cerca dei lati nascosti della città della sirena. Una città in cui energie di antichi culti permeano ancora le mura dei gloriosi palazzi del centro storico, affacciati sui decumani e i vicoli di epoca greco-romana; fluidi arcani aleggiano tra chiese – costruite su templi pagani –, edifici nobiliari, chiostri e catacombe; saperi e simboli emergono lungo un percorso labirintico attraverso le strade di una città mai banale. Per cercare di immergersi in questo mondo fatto di leggende e storie inquietanti, Martin Rua propone quattro itinerari da percorrere a piedi e un quinto dedicato alla cucina esoterica; passeggiate nelle quali Rua accompagna il lettore – curioso, esperto o dilettante che sia – tra le grotte Platamonie e le vestigia della Neapolis dove visse Virgilio, la Cappella Sansevero e gli antichi riti legati alla sfogliatella. Brevi ma intensi viaggi alla scoperta di quel che pulsa sotto la superficie della quotidianità, durante i quali il lettore ritroverà le tracce del passato mitico di una città che non ha mai dimenticato le proprie radici magiche. Con attenzione alle fonti più antiche, ma anche a studi più recenti, Martin Rua guida, dai quartieri del centro fino al mare di Mergellina, il lettore che desideri scoprire il lato occulto, maledetto, oscuro di una città così varia che non smette mai di sorprendere.

Un viaggio per scoprire il lato nascosto di una città che non smette mai di sorprendere

• Il monte Echia, le grotte Platamonie e il Castel dell’Ovo
• Piazza del Gesù Nuovo: tra statue che cambiano aspetto e palazzi maledetti
• La Cappella Sansevero, eredità di uno che la sapeva lunga
• Via Mezzocannone: “Orione” e la setta dei Figli di Nettuno
• Forcella e i “riti” del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano
• Le catacombe della Valle dei Morti
• Dai dolci licenziosi in onore di Priapo alla sfogliatella

e tanti altri argomenti...
Martin Rua
È nato a Napoli dove si è laureato in Scienze Politiche con una tesi in Storia delle Religioni. I suoi studi si sono concentrati particolarmente su Massoneria e alchimia. Dopo un viaggio a Praga e poi a Chartres ha dato vita a Lorenzo Aragona, il personaggio dei suoi romanzi, in bilico tra avventura ed esoterismo. Ha iniziato come scrittore auto pubblicato arrivando a vendere migliaia di copie del suo ebook in poche settimane. Per la Newton Compton ha pubblicato Le nove chiavi dell’antiquario, La cattedrale dei nove specchi, I nove custodi del sepolcro, capitoli della Parthenope Trilogy e, in ebook, La fratellanza del Graal.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2015
ISBN9788854187795
Napoli esoterica e misteriosa

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    Anteprima del libro

    Napoli esoterica e misteriosa - Martin Rua

    364

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8779-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: Alessandro Tiburtini

    Foto: © Shutterstock Images

    Martin Rua

    Napoli esoterica e misteriosa

    Il lato occulto, maledetto e oscuro della città della sirena

    A Maria Grazia e Mario

    Napoli esoterica… vent’anni dopo

    Nel 1996 Newton Compton pubblicò una serie di libretti su Napoli – non più di un centinaio di pagine ciascuno – al prezzo quasi simbolico di mille lire. La collana ebbe grande successo, perché tra studiosi di varie discipline, giornalisti e appassionati, si riuscì a mettere insieme una piccola biblioteca preziosa per chi, come il sottoscritto, voleva avere un’infarinatura sulla città della sirena.

    In realtà si trattava di più di un’infarinatura.

    Alcuni di quei volumi erano veri e propri tesori, nei quali si potevano trovare curiosità in genere snobbate da libri di storia, di architettura o di antropologia in uso, per esempio, nelle università.

