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Novelle della tradizione siciliana. II volume
Novelle della tradizione siciliana. II volume
Novelle della tradizione siciliana. II volume
E-book299 pagine6 ore

Novelle della tradizione siciliana. II volume

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Info su questo ebook

Il secondo volume del progetto "Novelle della tradizione siciliana" comprende, come il primo volume, quaranta novelle siciliane, raccolte a fine Ottocento nelle sotto parlate dialettali da Giuseppe Pitré e qui liberamente rielaborate in lingua italiana. I dialoghi e i lemmi caratteristici locali sono riportati fedelmente in dialetto e, poi, opportunamente tradotti per il lettore. Come nel primo volume, le storie sono interessanti, divertenti e coinvolgenti perché in ciascuna c'è sempre uno spunto di riflessione. Esse si riferiscono sia alla tradizione fabulistica che a racconti reali, mischiando personaggi reali ed elementi fantastici.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2019
ISBN9788827868898
Novelle della tradizione siciliana. II volume

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    Anteprima del libro

    Novelle della tradizione siciliana. II volume - Angelo Nocera

    Apuleio.

    IL PICCOLO FRATE

    (ERICE - TRAPANI)

    C’erano, molto tempo fa, due frati che, ispirandosi al carisma di S. Francesco, vivevano in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità. La loro vita, semplice e povera, si svolgeva perlopiù in un piccolo convento fuori dal centro abitato.

    Tutti gli anni, i due frati, ciascuno con la sua fede, partecipavano a ciò che la strada metteva loro davanti in lunghe giornate di cammino. Partivano, subito dopo la meditazione e la colazione, dall’ex convento dei frati cappuccini, lasciandosi dietro il mare e s’inoltravano nel bosco, dove, di solito, era prevista una sosta per mangiare.

    Caminannu caminannu {mentre andavano per viottoli scoscesi}, scenari e panorami mozzafiato riempivano gli occhi e i cuori dei due frati. Uno era già anziano; l’altro, invece, era molto giovane. Erano poveri ma capaci di meravigliarsi e di mostrare gratitudine!

    I due frati jianu a la cerca {andavano a elemosinare offerte}, soprattutto di cibo, che infilavano nelle loro pesanti bisacce. Lungo il cammino, questa esperienza molto intensa diventava una condivisione di fatica e di fraternità: il frate più giovane imparava ad ascoltare e a sintonizzarsi con i passi del compagno di viaggio più anziano; entrambi si rallegravano per il dono delle offerte ricevute che rendeva appagante ogni loro sforzo.

    Una volta sgarraru la via {sbagliarono strada} e inforcarono un viulazzu tintu tintuni {una strada insidiosa}. Le mulattiere erano perlopiù viottoli in terra battuta, costellata di sassi, che rivelavano ancor di più la natura del luogo. Esse, per natura e forme, permettevano ai viandanti di raggiungere i luoghi più nascosti e quasi inaccessibili. In passato, quando gli abitanti della zona dovevano trovare rifugio per sfuggire alla ferocia dei nemici, questi viottoli erano buoni sentieri di salvezza.

    I due frati salivano mano nella mano, senza dire una parola. Il più giovane, però, accortosi dell’errore, lasciò di colpo la mano del frate più anziano e, forse per paura, forse per timidezza, forse ancora per quell’insicurezza che possedeva, si girò verso il compagno più anziano e mormorò:

    Lungo il cammino, s’imbatterono per caso nell’enorme antro di una grotta. Posta a una cinquantina di metri sul livello del mare, la grotta era divisa in due grandi vani, separati tra loro da una stalagmite che si congiungeva al soffitto come un pilastro, grazie alla conformazione rocciosa presente sia all’interno sia all’ingresso.

    I due frati entrarono.

    Spinti dalla curiosità, cominciarono a guardare attentamente i penetrali e scorsero, con immenso stupore, una bestiaccia chi facía focu {che aveva acceso il fuoco}.