    Personalmente ho tutta la collezione, ma il libro che più di tutti ha letteralmente segnato la mia vita è sicuramente Napoli esoterica. Nel 2000, in compagnia di altri amici, tra cui il mio mentore Nicola di Martino, archeologo e tuttologo, organizzai una serie di visite guidate per l’Archeoclub del Golfo di Napoli e Isole Partenopee, un itinerario nella Napoli dei misteri. Guidati da quel piccolo libretto, da Napoli esoterica della Newton, provammo a mettere insieme delle tappe, ma dopo un po’ ci sembrò assai più efficace contattare direttamente l’autore, che sembrava saperla lunga. Fu così che, nel marzo del 2000, conobbi Mario Buonoconto, ovviamente davanti a una tazza di caffè.

    Herr Professor – come lo ribattezzò Nicola – aveva la stazza di chi ne capisce di cucina (non a caso era membro dell’Accademia Italiana della Cucina), la cultura di chi ha studiato la storia di una città antica di ventisei secoli (che includeva gli aspetti più inquietanti dell’esoterismo partenopeo) e la simpatia tipica dei migliori attori napoletani. Insomma, di Mario Buonoconto – pittore, restauratore, docente di storia dell’arte e, cosa da non sottovalutare, maestro massone – non si buttava via niente, neanche i difetti.

    8189.jpg

    Carta topografica di Napoli, disegnata nel 1566 da Antonio Lanfrery a Roma e recante nel cartiglio l’intestazione «Quale e quanta importanza e bellezza sia la nobile città di Napoli…» (museo di S. Martino di Napoli).

    In quell’incontro, mi donò una copia autografata del suo Napoli esoterica e un foglio – scritto a macchina – su cui aveva annotato quattro possibili itinerari esoterici a Napoli. Quegli itinerari costituirono la base dei tour che organizzammo per i soci dell’Archeoclub e che, in due casi, videro il professor Buonoconto nei panni di guida turistica d’eccezione. Un’esperienza, per chi la visse, indimenticabile.

    Herr Professor ci ha lasciato nel 2003 – appena tre anni dopo averlo conosciuto – ma io quel foglietto con gli itinerari ce l’ho ancora e siccome nel 2016 ricorrono vent’anni dall’uscita di Napoli esoterica – divenuto, nel frattempo, la Bibbia di ogni associazione culturale napoletana che voglia organizzare tour esoterici a Napoli – mi è parso non solo opportuno, ma doveroso tessere la trama di questa guida intorno a quella scarna ancorché succosa traccia lasciatami dal Maestro.

    Gli itinerari sono cinque, anche se l’ultimo non va fatto né a piedi né in automobile, ma… a tavola.

    Partiremo dalla costa e tra Mergellina e il monte Echia ci soffermeremo sulla fondazione leggendaria della prima città, Partenope, con le sue sirene e i suoi poeti-stregoni.

    Con il secondo itinerario invece raggiungeremo il cuore della città che sorse a sud-est e che fu ribattezzata Nuova Città, Neapolis: ci aggireremo per i decumani e scopriremo come, tra le altre cose, un tempio egizio sia diventato una cappella esoterica.

    Giunti quasi al limitare della città greco-romana, ci soffermeremo con il terzo itinerario sulla zona di Forcella e di via Duomo, l’antico cardo noto come vicus radii solis, dove in epoca romana si riuniva una comunità di adoratori di Mitra.

    Con il quarto itinerario risaliremo via Duomo fino a via Foria e al quartiere Sanità, con il suo borgo Vergini, il cimitero delle Fontanelle e gli ipogei di epoca ellenistica.

    Ma è il quinto itinerario che affronta, forse per la prima volta in maniera sistematica in un libro (ce ne sono tanti) che si occupi di esoterismo a Napoli, un argomento che è parte integrante del concetto stesso di sacro: il cibo. Vedremo come alcuni dei più famosi piatti napoletani, dei più succulenti dolci o dei più famosi liquori, abbiano un’origine antica, spesso legata a culti scomparsi o assorbiti dal Cristianesimo. Scopriremo cosa nascondono la sfogliatella e la pastiera e per quale motivo sant’Antonio è sempre accompagnato da un porcello; oppure quale fosse l’antenato del casatiello pasquale, dei mostaccioli di Natale e delle lasagne di carnevale. Il tutto strizzando sempre l’occhio a culti e credenze solo apparentemente scomparse.