    I due frati non pensavano affatto che fosse un uomo!

    Lo strano essere aveva una mole massiccia più simile a un animale che a un uomo. Si muoveva adagio adagio sul vano rialzato della grotta, coperto da un soffitto piuttosto basso e digradante verso il fondo. Indossava una lunga tunica a campana e, con la mano sinistra, sembrava reggere qualcosa, forse un bastone.

    Quell’immagine, per alcuni segni distintivi, era somigliante a una delle divinità femminili cretesi!

    I massi, posti all’ingresso della grotta, sbarravano la strada agli ultimi raggi di  luce e si arrestavano definitivamente a pochi metri da quell’essere misterioso.

    Di colpo, ai due frati si sbarrarono gli occhi, lasciando le loro bocche semiaperte. Tutti i muscoli dei loro corpi s’irrigidirono per la tensione nel vedere il bestione che sgozzava imperterrito le pecore e le buttava con forza sul fuoco per cuocerle. Impossibilitati a qualsiasi reazione di attacco o di fuga, furono a un passo dalla morte per collasso.   

    Accortosi della presenza dei due frati, l’energumeno radunò le pecore in un’area poco profonda della caverna. Ostruì, quindi, l’apertura della grotta con un muricciolo di grossi sassi, sovrapponendovi dei cespugli spinosi. 

    Di là dal recinto, con gesti rapidi e precisi, separò i piccoli dal resto del gregge; poi, seguendo un rituale preciso, si mosse con disinvoltura tra il gregge, sgozzò altre venti pecore e le fece bruciare.

    I due frati fissarono gli agnelli sgozzati posti sul fuoco.

    Costretti a mangiare, di tanto in tanto, fissavano le mani del bestione. Ogni pezzo di carne che il ciclope ingurgitava passava attraverso il terrore dei due frati e delle pecore che continuavano a belare terrorizzate, mentre attendevano la loro sorte.

    Il linguaggio della sazietà del bestione si mischiava con la paura!

    Accabbata ca si manciaru tutti sti pecuri {subito dopo aver cenato}, i due frati si coricarono in un angolo della grotta.

    Il bestione, che intanto si era trasformato in demone, si alzò, afferrò un grosso masso e lo sistemò davanti alla grotta. Poi, si coricò in un angolo della grotta, non distante dal giaciglio dei due frati. Intanto, la sua mente covava crudeltà inaudite che solo un mostro poteva immaginare.

    All’improvviso, si alzò, impugnò un’asta di ferro molto appuntita, l’accostò al fuoco e, con essa, infilzò il frate anziano. Poi, lu jardiau {lo mise a cuocere} e pensò di mangiarselo con il frate più giovane.

    Il povero frate, pi lu scantu, si susíu {si alzò per la paura}, si sedette, afferrò un pezzettino di carne e finse di mangiare. Eludendo il controllo del bestione, il frate buttava a terra i pezzettini di carne.

    All’inizio, lasciò cadere per terra la carne per disgusto; poi continuò a farlo sempre più spesso, quasi per sfida, tanto che il movimento divenne più importante del pranzo in sé. Il frate lanciava il pezzo di carne e intanto fissava il ciclope, temendo una reazione. Silenzio e scambi di sguardi severi si alternavano.

    Lo squartamento degli inerti agnelli e del suo compagno di viaggio, trasformati in cibo, era un rito d’iniziazione al quale il frate, pur giovane d’età, non poteva assolutamente sottostare.

    Anche le battute del ciclope, succinte e saettanti come lampi nel buio della caverna, erano chiari esempi di ferocia!

    Durante la notte, il buon frate impugnò l’asta di ferro, la scaldò sul fuoco ancora acceso e, poi, la ficcò tra gli occhi della bestiaccia. L'occhi cci sbudiddaru tutti {gli occhi dell’animale schizzarono fuori}, il bestione cominciò a urlare paurosamente; poi, si mise una mano sulla testa e scoprì che sanguinava. Provò a divincolarsi, cercando qualcosa intorno ma, stordito dal dolore, desistette.