    Il professor Buonoconto avrebbe apprezzato molto l’ultimo itinerario e, fosse stato ancora fra noi, il suo aiuto sarebbe stato preziosissimo. Ma tant’è, se è vero che per ogni cosa c’è una stagione, penso sempre più spesso che la stagione giusta era quella che ci siamo lasciati alle spalle. È solo che non eravamo ancora preparati. E così la breve stagione durante la quale ho avuto modo di trascorrere alcuni indimenticabili momenti con Mario Buonoconto sarebbe dovuta essere solo propedeutica ad altri e più intensi studi da condurre insieme. E invece non ce n’è stata un’altra. E ora sono qui a tirare fuori dal poco che ha lasciato scritto e dai miei ricordi una sapienza verace che nessun libro potrà mai comunicarmi. Scrivere questa guida significa per me cercare di fregare il tempo e creare una stagione che non c’è mai stata, pomeriggi immaginari di scambi di opinioni e chiacchiere esoteriche che mi consentissero di approfondire quelle poche, preziose informazioni che Mario Buonoconto aveva gettato nel mio animo come scintille pronte a scatenare un incendio.

    Scrivere questa guida è un po’ come riportare indietro il tempo. Come se, tutto sommato, fossi ancora lì, in quel bar al Vomero, a bere un caffè con lui.

    Martin Rua

    Primo itinerario

    Dalle sirene fondatrici alle mummie aragonesi

    9424.jpg

    Una sirena all’origine di tutto?

    Ogni città o monumento antico che si rispetti ha un qualche mito all’origine della sua fondazione o che spieghi perché, a un certo punto della sua storia, abbia iniziato a tributare culti per questa o quella divinità: all’origine di Roma, per esempio, ci sarebbe il solco tracciato da Romolo grazie a un toro e a una vacca (il maschile e il femminile); mentre nasce da uno scontro tra Atena e Poseidone la scelta dei cittadini della più importante città greca in favore della battagliera dea, piuttosto che del capriccioso dio dei mari. Anche Napoli, naturalmente, ha il suo bel mito di fondazione, forse di origine greca. Bisogna aggiungere una dose di dubbio, infatti, giacché non possiamo avere la certezza che prima dell’arrivo dei coloni euboici, non esistessero già dei culti simili a quello di cui stiamo per occuparci.

    Il culto della sirena.

    panorama2.jpg

    Panorama di Napoli da Posillipo.

    La prima città fondata dai coloni greci sui lidi dove, da circa ventisei secoli, sorge la città di Napoli fu chiamata, come si sa, Partenope, la verginale, nome, secondo il mito, di una sirena. Una delle versioni più letterarie di questo legame tra la città e il suo totem si ricollega all’Odissea e al famoso episodio del canto ammaliatore delle sirene. La storia è nota: Odisseo, che la sapeva lunga in fatto di trucchi per raggirare gli dèi, fa tappare le orecchie dei suoi compagni con della cera, mentre lui, padiglioni auricolari al vento, si fa legare all’albero della nave per ascoltare il canto delle tre sirene – Leucosia, Ligea e Partenope – senza impazzire e gettarsi tra i flutti. Lo stratagemma riesce, la nave passa incolume per il tratto di mare dove le sirene avevano la loro dimora, quegli isolotti che, sempre secondo questa versione del mito, sarebbero da identificarsi con quelli di Li Galli¹, poco distanti da Positano, in Costiera Amalfitana. Le sirene, piuttosto suscettibili, non mandano giù il boccone amaro per aver fallito nell’impresa di ammaliare il re di Itaca e si suicidano. I loro corpi vengono spinti dai flutti in direzioni diverse e quello di Partenope approda sui lidi dove una città, da poco fondata, sarà chiamata proprio come lei, in suo onore.