    Le sue urla, intervallate da ripetuti colpi di bastone che intanto si rompeva, non lasciavano adito a una possibile fuga del frate che, ormai, non lo vedeva più ma immaginava dove fosse dalle urla. Erano, infatti, urla tremende, disumane.

    Il frate, nel frattempo, aveva trovato nascondiglio tra la lana delle pecore.

    Il bestione, invece, procedendo tentoni, raggiunse il masso che ostruiva la grotta, lo tolse e cominciò a far uscire tutte le pecore, una per volta. Quando fu il momento della finta pecora, passò anch’essa. E, così, il giovane frate si trovò libero, fuori dalla grotta.

    Raggiunse la costa intervallata da baie spettacolari che racchiudevano un’acqua cristallina con sfumature che andavano dall’azzurro al verde, al blu scuro. Vide, davanti a sé, lo spettacolare panorama delle isole Egadi in una cornice incantevole. Alle falde della montagna, scorse una lingua di terra che sporgeva in mare e vi si curvava, dirigendosi verso nord.

    Era il porticciolo, circondato dalle casette bianche dei pescatori! 

    La pesca in questo luogo era produttiva e bastava al sostentamento degli abitanti. Alcuni pescatori, infatti, si dedicavano alla pesca del corallo con cui fabbricavano preziosi manufatti a imitazione di antichi cammei, a più strati e di diversi colori.

    All’estremità della lingua di terra, si scorgeva uno scoglio, spesso sommerso dalle onde del mare. Il frate vide numerose barche da pesca, ormeggiate intorno. Raggiunse quella lingua di terra e vide li vara {i pescatori} che scherzavano tra loro intorno alle barche. Si avvicinò ai pescatori e chiese:

    Lo autorizzarono a salire su una barca e il frate cominciò a raccontare ciò che era successo a lui e al suo confratello.

    Mentre il frate parlava, il bestione ferito arrivò al porticciolo.

    Si muoveva velocemente, quasi al trotto, seguendo comunemente traiettorie rettilinee. La sua testa, grande e massiccia, terminava in un grugno, con il quale lanciava una vasta gamma di suoni, che comprendevano grida e ruggiti, per comunicare tutto il suo dolore e la sua rabbia. L’emissione delle grida, inoltre, si accompagnava alla comunicazione olfattiva.

    Ai pescatori il bestione apparve subito tenace e pronto al combattimento.

    Lo rincorsero tra le barche. Il ciclope, braccato nella sua corsa, cominciò a menare fendenti verso l’alto e lateralmente, cercando di sventrare i pescatori. Poi, tenendo la bocca aperta, provò ad azzannare a ripetizione, infierendo sui corpi di chi aveva osato fermare la sua folle corsa.

    La rabbia del bestione aumentava a ritmi vertiginosi, facendogli serrare i denti e stringere gli occhi in uno sforzo che stentava a tenere chiusi. Stramazzò a terra, esausto. Poi, si alzò di colpo e riprese la sua corsa per raggiungere quella lingua di terra che sporgeva in mare. Imboccò un sentiero che si snodava tra pozze; con un balzo evitò un masso appuntito e sbucò in una piccola radura sormontata dalle onde che giungevano e si ritiravano.

    Lì, tremante, vide il frate che lo guardava incredulo. Il ciclope ebbe, in quel momento, il suo moto di gioia!

    La disperazione, invece, faceva capolino sul viso contratto del frate, mentre le lacrime segnavano le sue guance.

    Il bestione lanciò un urlo così potente che arrestò la corsa dei pescatori; poi chiuse gli occhi e aprì la bocca per azzannare il frate. Sentì, di colpo, sussultare la terra sotto i suoi piedi e tutti i punti di riferimento svanirono. Il bestione, spossato per la perdita di sangue che gli sgorgava a torrenti, cadde tra le onde del mare ed esse si colorarono di rosso.