    Ma che aspetto avevano queste creature mitiche dal canto assassino? Non certo quello rassicurante della Sirenetta della Disney, ma piuttosto quello inquietante delle arpie: busto e testa di donna, zampe e ali di uccello. Un vero e proprio monstrum. Ci sono numerose testimonianze vascolari ritrovate tra il golfo di Napoli e la Costiera Amalfitana – dove il culto delle sirene era molto forte – sulle quali è visibile l’arcaico aspetto di queste creature², ma c’è anche una famosa fontana dove poter ammirare una Partenope tutt’altro che pisciforme.

    Dalle parti della sede centrale dell’Università degli Studi di Napoli "Federico

    II

    " in corso Umberto

    I

    , c’è una stradina (via Giuseppina Guacci Nobile) dove si può, infatti, vedere la fontana Spinacorona, attestata per la prima volta in un documento del 1498 ma sorta probabilmente sul luogo di una precedente e antichissima fontana, fatta restaurare successivamente da don Pedro de Toledo. In cima a un fiammeggiante Vesuvio, c’è la nostra sirena Partenope (una copia, l’originale è al museo Certosa di San Martino), nel suo aspetto di monstrum mezzo donna e mezzo uccello, che spegne gli ardori del vulcano con l’acqua che sgorga dal seno (da cui il soprannome con cui è più conosciuta a Napoli di fontana delle zizze). Nell’idea del viceré, che volle appunto restaurarla, la dolcezza del canto della sirena (non a caso sulle balze del Vesuvio è presente anche una viola, a richiamare l’importanza della musica) avrebbe dovuto moderare non solo gli ardori del vulcano, ma anche quelli dei napoletani.

    Forse don Pedro non sapeva più quale santo pregare, in un periodo in cui san Gennaro non aveva ancora placato il vulcano con i suoi poteri, il culto di Virgilio si era ormai affievolito e la Madonna non aveva compiuto fino ad allora miracoli in merito³.

    Insomma, tanto valeva votarsi alla cara, vecchia Partenope, un nume tutelare che prendeva i problemi di petto!

    C’è ovviamente anche una lettura del mito che trascende l’aspetto mitologico della vicenda e cerca di capire se un qualche personaggio storico con quel nome possa aver dato origine alla leggenda della fondazione di Napoli. È possibile, in altre parole, che una fanciulla di nome Partenope, figlia di Eumelo, uno dei coloni greci, fosse giunta sui lidi campani insieme alla piccola flotta ellenica, fosse morta in giovane età per cause che, forse, non conosceremo mai e le fosse stata a un certo punto intitolata la nascente città. Sembra che fossero stati istituiti anche dei giochi in onore della fanciulla/sirena, forse la forma embrionale di quelli che diverranno, con Augusto, i Giochi Isolimpici di Neapolis.

    C’è anche chi⁴ ritiene, a buon diritto aggiungerei, che mito e storia abbiano travisato l’origine forse più misteriosa ed esoterica di Partenope, trasformando in sirena o in sfortunata fanciulla greca quella che in realtà non era altro che una costellazione: quella della Vergine. Lo sostiene, tra gli altri, Giuseppe Sanchez nel suo libro del 1833, Napoli antri e misteri, divenuto un classico:

    Che Partenope fosse l’emblema della costellazione della Vergine e riputata una Divinità, ce lo dice Dionisio Afro. Egli la chiama Dea casta e la fa sorgere dal mare. A lei si offrivano le biade, come a Cerere. […] Eumelo, padre di Partenope, non era che il Sole quando percorreva il segno della Vergine. […] La Vergine costellazione veniva chiamata dai Greci Parthenos, e Partenope la rappresentava certamente fra noi. Il volto di Partenope, come delle altre Sirene, era figurato con quello di una vergine: ce lo afferma lo stesso nome⁵.

    Strabone, Licofrone, Plinio e dopo di loro il Pontano sono alcuni degli autori che riferiscono della presenza nella greca colonia di Partenope di un sepolcro della sirena. Ma il Sanchez sospetta che dietro parole come monumentum (Strabone) o tumulus (Plinio) non si celasse davvero un sepolcro ma un qualche edificio sacro che di Partenope perpetuasse la memoria più che conservarne le spoglie. Un cenotafio o magari un tempio. Un tempio dedicato alla Vergine. E proprio di un sacello parla Licofrone il quale

    ci fa sapere che Partenope ebbe a Napoli un tempio e che le si offrivano delle biade per primizie della nuova raccolta, le si facevano sopra i suoi altari le libazioni, le si sacrificavano dei bovi, e a di lei onore erano istituiti solenni giuochi. Le donzelle solamente erano elette per ministrare il santuario. Tutto ciò indica che Partenope, come abbiamo detto da principio, era riputata ed adorata per Dea, e che inoltre rappresentava la costellazione della Vergine, sia per i sacrificii che le si facevano, sia per le persone che erano impiegate per di lei sacerdotesse⁶.

    C’è anche chi ha ipotizzato che il sepolcro di Partenope si trovi da qualche parte nelle fondamenta del teatro San Carlo di cui, a distanza di millenni, sarebbe diventata il nume tutelare, facendo sì che in quel luogo fosse concentrata la più alta e sublime forma d’arte umana: la musica. Ipotesi non più azzardata di altre se pensiamo che il mare è vicinissimo al massimo teatro napoletano, il che ci consente di azzardare che in quel luogo potesse sorgere se non proprio un sepolcro, almeno un sacello dedicato a questa antichissima divinità (perché di questo si tratta, ormai l’abbiamo capito), legata al mare, al canto e alle arti divinatorie⁷. Non a caso sul frontone del San Carlo è presente un gruppo scultoreo dedicato a Partenope, ma la sirena è anche stata riprodotta nel bellissimo rilievo che fa da cornice all’orologio del boccascena, nella platea, dove la mitica fondatrice di Napoli è intenta a combattere una tirannica personificazione del tempo.

    Chiudo con una curiosità: durante gli ultimi lavori di restauro del San Carlo (2009-2012), in quello che è attualmente il caffè Opera sono stati trovati dei pozzi profondissimi di cui non si è ancora capita la funzione.

    Chissà che scendendo in fondo, un giorno, non si scoprano i resti di un certo sacello…

    Il monte Echia, le grotte platamonie e il Castel dell’Ovo

    Ora, senza addentrarci troppo nei miti di fondazione di Napoli, già affrontati in numerosissime e validissime pubblicazioni, lasciando al lettore la scelta ultima se riconoscere in Partenope una sirena, una fanciulla o una dea-costellazione, spostiamo la nostra attenzione su quella zona della città che, secondo le ricostruzioni degli studiosi, potrebbe aver ospitato la prima colonia greca, Partenope.

    Il monte Echia e le grotte platamonie

    Che siano stati i cumani, i rodii o i teleboi, sembrerebbe assodato che i primi coloni greci si siano stanziati tra l’isolotto di Megaride – dove sorge il Castel dell’Ovo, per intenderci – e il dirimpettaio monte Echia – la collina tufacea ormai inglobata negli edifici che tra il Settecento e il primo Novecento ridisegnarono l’area insieme alla colmata a mare che diede vita a via Partenope. Il monte Echia – noto tra i napoletani come Pizzofalcone, dal profilo della collina simile a quello di un rapace – ha restituito a partire dal 1949 un’enorme quantità di reperti dell’