    Si era scontrato contro un masso sporgente dello scoglio, in quel momento sommerso dalle onde del mare!

    Il bestione, in un ultimo convulsivo vigoroso sforzo, menò verso l’alto il suo ultimo fendente, si girò sul fianco e morì.

    I pescatori gridarono felici; il frate scappò via, agitando la sua borsa ed emettendo un suono triplicato di lietissime grida di gioia.

    IL CESPUGLIO DELLA RAPA SELVATICA

    (BORGETTO - PALERMO)

    A Borgetto, molto tempo fa, c’era una famigliola che viveva in uno stato d’indigenza impressionante. L’unica ricchezza in quella famiglia era  Vincenzo, il figlio che i due genitori avevano avuto dopo quattro anni di matrimonio. Tutti e tre campavanu riunu {erano affamati}, perché non c’era abbastanza cibo in casa. La fame sofferta dal povero Vincenzo era visibile in tutto il suo corpo. Bastava osservargli la bocca mentre continuava a ingoiare saliva, per capire che non mangiava da giorni!

    Il padre, dopo la crisi economica del ‘700, aveva perso il lavoro e, da allora, tutte le mattine si arrangiava andando in giro a cercare un tozzo di pane o un frutto per sfamare la famiglia, ma non sempre riusciva.

    Un mattino, non avendo chi vuscari nè chi manciari {più altro mezzo di sostentamento, né cibo per tutta la famiglia}, chiamò a sé Vincenzo e gli disse:

    Così fecero.

    Alimentarsi grazie al riconoscimento di piante spontanee commestibili era la norma per molte famiglie povere. La borragine, ad esempio, era una pianta spontanea, reperibile sia in primavera che in inverno. Le sue foglie erano una buona pietanza, specie se consumate dopo la bollitura. A volte, erano utilizzate per insaporire zuppe e minestre. Le foglie di ortica, invece, potevano essere raccolte in ogni momento dell’anno. Occorreva, però, munirsi di guanti per proteggere le mani. Il loro potere urticante scompariva dopo la bollitura e anch’esse erano utilizzate per la preparazione di zuppe e minestre. 

    Padre e figlio si misero subito in cammino.

    I posti migliori per raccogliere le erbe selvatiche erano i campi abbandonati, gli argini dei fossi, i bordi di sentieri, la macchia e i boschi. La raccolta non era assolutamente semplice, perché molte erbe vanno raccolte quando sono ancora piccole e tenere.

    Tutta la campagna, tuttavia, apparve ai loro occhi comu un cozzu munnatu {come una nuca ben rasata, senza capelli}: non c’era nemmeno un cavolo selvatico, un finocchio o una bietola!

    Avevano camminato per due miglia senza trovare nulla. Stanchi e amareggiati, pensavano già di tornarsene a casa, quando Vincenzo vide un bel cespuglio di rapa selvatica con il fusto così grosso che avrebbe dato loro almeno due giorni di cibo. Le foglie erano picciolate, di un colore verde acceso e, a tratti, pelose.

    Vincenzo, provò subito a strapparlo ma nun cci la spuntau {non riuscì}, tanta era forti chiantata {perché quel cespuglio aveva messo radici molto lunghe e robuste nel terreno}. Chiamò, allora, il padre che lo raggiunse in un battibaleno.

    Entrambi provarono a tirare, alternandosi più volte. Alla fine, il cespuglio si staccò dal terreno, lasciando, sotto di sé, un granni pirtusu 'n terra {una grande buca} da cui cominciò a salire tanto fumo e anche qualcosa di straordinario, simile ad un sacco nero.

    Che cosa era? Anzi, chi era?