    VIII

    e

    VI

    secolo a.C., grazie al ritrovamento, da parte dell’archeologo Mario Napoli, di una necropoli. Sappiamo quindi che in quell’epoca la collina era abitata ed è ragionevole pensare che fosse proprio il luogo dove sorgeva Partenope: circondato per tre lati dal mare, con l’isolotto di Megaride come avamposto, la collina di Pizzofalcone era strategicamente favorevole. Proviamo infatti a immaginare come doveva apparire quella zona, nell’

    VIII

    secolo a.C.: un isolotto tufaceo proteso verso il mare a difesa di una collina dalle pareti scoscese alla base della quale erano ben visibili alcune grotte (ci torneremo fra un attimo). Tutt’intorno, la natura rigogliosa del Mediterraneo.

    Il luogo perfetto.

    8159.jpg8160.jpg8125.jpg

    Il presidio di Pizzofalcone in un’incisione di P. Petrini.

    I coloni si danno da fare, fondano la città – forse parte sull’isolotto di Megaride e parte sulla collina di Pizzofalcone o monte Echia – e la dedicano a Partenope. Dovettero erigere anche un tempio o un monumento funebre (un sepolcro?) per la protettrice della giovane colonia. Secondo qualcuno⁸, le vestigia di questa costruzione potrebbero essere ancora visibili sulla sommità del monte Echia dove, tra erbacce e calcinacci (ah, l’incuria per i nostri monumenti è così deprimente!), si trova una specie di podio al centro di quello che sembrerebbe essere un piccolo luogo di culto di forma circolare che, nell’antichità, doveva avere un tetto di legno e paglia. Il sacello, di probabile epoca preellenica o magari risalente proprio alla fondazione di Partenope, avrebbe goduto di una vista mozzafiato, affacciato sul golfo, con il Vesuvio a sinistra, la collina di Posillipo a destra e al centro Capri.

    Ma non solo.

    Ai piedi del monte Echia, infatti, come già accennato, si trovava tutta una serie di aperture, note come grotte platamonie – cioè scavate dal mare – che furono sicuramente abitate già in epoca preistorica. Quel che a noi interessa, però, è l’uso singolare che di queste grotte si fece a partire dall’epoca romana, o più verosimilmente anche da prima. Nelle parole del professor Buonoconto:

    Anche in queste grotte antichissime come in quella famosa di Piedigrotta, si consumarono riti orgiastici di origine priapica, che contemplavano la fecondazione della menade, incoronata da un serto d’evera ’e mare (alga marina usata anche nella cucina povera napoletana), ad opera di uno Jerofante vestito – si fa per dire – da uomo-pesce e a sua volta nimbato di vegetali marini⁹.

    Che le cose andassero proprio così, che avvenissero rituali (licenziosi o meno) non abbiamo la certezza, non essendo stato trovato alcun reperto in merito, ma la ricostruzione del professor Buonoconto è verosimile e fa il paio con testimonianze di scrittori del passato. È giusto il caso di rammentare l’ecloga

    V

    delle Pescatorie di Jacopo Sannazaro (1457-1530) che nei primi versi parla proprio di queste suggestive grotte e delle divinità alle quali erano consacrate:

    Sed iam vulgatos et nos referamus amores:

    Quos pariter grata scopuli pendentis in umbra

    Hinc Dorylas, hinc Teleboi maris adcola Thelgon

    Certantes docuere. Quibus cava litora, et ipse

    Aequoreus Platamon sacrumque Serapidis antrum

    Cum fonte, et Nymphis adsultavere marinis¹⁰

    Il Sannazaro ci informa della presenza di un tempio dedicato al dio Serapide, il cui culto era assai diffuso in Campania, e di una fonte (cum fonte…), una delle tante che si trovavano¹¹ (e ancora si trovano) proprio in una delle grotte Platamonie. Ma il poeta dell’Arcadia è solo uno dei tanti che hanno accennato alla presenza di sacelli pagani nelle grotte. La maggior parte delle fonti è contraddittoria, certo, ma più di un autore riferisce di un tempio dedicato a Serapide, divinità greco-egizia il cui culto era assai diffuso a Napoli. Carlo Celano, per esempio, uno degli studiosi più preziosi (poiché testimone oculare) sulla Napoli del