    Da quella buca uscì un essere strano. Indossava una camicia di tela senza polsini e con collare molto alto e abbottonato, calzoni d’albagio al ginocchio, che si sbottonavano ai fianchi come quelli napoleonici, gambali stretti d’albagio, panciotto nero a mortaio, scarpe a punta rotonda, senza tacchi. Padre e figlio rimasero sorpresi e senza vuci ppi lu spaventu {sconvolti}.

    Poi, rivolgendosi al padre, aggiunse:

    Il padre di Vincenzo, costretto dagli eventi, appi a calari ‘a testa {fu obbligato ad accettare le condizioni dettate dal mago}.

    Prima di mandarlo via, lo strano essere con i calzoni d’albagio al ginocchio, per dar prova della sua generosità, si avvicinò al povero padre senza vuci {tanto sconvolto che non riusciva più a parlare} e gli sussurrò per rincuorarlo:

    Quando il padre di Vincenzo si allontanò da quel luogo, lo strano essere, che era un mago, trasformò il ragazzo in un pulcino. Poi, utilizzando tutta la carineria che si suole avere con i piccoli animali dalle piume morbide, lo fece salire sul palmo della mano e lo rinchiuse nella gabbia, insieme ad altri pulcini.

    Anch’essi erano giovanotti trasformati in pulcini dal mago!

    Il padre di Vincenzo tornò a casa e, dopo aver placato la collera della moglie, mostrando il denaro che il mago gli aveva consegnato, attese pazientemente un anno, un mese e un giorno per la liberazione del figlio.

    La notte che precedeva il riconoscimento e, quindi, la liberazione del figlio, gli comparve in sogno Vincenzo.

    Il padre sognò ancora di svegliarsi e di essere in ritardo all’appuntamento con il mago. L’ansia e il timore di perdere definitivamente il figlio avevano reso così realistico il sogno che si svegliò davvero, rimanendo alquanto disorientato.

    All’alba, partì subito per raggiungere la casa del mago.

    Mentre camminava, pensava al sogno fatto durante la notte e il disorientamento aumentava, anziché diminuire. Quello che aveva vissuto era solo un sogno o c’era qualcosa di reale?

    Giunse, dopo un po’, nella campagna che era comu un cozzu munnatu {come una nuca ben rasata}, trovò il cespuglio della rapa selvatica e lo strappò. Uscì fuori dalla buca tanto fumo e, con esso, quel sacco nero che, rapidamente, divenne il mago.

    Il padre di Vincenzo taliau {guardò} e s'affriggíu tuttu {rimase rattristato} nel vedere che i pulcini erano tutti bianchi, pigolanti, soffici e innocenti.

    Sparpagliati per la gabbia, i pulcini correvano da una parte all’altra in cerca di un introvabile riparo. Poi, 'ncugnàru tutti {si avvicinarono tutti insieme} ma uno fra tutti gli saltò sulla mano.

    Il padre di Vincenzo capì subito che quello era il segnale e, felice, esclamò:

    Il mago, cu tantu di nasu {sbalordito da quel riconoscimento in condizioni impossibili}, fu costretto a consegnargli il figlio.

    Padre e figlio lasciarono subito quella campagna.

    Per entrambi era un grande giorno!

    Il padre continuava ad abbracciare il figlio e Vincenzo, per manifestargli tutta la sua gioia, lo stringeva a sé e gli stampava baci sulle guance.

    Percorsero a piedi parecchi chilometri lungo sentieri e strade sterrate; scesero a valle e, infine, si addentrarono in un fitto bosco.

    Seguendo il sentiero dei giganti, chiamato così per le numerose piante ragguardevoli che si incontravano, Vincenzo si girò verso il padre e disse:

    Vincenzo si trasformò in un abile cane da caccia e cominciò a fiutare lepri e conigli a nun pò cchiù {a più non posso}. Poi, si lanciò in folli corse, sempre a caccia di prede.

    Davanti a lui, di colpo, scorse il codino di una piccola lepre che saltava nell’erba alta, continuò a correre, poi rallentò, si fermò e si voltò verso il padre. Azzannò la lepre e, raggiante come appena rinato, libero, incontenibile, corse incontro al padre per consegnargli la preda. E così continuò a fare con gallinacci, colombe selvatiche, uccelli che portava puntualmente al padre.