    XVII

    secolo, a proposito della chiesa di Santa Maria a Cappella Vecchia, racconta che la stessa fu edificata proprio nel luogo dove «si venerava un falso sole», in riferimento alla presenza di un sacello in onore di Serapide:

    … qui è da sapersi, che questo luogo prima era un tempio dedicato a Serapide o ad Apis, perché Serapide altro non vuol dire, che sepolcro d’Apis, se in greco seros vuol dir sepolcro, ed apis quel Dio che era dagli Egizii venerato come lor principale tutelare: e questa venerazione non solo gli fu data da questa nazione, ma anco da’ Greci, ed in conseguenza da’ Napoletani gentili [cioè pagani, n.d.r.] che da’ Greci traevano l’origine, e de’ + imitavano i costumi. Questi come nume l’adorarono, e gli costituirono, come era loro solito, in questo luogo un tempio, che era un’antro fuori della città, ricavato in un monte […].

    Di questo tempio ve ne sono rimaste le reliquie, e sono l’andito segreto al detto tempio, che sta nell’entrare a man destra della chiesa […] e va a terminare dietro del giardino della chiesa già detta, dove si vede un’incavatura nel monte a forma d’una gran nicchia; e credo bene che fosse stata la parte deretana del detto tempio¹².

    Il Celano giustamente sottolinea il fatto che quel sacello, costruito in quell’antro, si trovasse fuori della città di Neapolis (ma forse non tanto distante dall’antica Partenope) in un luogo cioè riservato, dove i fedeli del sincretico dio Serapide¹³ potevano praticare il loro culto in tutta tranquillità.

    A proposito dell’accesso al tempio e dei resti, è lo stesso Giovanni Battista Chiarini, che curò nell’Ottocento l’opera del Celano, ad aggiungere altri dettagli:

    Vi si entra per un cunicolo largo circa palmi sette e mezzo e lungo palmi cento; perciò molto basso, stretto e sommamente oscuro, oltre il quale attualmente è aperta la spelonca, e dai tagli irregolari si vede essere stata la parte anteriore allargata per renderla luminosa e servibile a qualche uso, come or quello di esser fittata a molte persone che vi esercitano l’arte di filar lo spago.

    Non sarà inutile l’avvertire che poco più oltre l’imboccatura di quest’antro veggonsi sparsi e negletti sul suolo varii pezzi di marmi di greca architettura ivi portati per servire agli usi degli spagari. Chi sa che quegli avanzi non abbiano appartenuto a qualche opera architettonica fatta nell’antro dagli adoratori del Nume? Più ragionevolmente si ritiene esser stati portati via dal tempio di Serapide, che molti scrittori dicono che fosse situato poco più in là dell’antro di Mithra¹⁴.

    Oltre al tempio di Serapide, dovette esserci dunque anche un mitreo, fatto che non deve sorprendere, condividendo le due divinità alcune caratteristiche solari, ma soprattutto una medesima fortuna a Neapolis. Alla notizia della presenza del serapeo data dal Celano e alla precisazione del Chiarini, fanno riscontro documenti medievali di epoca angioina in cui si legge che alcuni eremiti ricevettero in dono dalla regina Giovanna un pezzo di terreno e un orto…

    … che erano posti presso la riva del mare ac griptas Serapie et Palumbarie. […] Non sarebbe infondata congettura che il nome di Serapide, attribuito alla spelonca, prossima al castello [dell’Ovo], non tramandasse il ricordo che in quelle vicinanze, un tempo, sorgesse, come dicesi, quel tempio, che fu sacro al nume, o che pure nella grotta si esercitasse il suo culto¹⁵.

    8076.jpg

    Pianta del teatro della Neapolis in età romana, in cui

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