    In poco tempo, il padre di Vincenzo ebbe accanto a sé tanta selvaggina da far invidia ai cacciatori, peraltro tutti principi, baroni e figli di re, che incontrò, subito dopo, lungo la strada.

    Praticavano la caccia accompagnati da un selezionato entourage e da una moltitudine di cani. La caccia era per loro un gioco, anzi una prerogativa solo per nobiluomini. Avevano lasciato i lussi dei propri palazzi e l’ozio per immergersi nella natura trasformandosi in cacciatori. Potevano sparare a lepri e caprioli, tuttavia non avevano ancora preso niente e, perciò, erano disperati.

    Vedendo il padre di Vincenzo così carico di cacciagione, lo fermarono per domandargli:

    Il padre di Vincenzo con una mano afferrò il collare e con l’altra il denaro.

    Poveretto, non s’era mai sentito così felice!

    Aveva appena concluso il contratto più conveniente della sua vita! 

    I cacciatori, concluso l’affare, si allontanarono con il cane.

    Il padre di Vincenzo li seguì con gli occhi socchiusi, per non rivelare le intenzioni del figlio.

    Vide i cacciatori serpeggiare lungo il pendio della collina. All’improvviso, più nulla.

    La sagoma ondulata del paesaggio collinare copriva sia i cacciatori che i cani!

    Vincenzo, trasformato in cane, cominciò a rincorrere un coniglio e si portò a lu stracoddu {oltre i colli}.

    Appena capì d’essere fuori dalla vista dei cacciatori, disse:

    E così tornò ad essere il giovane Vincenzo.

    Nello stesso istante, arrivarono a lu stracoddu {oltre il colle} anche i cacciatori.

    Erano stanchi e affannati!

    Vincenzo guardava di sottecchi tutta la scena e si divertiva. Raggiunse il padre e, così, tornarono a casa con tanto denaro e molta selvaggina.

    Alcuni giorni dopo il rientro a casa, Vincenzo seppe da alcuni passanti che in un paese vicino si stava apprestando una fiera di animali.

    Si trattava, in effetti, di una sagra paesana molto sentita e vissuta da famiglie e bambini di diversi paesi e non solo.

    La fiera era una buona occasione per mostrare al pubblico cavalli agricoli da tiro pesante e rapido. Si potevano ammirare anche altri animali come pecore, capre, bovini, asini, suini di razza mora, pony e diversi animali da cortile.

    Vincenzo pensò che la fiera era una buona occasione per avere un cavallo tutto per sé. Chiamò il padre e gli disse:

    Padre e figlio si accordarono sul da farsi.

    Passarono ancora alcuni giorni e il padre condusse Vincenzo, che si era trasformato in cavallo, alla fiera.

    Che meraviglia!

    Capre sui carri adibiti al trasporto di animali, conigli stipati come sardine, cuccioli di cane con padre in bella mostra. Una capretta era mostrata alla gente, che si accalcava intorno. Un acquirente stringeva con forza le mammelle rigonfie della capretta e i suoi belati si diffondevano in tutta la strada tra le zoccolate dei cavalli al tiro dei calessi.

    Numerosi venditori avevano già occupato i posti migliori: erano arrivati presto, alle cinque del mattino. Gli altri si erano arrangiati ai margini della strada. Così la fiera era cresciuta, indisturbata.

    Da un paese della provincia era giunto persino un gregge di pecore. Queste erano avvolte nella lana non tosata.

    Le bancarelle esponevano finimenti per equini e un grosso carro siciliano, con tanto di cavallo da tiro e conduttore in costume.

    Si vendeva in blocco, conduttore escluso!

    Si udivano ovunque guaiti di cani da caccia, rumori di zoccoli e poi … odori di frittura rancida e grida

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